SE IO VADO, CHI RESTA?
13.130 Ma tu chi se', che nostre condizioni
13.131 vai dimandando, e porti li occhi sciolti,
13.132 sì com'io credo, e spirando ragioni.
13.133 “Li occh”, diss'io,”mi fieno ancor qui tolti,
13.134 ma picciol tempo, ché poca è l'offesa
13.135 fatta per esser con invidia vòlti.
13.136 Troppa è più la paura ond'è sospesa
13.137 l'anima mia del tormento di sotto,
13.138 che già lo 'ncarco di là giù mi pesa”..
Prima di congedarci dall'episodio di Sapìa senese, la donna “Saggia” di nome ma non di fatto, vale la pena riferire un altro passaggio interessante: Sapìa chiede a Dante perché lui ci veda tra tanti ciechi, gli invidiosi con le palpebre cucite. Dante risponde che ci vedrà ma per poco, intendendo sottolineare la sua condizione di fragilità che lo accomuna alle anime espianti.
Certo, il pellegrino ammette che non è tanto l'invidia il peccato di cui si è macchiato in vita bensì la superbia, la colpa punita nella cornice precedente. In effetti narrano i biografi - in particolare Boccaccio nel “Trattatello in laude di Dante”, composto tra il 1351 e il 1355 - che Dante fosse piuttosto superbo ed avesse un'alta opinione di sé.
Significativo un episodio riferito proprio dal Boccaccio: occorreva nominare il capo della delegazione diplomatica che i Fiorentini volevano inviare a Roma presso il papa. La decisione cadde all'unanimità su Dante ed egli, tutto pensoso, davanti all'indecisione di alcuni avrebbe detto: “Se io vado, chi resta? E se io resto, chi va? Come se fosse lui il solo personaggio di valore o che conferisse valore a tutti gli altri”.