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#filamenti: dietro le quinte di quel “micro-universo” che è il teatro

Intervista. Siamo spesso portati a pensare al teatro come la creazione di un regista, un drammaturgo o un grande attore. Il teatro invece è un’arte dall’anima sociale dove diverse maestranze collaborano insieme per arrivare a creare il risultato finale. Ho intervistato il light designer Simone Moretti per farmi raccontare cosa significa fare uno spettacolo da un punto di vista differente

Lettura 6 min.
Lo spettacolo Link di Abc Allegra Brigata Cinematica

Ho frequentato il mio primo corso di teatro quando avevo sedici anni, ora ne ho cinquanta. Il teatro ha accompagnato come una maledizione tutta la mia vita. Dico ironicamente “maledizione” perché il teatro è sempre stato qualcosa che ho avuto bisogno di fare, anche quando non lo volevo più fare. Chi ha fatto mai esperienza di teatro, anche a livello amatoriale, sa di cosa sto parlando.

Fare teatro è una droga. È una droga per il corpo. Perché quando sali sul palco si scatenano una miriade di reazioni chimiche e alla fine dello spettacolo ti senti una divinità. È una droga per l’immaginario. Perché quando sei dentro il processo creativo di uno spettacolo, inizi a pensarci tutto il giorno. Pensi al tuo personaggio, alla storia che vuoi raccontare, a come dire una battuta, alle scarpe che metterai, al testo che stai imparando a memoria. Il teatro ti permette di veicolare contenuti, di parlare alle persone, di esprimere un tuo punto di vista sul mondo. Lo diceva bene il grande regista Peter Brook nel saggio del 1987 « Il punto in movimento»: «Ho spesso paragonato il teatro alla droga: due esperienze parallele, ma opposte. Chi si droga riesce a modificare le sue percezioni: anche il buon teatro, offre queste possibilità. L’esperienza che fa un drogato può apparirgli più ampia perché la vive da solo. L’esperienza teatrale è davvero più ampia perché per un momento l’individuo è elevato a uno stato di comunione con gli altri».

Con questo paragone, credo che Brook sottolinei un’altra caratteristica che rende il teatro irresistibile, ovvero che il teatro è un’arte sociale. È sociale perché mette insieme più persone in uno stesso spazio, perché mobilita contenuti mentre le riunisce e perché, anche in fase di produzione, è qualcosa che si fa, si crea, si costruisce con gli altri. Il teatro non si può mai fare da soli. Sempre Brook, nel bellissimo saggio sul teatro « Lo spazio vuoto », diceva che bisogna essere almeno in due: un attore che attraversa la scena e uno spettatore che lo guarda.

Tuttavia, anche se il teatro è un’arte sociale, tende a essere raccontato come il prodotto di un singolo, di solito un regista, un drammaturgo, oppure un grande attore. L’apporto creativo degli altri attori e di scenografi, tecnici, organizzatori e costumisti viene spesso nascosto o appiattito da tipo di narrazione che valorizza solo un singolo creatore. Non è che non sia vero che il modo del teatro sia pieno di personalità geniali, è che parlare di geni creativi non spiega nulla. È una scorciatoia facile per non entrare nella complessità di un discorso creativo molto più ampio e partecipato. Per chi volesse approfondire questo tema, e bazzicasse l’inglese io l’ho sviscerato nella mia tesi di dottorato.

In realtà il teatro è sia in fase creativa che in fase performativa un micro-universo, abitato da una moltitudine di professionisti diversi, la maggior parte dei quali fornisce un apporto ideativo fondamentale per la produzione. Ci possono essere: la o il regista, l’aiuto regista, la drammaturga, il produttore, le attrici e gli attori, la scenografa, il costumista, la light designer, la sound designer, il tecnico delle luci e del suono, il truccatore, il parrucchiere, il coreografo, il direttore di scena, l’attrezzista, l’organizzatore, l’ufficio stampa, gli addetti alla biglietteria, le maschere ecc. Tutti questi professionisti lavorano insieme in una grande orchestrazione per creare il momento in cui lo spettatore si accomoda sulla poltroncina per godersi lo spettacolo. In questa orchestrazione, che sicuramente è per la maggior parte a cura della regia, ogni professionista offre il suo apporto non solo tecnico ed esecutivo, ma anche creativo e di pensiero.

