Montagna umile o «Disneyland»?
Modi diversi per sopravvivere

Il professor Biza approfondisce un tema sempre attuale: quanto i territori alpini devono o possono «snaturarsi» per garantirsi un futuro? E dov’è il confine tra «sviluppo» e parco divertimenti ad alta quota? Il dibattito è aperto, tra sentieri e rifugi con il menù «stellato».

Un po’ di storia.Per quello che studiosi e ricercatori hanno potuto incontrovertibilmente accertare, non c’è stato un solo momento, nella lunghissima storia del Pianeta, in cui si sia stabilizzata una condizione di statico e immutabile equilibrio naturale. L’evoluzione è stata continua, per lo più lentissima, fino a risultare quasi impercettibile, ma anche con qualche repentina accelerazione, tanto comunque da rendere del tutto senza senso parlare di uno stato di equilibrio naturale ideale. Ogni istante della storia ha avuto ed esprime il suo particolare e temporaneo equilibrio.

Per ragioni che qui non interessa ricordare, ma che chiunque può, se del caso, andare a rivedersi sulla vasta letteratura specializzata, il clima del Pianeta e, conseguentemente, lo stato dei mari, delle terre emerse e dell’atmosfera, hanno continuato, durante centinaia di milioni di anni, a modificarsi, producendo scenari che si sono venuti succedendo spesso in totale antitesi fra loro ma tutti assolutamente, ugualmente e legittimamente «naturali».

Le continue evoluzioni
Imponenti corrugamenti montuosi si sono nel tempo appiattiti per l’erosione, lasciando il posto a distese pianeggianti più o meno aride. Viceversa ampie originarie pianure si sono sollevate come altissime montagne che in taluni casi ancora oggi stanno crescendo in altezza di qualche centimetro all’anno. Deserti si sono succeduti a rigogliosissime foreste e viceversa. Cicliche glaciazioni si sono alternate a periodi di riscaldamento dell’atmosfera e della crosta terrestre, modificando continuamente le condizioni di sopravvivenza animale e vegetale, fino a determinare la scomparsa, fra l’altro del tutto naturale, di alcune specie e la comparsa, altrettanto naturale, di altre almeno temporaneamente più adatte.

Dell’australopiteco da cui discendiamo, così come di diversi animali del passato, come la tigre dai denti a sciabola o l’orso delle caverne, non sono rimaste che tracce fossili. Eppure il loro mondo non era meno naturale di quello in cui ha vissuto, negli ultimi duecentomila anni, l’uomo moderno, detto anche molto genericamente «di Cro-Magnon». E anche per quest’ultimo gli scenari ambientali in cui si è, almeno fin qui, riprodotto con successo, hanno costantemente continuato a cambiare.

Per parlare di montagna alpina, perché di questo si vuole principalmente chiacchierare, l’ambiente dei cacciatori raccoglitori nomadi, fino a diecimila anni fa, anno più anno meno, era un’ambiente frequentato dall’uomo solo per brevi periodi in estate e caratterizzato da foreste spontanee e da altrettanto spontanee praterie d’alta quota in cui ungulati erbivori e relativi predatori carnivori rappresentavano la presenza principale. L’ultimo e più recente periodo di deglaciazione, apparentemente tuttora in corso, ha poi finito per isolare sulle Alpi alcune specie, come i tetraonidi o come la lepre variabile o l’ermellino, tipicamente adatte al clima freddo e che infatti hanno seguito la retrazione glaciale fino in Scandinavia dove si ritrovano oggi, identiche a quelle alpine, nella fascia dell’estremo nord del continente euroasiatico.

L’avvento dell’agricoltura e dell’allevamento ha poi progressivamente consentito anche sulle Alpi insediamenti stabili di umani che oltre a continuare ad esercitare l’attività della caccia e della raccolta di frutti selvatici, hanno attivamente modificato lo scenario alpino, sostituendo le foreste spontanee con terreni dissodati e coltivati a cereali e a prato da fienagione e da pascolo o con boschi mono-essenziali (di solo faggio o di solo abete rosso per esempio), secondo appunto le esigenze alimentari e strumentali dei neo-coltivatori.

La mano dell’uomo
Parallelamente con le modificazioni ambientali introdotte dalla mano dell’uomo agricoltore e allevatore, si sono determinate coerenti modificazioni dell’assetto animale naturale, con la comparsa, anche sulle Alpi, di specie come la coturnice che prospera soprattutto in ambiente coltivato o pascolato, mentre sono venute progressivamente riducendosi le specie in qualche modo in competizione con l’uomo: gli erbivori selvatici, oltre che essere cacciati a scopo alimentare sono entrati in competizione con i bovini e gli ovi-caprini domestici.

Il culmine di questo nuovo «equilibrio naturale» si è avuto alla fine dell’800, quando sulle nostre Alpi e Prealpi le foreste erano ridotte ad aree minimali e, parallelamente, gli erbivori selvatici erano diventati rari. Sopravvivevano solo pochi camosci, mentre dei predatori carnivori, considerati apertamente «nocivi», lupi ed orsi si potevano considerare definitivamente estinti, così come sostanzialmente le aquile. Un anziano di Agneda, in valle di Scais, che aveva memoria dei primi del ‘900 mi raccontava, guardando stupito i boschi di betulle recentemente cresciuti su quelli che precedentemente erano stati pascoli, che quando lui era piccolo lì si faceva fatica a trovare la legna per «cagià» (riscaldare il latte per fare il formaggio).

