Per gli amanti della musica dal vivo, i festival estivi sono una sorta di paradiso. Ore e ore di concerti, con gruppi che si danno il cambio e il sole che lentamente cala dietro il palco, scandendo idealmente il tempo che manca all’esibizione degli headliner. Eventi unici, soprattutto se si va al di là dei grandi festival da migliaia di biglietti venduti e si cercano le realtà provinciali, spesso più “estreme” e underground.
Tra questi, il «Rock in Riot», che si svolge dal 2010 al centro sportivo «Il Tiro» di Martinengo, ha acquisito di anno in anno sempre più popolarità, grazie alla volontà dei suoi organizzatori di affiancare realtà musicali locali legate al punk e al metal a grandi nomi, nazionali o internazionali, che hanno fatto la storia della musica underground. Per capire meglio questa manifestazione, ho fatto due chiacchiere con Alberto Maccagni, musicista, appassionato di musica e fondatore del festival.
GT: Come è nato il «Rock in Riot»?
AM: «Rock in Riot» è nato dai classici “quattro amici al bar” che, dopo innumerevoli concerti in giro per tutta l’Italia, si erano stancati di prendere sempre la macchina. A forza di discutere della cosa, un giorno semplicemente ci siamo detti: «Proviamo ad organizzare qualcosa noi e vediamo cosa succede». Ovviamente la prima edizione è stata un disastro a livello organizzativo: è stata dura, a venticinque anni, partire da zero a organizzare un festival senza esperienze pregresse. Burocrazia, agenzie delle entrate… La logistica era ancora praticamente a zero. Non c’era nemmeno un’area feste vera e propria, quindi ci siamo dovuti inventare una cucina un po’ spartana. Però già dalla prima edizione, nel 2010, avevamo ben chiaro il livello qualitativo delle band che volevamo sul nostro palco e, soprattutto, la volontà di puntare sull’underground e sulle produzioni locali. Ricordo che come headliner chiamammo i De Crew, storica band hardcore di Milano e i Dufresne da Vicenza. Come apertura invece c’erano delle band locali, che è il concetto che portiamo avanti ancora oggi, cioè quello di mettere un headliner forte a livello italiano o internazionale accompagnato da delle realtà locali di Bergamo, Brescia, o Milano.
GT: Da quante edizioni portate avanti il festival e come è cambiato negli anni?
AM: «Rock in Riot» quest’anno arriva alla dodicesima edizione, ed è portato avanti da un team di tredici persone. Dal 2010 al 2016 io avevo il ruolo di promoter, ovvero la persona che prendeva i contatti con i gruppi. Questa potremmo definirla la «fase 1» del festival, che in quel periodo durava tre giorni, in cui la cucina era gestita da noi e alcune delle proposte erano più «pop». Dopo un anno di fermo, siamo ripartiti nel 2018 con me come presidente, un format ridotto a due giorni e con una proposta di street food. Questo per concentrarci maggiormente sulla nicchia della musica «pesante», il nostro target di riferimento e, onestamente, i risultati che abbiamo ottenuto in questi ultimi anni sono stati davvero sorprendenti.
GT: Come ti sei avvicinato al mondo della musica «pesante»?
AM: Il mio approccio col mondo del rock inizia quando avevo 10 anni all’incirca. Degli amici più grandi mi passarono delle cassette di musica che girava i tempi, dai Metallica ai Nirvana, e fu subito colpo di fulmine. Mi innamorai di queste sonorità perché erano davvero potenti e, ancora adesso, una cosa che cerco nella musica è proprio quella sensazione di potenza e di evasione. Ai tempi per me era una cosa diversa e capii subito che quella era la mia musica, perché mi piacevano da impazzire questi suoni così distorti e le voci urlate. Così, da lì a qualche anno, iniziai a suonare. La voglia di diventare musicista era forte e per anni ho suonato il basso e ho cantato, partecipando ad alcuni dischi di diverse band qua nella zona di Martinengo. Dal 2010, faccio parte del team del «Rock in Riot».
Parlando con Alberto, quello che noto è la voglia di mettere la musica al centro dell’organizzazione del festival. Avendo partecipato a diverse edizioni del «Rock in Riot», sono sempre rimasto colpito dalla capacità del collettivo di saper sempre rinnovare l’offerta di anno in anno, fosse anche per un singolo dettaglio in più rispetto al precedente. Dalle magliette dedicate a ogni edizione, alla ricerca delle band, si ha sempre la sensazione di andare a scoprire qualcosa di nuovo.
La forza dei piccoli festival è anche questa: la possibilità di vedere sul palco gruppi in fase di crescita che potrebbero arrivare a grandi risultati nelle stagioni a venire. I presenti possono così esclamare il classico: «Io c’ero» a testa alta e con tono fiero.
GT: Quali sono le novità di quest’anno?
AM: La novità principale è che abbiamo noleggiato un palco più grande, che piazzeremo nel campo da basket dove l’anno scorso c’era la zona street food. Sarà ovviamente munito di un impianto più potente. Quest’anno avremo ben due band che arrivano dagli Stati Uniti, ovvero i Nebula e i Total Chaos, quindi stiamo cercando di valorizzare un po’ di più l’aspetto qualitativo della musica che gli ascoltatori verranno a sentire. Stesso format ma palco più grande e volume più alto: onestamente non vedo l’ora di vedere il tutto in funzione durante il festival.
GT: Quale pensi sia il punto forte di questa manifestazione?
AM: Sicuramente l’ingresso gratuito. Non è per nulla semplice portare delle realtà così grosse come band internazionali in un paese piccolo come può essere Martinengo mantenendo l’ingresso gratuito. Grazie al supporto comunale, gli sponsor e il nostro «cassetto» messo via negli anni, riusciamo a costruire un tipo di spettacolo che magari a Milano o in altri posti costerebbe 15, 20 o anche 25 euro a biglietto. Crediamo che questo sia importante perché permette a tutti di potersi godere il festival anche solo per curiosità personale. C’è stata gente negli anni che è arrivata per caso e ci ha ringraziato per aver scoperto band e generi che non conosceva. Senza l’ingresso gratuito questo sarebbe stato impossibile.
GT: C’è qualcosa che vuoi dire al pubblico di avventori del «Rock in Riot» 2024?
AM: Noi ci siamo, siamo carichissimi. Abbiamo ben otto band su due giorni, grandi nomi come Nebula e Total Chaos, certo, ma anche aperture di livello. Il venerdì ci sono i Vulbo sperimentali, e gli Horror Vacui per la prima volta a Bergamo da Bologna col loro Post Punk. Sabato partiamo subito alla grande con i Jamie Lee Cult, una delle realtà giovani della zona, per poi passare ai bresciani Slang Poor Kids, da noi dopo il tour in Indonesia. Poi ci sono i romani Short Fuse, teste di serie dell’hardcore italiano e i devastanti Hobos da Venezia. Insomma, ci sarà tanta bella gente con voglia di divertirsi e di fare un po’ di sano rumore. Noi vogliamo fare qualcosa che ci piace, uscire dagli schemi del marketing musicale e spingere qualcosa che ci diverte… per cui vi aspettiamo sotto il palco con noi.