Un mestiere importantissimo nel mondo teatrale, veramente poco raccontato e quasi sconosciuto a chi non si occupa di teatro è, quello del tecnico teatrale. Il tecnico teatrale è un professionista versatile che si occupa di diversi aspetti tecnici e ideativi essenziali per la realizzazione di uno spettacolo. Per raccontare che cosa fa un tecnico teatrale e contribuire a una narrazione teatrale diversa, ho pensato di intervistare un professionista bergamasco che da molti anni cura la direzione tecnica di diversi festival cittadini tra cui «Orlando», «Experimenta» e «Festival Danza Estate».

Si tratta di Simone Moretti, light and sound designer, tecnico, creatore di scenografie e danzatore, esperto di Contact Improvisation e da qualche anno «Dance Well Teacher». Simone sviluppa la sua professionalità nell’ambito dello spettacolo dal vivo, interessandosi a diversi campi della tecnica e dei servizi teatrali, come il disegno luci, la composizione musicale elettronica, il video e la scenografia.

CP: In cosa consiste il lavoro del tecnico teatrale?

SM: Il lavoro del tecnico teatrale si divide in varie funzioni. Per esempio, quelle legate al lavoro dell’elettricista con basi di illuminotecnica, del fonico, del macchinista; ma anche le mansioni della scenotecnica e della produzione-gestione video. È un lavoro di squadra e prevede una sinergia di ruoli e competenze per arrivare all’allestimento di uno spettacolo. Spesso gli spettatori non vedono e non si rendono conto dell’enorme lavoro che c’è dietro la preparazione di una messa in scena. I tecnici lavorano anche per giorni all’allestimento di uno spettacolo che in scena durerà non più di due ore. È importante per un tecnico teatrale avere una formazione di base di tutte queste mansioni. Poi per tecnici che andranno a lavorare in teatri stabili o fondazioni teatrali, è fondamentale magari specializzarsi in una di queste aree. Una preparazione generale approfondita di tutte le mansioni è invece necessaria per un tecnico teatrale di compagnia. Infatti, un tecnico di compagnia si ritrova molte volte da solo o con la compagnia stessa a fare allestimenti, adattamenti per la messa in scena di uno spettacolo. In questi tipi di contesti una delle sue capacità – questo è anche stimolante – è quella di trovare una soluzione per adattare e rendere fedele all’originale l’allestimento illumino/scenotecnico dello spettacolo quando lo spazio cambia. Spesso, infatti, lo spettacolo va adattato, perché i teatri sono molto diversi tra loro sia come dimensioni che come dotazione tecnica e scenica, sia perché sempre più spesso capita di fare lo spettacolo in spazi non teatrali.

CP: Cosa fa il light designer?

SM: Il lavoro del light designer, sempre nell’ambito dei lavori tecnici del teatro, è un lavoro più artistico, di pensiero e di visione rispetto all’immagine. È come il direttore della fotografia di un film. Nel processo creativo dello spettacolo il light designer è a contatto con il regista o coreografo, legge il testo, assiste alle prove e si fa ispirare dai corpi e dal movimento, per dare forma all’immagine, alle transizioni, ai colori, alla poetica del gesto o della parola. Il light designer deve avere conoscenza dei vari proiettori, delle loro caratteristiche tecniche, dei filtri di colore, per poter scegliere quello adatto a ogni situazione. Inoltre, deve conoscere programmi che utilizzano il linguaggio Dmx per dialogare fra tipologie diverse di proiettori, analogici o Led, e per creare delle scene in cui ogni fonte luminosa avrà un suo colore, intensità, direzione.

CP: Che cosa ti appassiona di questo lavoro?

