Oggi, 18 marzo, è la Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’epidemia di covid-19.
La citazione morettiana “le parole sono importanti” calza a pennello per “Bergamo e la marea” (Minimum Fax). Il libro che il giornalista Davide Maria De Luca – prima a il Post, attualmente a Domani – ha dedicato a ciò che è avvenuto sul nostro territorio travolto dall’epidemia di covid-19. Nei mesi scorsi Bergamo e la sua provincia sono diventati un luogo-simbolo del contagio, colpiti duramente dal virus tanto che ad oggi non c’è quasi famiglia, soprattutto in Valseriana, che possa dire di non aver perso un proprio caro o un conoscente. Di Bergamo hanno parlato Le Monde e il New York Times, i giornali russi e quelli coreani; i necrologi, addirittura sino a tredici pagine in un giorno solo, si sono trasformati nella testimonianza di un dramma che si stava consumando senza che nessuno ormai potesse fare niente.
Alzano, il primo focolaio e la mancata zona rossa – su cui incombe ancora un’inchiesta giudiziaria – ma anche Bergamo, la provincia e le Rsa, luoghi dove si è consumato un dramma difficile a credersi. La morte è entrata nelle nostre case in tutta la sua potenza (bello il capitolo dedicato alla “Danza macabra” di Clusone) e forse eravamo meno preparati del necessario ad una simile ecatombe: abolita la morte come fatto inevitabile del nostro vivere civile, è rimasta solo l’angoscia, lo sconcerto quasi fisico per un accadimento di cui sapevamo poco o niente.
Sembrava ancora in Cina il virus ma era già qui e avrebbe fatto un macello. Un evento “esotico”, come lo furono in fondo la SARS e la MERS, che in pochissimo tempo è diventato casalingo, abitudinario: a quel punto il rito quotidiano della conta dei morti sarebbe stato l’unico rimasto, perché le persone morivano in ospedale, da sole, e non era possibile celebrare un funerale o un rito civile per ricordarle e segnare il passaggio dalla vita alla morte. Nell’azzurrità silenziosa di una terapia intensiva, interrotta solamente dai suoni digitali delle macchine accadeva tutto e nessuno, a parte il personale medico, poteva vedere. E poi quell’immagine dei carri militari carichi di bare: simbolica certo, ma era veramente necessario mostrarla? Dovevamo spiegare al mondo il dramma e intanto aggiungere angoscia ad angoscia a chi lo stava vivendo in prima persona?
De Luca racconta quei mesi terribili e lo fa con scrittura lineare, con quella sobrietà senza sbavature che avrebbero dovuto adottare tanti media, soprattutto televisivi – ricordo perfettamente l’oscenità della telecamera di un talk-show del giovedì sera in una terapia intensiva, intanto che le persone cercavano di non morire (e il personale sanitario a fare tutto il possibile affinché non accadesse). L’autore del libro risponde a tutto questo con uno stile che ha l’afrore sobrio del racconto, prende a modello Buzzati e Piovene, li riaggiorna ad un oggi crudele; interpella tante persone malgrado loro protagoniste (l’ex giornalista di L’Eco di Bergamo Isaia Invernizzi, il sindaco di Alzano Camillo Bertocchi, Giuseppe Remuzzi e molti altri fra imprenditori, lavoratori, sindaci e gente comune). Un intreccio di voci che alimenta la narrazione, la allontana da ogni pietismo o retorica di sorta. L’autore, insomma, fa semplicemente il suo (difficile) mestiere. Racconta, e non manca di citare le responsabilità di chi era alla catena di comando.
La caratteristica maggiore di “Bergamo e la marea” – oltre al titolo di cui parleremo poi – è la capacità di dare ordine ai fatti di un periodo tragico ma anche concitato e ipotizzare cause oltre quelle già conosciute: la provincia di Bergamo, un centro densamente produttivo e la sua forte etica del lavoro e del sacrificio, in mezzo un aeroporto internazionale molto trafficato; ma pure una popolazione molto anziana e la zoonosi delle zecche in Val Brembana. Di questo spillover, per citare Quammen, ne parla il medico infettivologo Benigno Carrara, oggi in pensione, diventato Presidente della Commissione medica della sezione bergamasca del CAI.
Ci sono delle domande che emergono dalla lettura di “Bergamo e la marea”. Non perché De Luca le ponga, ma perché per reazione la sua scrittura misurata e mai sopra le righe le induce. C’era un altro modo per parlare dell’invasione e qui lo scopriamo: non una “guerra”, come se il nuovo coronavirus avesse una qualche intenzione di eliminarci, ma una “marea”. Il ritorno di quel “mare padano” che circa cinque milioni di anni fa sommerse tutto, anche quella che allora non era ancora Bergamo – basta andare in Città Alta, magari in una serata di nebbia, e con un poco di fantasia è possibile rivederlo quel mare che oggi è la nostra pianura.
La marea, un fenomeno oceanico inesorabile, diventata metafora di un qualcosa che non si ferma mai e sommerge tutto ciò che incontra. “La marea non ha colpito tutta la provincia di Bergamo nello stesso momento, né allo stesso modo – scrive De Luca – Ognuno in città, nelle valli, in pianura ha un suo ricordo dell’istante in cui si è reso conto che non era più questione di sfuggire alle acque, ma solo di cercare di sopravvivere”. Ed è forse questa metafora acquatica – l’evento immersivo che ha ucciso persone, generato lutti, ma anche cambiato la nostra psicologia – l’intuizione più felice di Davide Maria De Luca nel raccontare “un cataclisma che ha travolto tutto ciò che trovava davanti a sé”. Lo dicevamo, “le parole sono importanti”. E spesso indicano il pensiero di un individuo o di una collettività sommersa in un mare padano plumbeo.