LA FRUTTA DI FRATE ALBERIGO
IF XXXIII, 94 ss.
94 Lo pianto stesso lì pianger non lascia,
95 e 'l duol che truova in su li occhi rintoppo,
96 si volge in entro a far crescer l'ambascia;
97 ché le lagrime prime fanno groppo,
98 e sì come visiere di cristallo,
99 riempion sotto 'l ciglio tutto il coppo
Dopo l'invettiva contro Pisa, definita vituperio delle genti, Dante prosegue il viaggio nel Cocito nella zona detta Tolomea, dove sono puniti i traditori degli ospiti. Qui incontra Frate Alberigo, un Frate gaudente, colpevole di aver fatto strage dei suoi parenti dopo averli invitati a banchetto. Ai suoi sicari aveva ordinato di entrare nella sala per uccidere i commensali all'annuncio della frutta, da qui il detto «la frutta di frate Alberigo».
Dante si stupisce di vederlo all'Inferno perché lo credeva ancora vivo, al che Frate Alberigo spiega che i traditori hanno questo “privilegio”: una volta commesso il loro crimine un demonio si impossessa del loro corpo e lo abita fino alla morte, mentre la loro anima precipita nella Tolomea. Lo stessa sorte è toccata al suo vicino di pena, il genovese Branca Doria. Frate Alberigo, che ha le palpebre ghiacciate e soffre terribilmente, chiede a Dante di passargli la mano sugli occhi incrostati:
148 Ma distendi oggimai in qua la mano;
149 aprimi li occhi». E io non gliel'apersi;
150 e cortesia fu lui esser villano.
Dante rifiuta, giustificando il suo “essere villano” come una vera e propria “cortesia”, una forma di rispetto dovuto alla giustizia divina nel luogo dove “vive la pietà quand'è ben morta” (IF XX, 28).
Enzo Noris