SM: Il processo creativo, dare forma e colore all’immagine, all’idea; la relazione delle varie parti che contribuiscono al processo. Mi appassiona il confronto artistico che porta alla messa in scena. Mi piace essere parte di qualcosa che può fare emozionare, interrogare, sorridere qualcuno seduto in platea. Un altro aspetto che mi appassiona è seguire la direzione tecnica di un festival. Mi piace tutto il lavoro di relazione con gli artisti e tecnici, che consiste nel trovare insieme a loro la formula per poter accogliere il loro spettacolo, per poter andare in scena. Spesso è necessario trovare delle mediazioni perché gli spazi sono diversi da quelli in cui è stato pensato lo spettacolo, per ridotte possibilità economiche e dotazioni tecniche.

CP: Cosa invece trovi pesante e si potrebbe migliorare?

SM: Spesso si lavora tantissimo. Non si contano le ore. È un lavoro fatto di passione, ma a volte non sarebbe male avere qualche aiuto in più. Purtroppo, le economie nell’ambito artistico nelle piccole o medie produzioni, festival, sono spesso risicate. Eppure, i tecnici di teatro sono super richiesti perché manca personale. Sarebbe bello istituire un corso scolastico professionale con indirizzo tecnico teatrale, è uno dei miei pensieri di questi ultimi mesi. Mi piacerebbe parlarne con qualche scuola professionale di Bergamo per capire la fattibilità concreta. Inoltre, sarebbe bello poter avere uno spazio del Comune di Bergamo da attrezzare per poter fare formazione alle compagnie, e permettere di sperimentare gli aspetti tecnici di uno spettacolo.

CP: Tu come hai cominciato?

SM: Ho cominciato durante il corso triennale del Teatro Prova come attore, non ricordo bene il perché, ma mi sono appassionato della parte tecnica e della parte illuminotecnica. Per molti anni questa è stata una passione e io facevo un altro lavoro. Ero rimasto però in quegli anni legato ad alcune realtà teatrali e di danza e avevo avuto la possibilità di portare avanti dei progetti artistici di vario tipo, anche se non in modo continuativo. Fino a quando negli ultimi anni ho deciso di farlo diventare un lavoro. Ho fatto un corso di illuminotecnica a Roma e poi un corso di drammaturgia e poetica della luce a Mondaino, presso la Residenza-Laboratorio l’Arboreto con il light designer Vincent Lounghemare. In quel momento si sono intensificati progetti con diverse compagnie e realtà come Teatro alla Scala e Fondazione Teatro Donizetti e ho cominciato le direzioni tecniche con “Orlando”, “Festival Danza Estate”, “Experimenta” a Urgnano e di un festival in Puglia, “La Luna nel Pozzo”. Così piano piano è nata una rete di relazioni che si è estesa molto.

CP: Consiglieresti questa professione a un o una giovane? Qual è a tuo parere il modo migliore per imparare?

SM: Come lavoro lo consiglierei. Lavorare nell’ambito artistico è spesso stimolante. Inoltre, con questo tipo di lavoro si può crescere portando avanti anche le proprie passioni all’interno di un progetto. Certo, è un lavoro che ti porta a non avere orari canonici. Però uno può capire in che ambito collocarsi a seconda delle sue esigenze. Per imparare ci sono diverse realtà a oggi che stanno proponendo corsi di illuminotecnica o di tecnico teatrale, anche Fondazione Donizetti ne propone uno. Ci sono poi corsi professionali, anche costosi, come al Teatro della Scala di Milano. Un’altra strada è contattare dei service che soprattutto nel periodo estivo, ma anche durante l’anno, hanno bisogno di personale e anche questo è un altro modo per avvicinarsi al mondo dello spettacolo. Partendo dal lavoro del tecnico teatrale si può poi far crescere la propria visione e passione artistica, non ci sono limiti alla propria creatività, e a quella degli altri.

Troverete Simone dietro le quinte di « Festival Danza Estate », rassegna storica bergamasca di danza contemporanea che tornerà dall’8 al 22 giugno, alla sua trentaseiesima edizione, con grandi nomi del panorama nazionale e internazionale e un cartellone di proposte di alta qualità dedicate al pubblico di tutte le età.

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