SPESSE FIATE RAGIONIAM DEL MONTE
22. 94 Tu dunque, che levato hai il coperchio
22. 95 che m'ascondeva quanto bene io dico,
22. 96 mentre che del salire avem soverchio,
22. 97 dimmi dov'è Terrenzio nostro antico,
22. 98 Cecilio e Plauto e Varro, se lo sai:
22. 99 dimmi se son dannati, e in qual vico».
22.100 «Costoro e Persio e io e altri assai»,
22.101 rispuose il duca mio, «siam con quel Greco
22.102 che le Muse lattar più ch'altri mai,
22.103 nel primo cinghio del carcere cieco:
22.104 spesse fiate ragioniam del monte
22.105 che sempre ha le nutrice nostre seco.
Nel resto del canto XXII Virgilio e Stazio ragionano di poesia e si intrattengono amabilmente parlando di quella che in vita era stata la loro «vocazione artistica». Dante assiste al colloquio tra i due letterati così come aveva fatto nel castello degli Spiriti magni, nel IV canto dell'Inferno; la differenza è che allora non ci aveva riferito i contenuti delle loro conversazioni mentre qui le riporta. Stazio, in particolare, chiede a Virgilio dove si trovino altri loro colleghi famosi come Terenzio, Cecilio, Plauto, Varrone.
Virgilio risponde che, insieme a molti altri - Omero compreso (quel Greco che le Muse lattar) -, si trovano come lui nel Limbo, nel cieco carcere, dove hanno come unica consolazione quella di ragionare spesso del monte delle Muse, cioè del Parnaso, sede e simbolo dell'ispirazione e dell'arte poetica. Virgilio, parlando del Parnaso, allude all'aspirazione all'immortalità, aspirazione che, nel caso suo e di altri Spiriti magni, non potrà realizzarsi nella vera immortalità, che solo la Fede e non l'ingegno può meritare.