Da bambino avrebbe voluto fare il pilota di Moto GP ma la vita, come la migliore opera d’arte, segue direzioni tutte sue. Diplomato in scultura presso l’Accademia di Belle Arti di Brera, oggi Matteo Negri festeggia, tra «tanta bellezza e tante fatiche», il ventesimo anniversario della sua prima mostra. Dal 2003 ad oggi, l’artista ha lavorato in Italia e all’estero, a Parigi, Londra, Berlino, realizzando installazioni presso numerose gallerie d’arte, spazi pubblici, privati e fiere.
Mosso dalla volontà di analizzare il ruolo percettivo della superficie e del colore, sia nel campo della scultura che delle opere di natura bidimensionale, Matteo Negri si è sperimentato su e con materiali diversi, come l’alluminio, la carta colorata, il vetro. Oppure le pellicole cangianti, «che consentono, con il loro fascino magico, di andare oltre ad una visione statica e monolitica dell’opera». Ogni lavoro è frutto di un dialogo tra l’artista e sé stesso, prima ancora che con gli altri, come racconta sorridendo: «Nella mia esperienza, ho sempre cercato di dire qualcosa a me stesso, di trovare una relazione che fosse importante per me, prima di tutto».
Abbiamo raggiunto Matteo Negri in occasione dell’evento «L’Io, la creatività e l’AI», che lo vedrà ospite del festival « Bergamo Incontra » domenica 16 giugno alle 18, sugli spalti di Sant’Agostino in Città Alta. La serata consentirà a Negri di fare il punto sulle sfide affrontate sinora e sul ruolo della creatività, che dà origine al fare.
MM: Matteo, quali sono le componenti principali che definiscono la tua pratica artistica?
MN: Nello specifico, appartengo al mondo “un po’ scomparso” della scultura: sono sicuramente legato alla forma e alla materia, a quell’idea della scultura intesa come un’arte che si fa modellando e trasformando dei materiali: è stata una linea guida in tutti questi anni. In particolare, mi sono sempre lasciato incuriosire dalle immagini che la realtà ha suscitato in me. Penso a una delle mie prime serie: ho visto alcune immagini di mine sottomarine, che appartengono a dei residui della Guerra Fredda e della Seconda guerra mondiale. Questo oggetto mi ha incuriosito a tal punto da spingermi ad approfondirne le dinamiche. Così l’idea della sfera, l’idea di costruire qualcosa che fosse anche difficile – perché la ceramica ha delle dinamiche particolari, va scomposta, lavorata in un determinato modo. Sono nati questi primi oggetti dalle colorazioni infinite, colorazioni che li hanno resi qualcosa di assolutamente giocoso. Si è creata quindi questa strana relazione tra il gioco e la pericolosità della vita.
MM: Ecco, come si instaura la relazione tra l’opera e il messaggio che l’opera comunica?
MN: Quando sviluppo un’opera, mi accorgo che è il risultato di un discorso tra me, la mia idea e il materiale che utilizzo. Allo stesso tempo, quando mi accorgo che questo oggetto di fatto esiste, mi accorgo anche della necessità di comunicarlo ad altri. In qualche modo è una relazione che è tout court, non ha tanti passaggi. È evidente che quando vado a esporre, per esempio nel caso dell’installazione, una tecnica che ho usato spesso, si innescano altri tipi di relazioni, che non hanno un inizio o una fine completa, ma lasciano come “aperta una porta” per un proseguo. Le mine in ceramica, per esempio… le ho messe su dei tavoli da biliardo come se fossero delle enormi palle da biliardo, proprio per esprimere questo nesso con il gioco.
MM: Dalle mine in ceramica alle materie plastiche, dai nodi in resina al ferro: è il materiale che guida lo sviluppo dell’opera, oppure pensi all’opera e poi al materiale da utilizzare?
MN: Non c’è un’equazione perfetta. Spesso parto da un’idea, legata a un’immagine che vedo. La maggior parte delle volte si tratta di immagini che arrivano a me per caso e mi lasciano inquieto, mi fanno delle domande e queste domande, poi, si sviluppano attraverso dei materiali. Come diceva Michelangelo, «Non ha l’ottimo artista alcun concetto c’un marmo solo in sé non circonscriva»: dentro il materiale c’è già una poesia. Questa poetica va scoperta: ci si può piegare, con la tecnica e la tecnologia, davanti al materiale, avendo sempre in mente che ogni passaggio può aggiungere o sottrarre qualcosa. È una discussione che non è mai esaurita, un momento di continuo dialogo con la materia.
MM: C’è un’opera a cui sei particolarmente affezionato – o che non smette di comunicare qualcosa di diverso, visto che parliamo di discussione continua?
