LA DIVINA FORESTA SPESSA E VIVA
28.139 Quelli ch'anticamente poetaro
28.140 l'età de l'oro e suo stato felice,
28.141 forse in Parnaso esto loco sognaro.
28.142 Qui fu innocente l'umana radice;
28.143 qui primavera sempre e ogne frutto;
28.144 nettare è questo di che ciascun dice».
28.145 Io mi rivolsi 'n dietro allora tutto
28.146 a' miei poeti, e vidi che con riso
28.147 udito avean l'ultimo costrutto;
28.148 poi a la bella donna torna' il viso.
Con l'inizio del canto XXVIII, Dante, ormai autonomo, entra nella “foresta spessa e viva”, vale a dire nel Paradiso terrestre, l'Eden ritrovato. Le caratteristiche di questo luogo risalgono per un verso alla tradizione letteraria del “locus amoenus”, il luogo di delizie cantato da Virgilio nell'Eneide con il nome di Campi Elisi, ma anche all'esperienza diretta di Dante che ricorda la pineta di Classe, presso Ravenna, dove trascorse i suoi ultimi anni di vita. Al di là di un ruscello, il Letè, Dante vede una donna che cantando raccoglie fiori: si tratta di Matelda, figura variamente interpretata. Probabile allegoria della felicità terrena prima del peccato originale ma anche anticipazione di Beatrice, in quanto -leggendo specularmente il suo nome- MATELDA significherebbe AD LETAM, vale a dire “che conduce a colei che è felice”, cioè alla “beata Beatrix”. Dante ottiene da Matelda spiegazioni sulle caratteristiche del luogo: la brezza e l'acqua dei fiumi (si tratta del Letè e dell'Eunoè) non hanno origini fisiche ma dal movimento delle sfere celesti e dalla “fontana salda e certa” che è Dio. Matelda aggiunge, come corollario, che i poeti dell'antichità nel descrivere l'età dell'oro, hanno immaginato che questo luogo fosse il Parnaso, il monte delle Muse. Ancora una volta Dante, rilegge il mito antico alla luce della fede, ricollegando il “paradiso” dei poeti pagani all'Eden della tradizione giudaico-cristiana e collocando il “suo” Paradiso terrestre in cima alla montagna del Purgatorio, raggiungibile al termine del cammino di espiazione.
Enzo Noris