MN: Ho sviluppato tre cicli importanti: le ceramiche, le mine, i Lego. E poi ci sono i lavori con l’alluminio. Ultimamente sono intrigato dall’aspetto della “dimensione piatta” dell’opera, la dimensione visiva della scultura. La questione dell’osservazione, del “mettere in moto l’osservatore” è diventata sempre più importante. E questo per ritornare a un punto originale dove incontrando l’opera ci si scopre, si scopre cos’è la realtà, che cosa c’è intorno. Gli “specchi magici” che realizzo sono uno sprone a diventare partecipi dell’evento in sé.
MM: In uno dei cicli che hai ricordato tu stesso, quello dei Lego, il celebre mattoncino in plastica danese è diventato «L’Ego». Come è nato il tutto?
MN: La serie è nata durante un periodo in cui ero molto affascinato dai disegni dell’architettura, dei meccanismi che costruivano lo spazio, ingegnerizzavano le cose. Mi sono sempre chiesto quale fosse per me il modo più semplice per parlare di costruzione, finché non ho visto giocare mia figlia. Ho ritrovato un’idea semplice: l’idea che il Lego sia un archetipo del modulo, della costruzione. Da lì ho sviluppato un discorso prima con il legno, poi con il bronzo. Alla fine ho trovato nell’acciaio e nella modulazione, nella ricostruzione del Lego in formato macro una dimensione quasi “familiare”. C’è stata poi l’intuizione che noi osserviamo questi oggetti dall’alto, come dei giochi da bambini. Io li ho messi in verticale: i volumi sono diventati allora dei quadri che si vedono frontalmente, proprio come delle opere pittoriche. Se ci si sposta, appare il volume: si vede che sono sculture. L’idea di avere questo sfondo fatto in ferro, in acciaio cromato, ha fatto emergere questi volumi ancora di più. Ecco allora che l’io si intravede nella costruzione, si sente protagonista. Rispetto a quanto accadeva nel Medioevo, la soggettività è presente, è importante, perché costruisce sempre qualcosa, aggiunge.
MM: L’arte e la vita sono connesse? E a che punto credi si ponga l’intelligenza artificiale, in questa linea che unisce l’arte e la vita?
MN: Tutte le opere che faccio nascono da un concreto rapporto con le cose. Che arrivino da un mondo digitale o da una realtà concreta, le cose arrivano a me e diventano in me qualcosa d’altro, vengono assorbite. Rispetto all’intelligenza artificiale, direi che la creatività deve avere come punto di partenza la persona nella sua interezza. Leggere una poesia, trovarsi davanti a un’opera d’arte, sono esperienze che non possono essere filtrate dal digitale. Il digitale non riesce ad arrivare fino alla pienezza dell’esperienza visiva. La speranza dell’artista è che possa esserci sempre una persona fisica, presente davanti a un’opera… Se no che cosa faremmo le opere a fare?
MM: Vedo molti giovani approcciarsi all’arte contemporanea con tante domande. Credi che in qualche modo si debba essere formati all’esperienza artistica? E come?
MN: Una delle fortune di tutte quelle che consideriamo arti visive, è che hanno un diretto rapporto con la vista, con l’occhio. C’è una parte di linguaggio che va scoperta, ma c’è anche una parte di immediatezza che non si può spiegare più di tanto. L’arte scombina i piani, non è mai definita fino in fondo, come una poesia. Anche se ti spiegassi tutta l’opera, rimarrebbe sempre un qualcosa che è solo tuo, il tuo rapporto con quell’opera. Questa apertura va sicuramente lasciata, ma va anche spiegata. L’occhio umano, come tutti i sensi, va educato. Pensiamo per esempio a questo periodo della guerra, torniamo ai grandi momenti della storia dell’arte, a esperienze come quella di Picasso con «Guernica». Andare a rivedere come si è mosso l’uomo, come ha risposto alla provocazione della realtà, può essere più germinale di tante risposte già preconfezionate.
MM: A proposito di provocazioni… «Bergamo Incontra» porta nel titolo della sua quindicesima edizione questa domanda: «Per che cosa vogliamo vivere?». In che modo, con la tua arte, hai cercato di rispondere?
MN: Non mi sono mai soffermato troppo sui risultati che ho ottenuto, ho sempre vissuto ogni istante con l’idea che fosse una parte di una grande avventura. Questa avventura è la base di una certezza per cui le cose che succedono sono belle, sono fatte per me. Le fatiche, le sfide dei materiali sono sfide che si possono vivere, si devono affrontare, fanno parte di qualcosa di positivo per me.