L’abbandono della montagna

A partire dalla fine dell’800, l’avvento della civiltà industriale, ha progressivamente indotto una contrazione dell’attività agricola alpina e prealpina. I montanari hanno trovato meno faticoso e più remunerativo andare a lavorare in fabbrica piuttosto che in alpeggio e piano piano abbiamo assistito, nel corso del ‘900, al fenomeno del cosiddetto «abbandono della montagna». Prima sono state abbandonate le coltivazioni di bassa e mezza montagna, rese del tutto diseconomiche dalla meccanizzazione dell’agricoltura di pianura: i terrazzamenti che avevano rubato al monte preziose strisce di terra da mais o da segale sono stati progressivamente riconquistati dal bosco naturale e, nel corso della seconda metà del ‘900 si sono trasformati in vestigia nascoste, individuabili solo da un occhio esperto e particolarmente curioso. Poi sono stati progressivamente abbandonati anche gli alpeggi: se n’è salvato qualcuno solo perché ben servito da strade e dall’energia elettrica, ma complessivamente in estate su Alpi e Prealpi pascola oggi meno di un terzo dei bovini e degli ovi-caprini che vi alpeggiavano a metà ‘800.

Cascine distrutte e pascoli spariti
Di conseguenza sia le cascine dei maggenghi che le baite d’alta quota, non più abitate, sono state distrutte dall’incuria, i pascoli sono stati riconquistati dal bosco spontaneo e i sentieri che per secoli hanno costituito una essenziale rete di raccordo fra insediamenti alpini sono andati scomparendo.

Parallelamente nella seconda metà del ‘900 abbiamo assistito ad una ri-espansione degli erbivori selvatici, cioè di camosci, cervi e caprioli, che sono venuti a rioccupare gli spazi che negli ultimi secoli erano stati occupati da bovini e ovi-caprini domestici.
Quando io avevo iniziato a frequentare, da ragazzo, le nostre Prealpi, le montagne erano ancora spesso dei veri e propri giardini e guai a chi si azzardava, in primavera e d’estate, a mettere un piede nell’erba. Il clima, oltretutto, era generalmente più freddo. E i nostri pendii erano popolati soprattutto dalle coturnici e sulle creste era facilissimo incontrare voli di pernici dalle ali bianche. Orsi e lupi erano solo ricordi fiabeschi e, per la verità, non mancavano a nessuno, né agli alpigiani che ancora tenevano qualche animale al pascolo brado, né agli allora rarissimi frequentatori sportivi della montagna. E devo dire, in tutta sincerità, che se i montanari dell’800 fossero riusciti a sterminare, oltreché lupi ed orsi, anche vipere e calabroni, saremmo stati tutti loro ampiamente riconoscenti.

Quel luogo d’oltre frontiera
La montagna che ho conosciuto io da ragazzo era un paradiso, trattato come un tesoro, accessibile attraverso una rete di sentieri e mulattiere intelligenti e ben tenute, dove, non si sa come, non ci incontravi quasi mai nessuno ma tutti sapevano che eri passato, un paradiso sicuro di giorno come di notte, ma soprattutto un paradiso di libertà dove ciascuno, al di sopra dei coltivi, era libero di assumersi la responsabilità di affrontare la natura delle creste e delle rocce in tutta la sua affascinante promessa di sfida e di conquista. La montagna era allora un salutare luogo d’oltre frontiera, dove l’unica legge che vigeva era quella della natura, dove andavi senza che nessuno ti ci avesse invitato e dove prendevi su di te tutta la responsabilità del rischio e, insieme, tutta l’adrenalina del successo. Né divieti né regole, ma solo il limite naturale rappresentato dalla tua capacità e dalla tua fortuna. Impagabile.

Nessuno di noi può facilmente tollerare limiti che gli vengono imposti da altri esseri umani. Ma tutti siamo ugualmente sereni nell’accettare il nostro limite di fronte ad una parete strapiombante o a una cresta gelata dalla tramontana. Lì si impara dall’errore che solo per la grande fortuna quella volta non si è trasformato in tragedia. Si impara che il successo richiede preparazione e impegno e non arriva solo per caso. Impari a rinunciare. Impari la dignità intelligente della rinuncia, del differimento della gratificazione, dell’accettare che la cima non sia un diritto o che lo sia solo per qualcuno e non sempre neanche per lui. Perché poi c’è l’età della giovinezza, quella della maturità e quella della regressione naturale della vecchiaia. Per i più fortunati e per i più attenti.

Via gli abitanti, arriva la «gente»
Ora però stiamo assistendo ad un nuovo cambiamento. Anche la società industriale da segni di difficoltà e i montanari non trovano più posto in fabbrica. Si è però scoperto che la montagna non produce solo erba per brunoalpine ma può rappresentare, con il turismo, una discreta macchina da soldi.

A partire dalla seconda metà del ‘900 si è iniziato a perseguire una politica sempre più tesa a richiamare in montagna più gente possibile. Si sono fatti impianti di sci ovunque. Accanto agli impianti si sono costruiti condomini che legassero i clienti al territorio, almeno per alcuni periodi dell’anno. Poi viste anche le difficoltà dovute allo scarso innevamento (siamo in periodo di deglaciazione o no?) si è cominciato ad inventare di tutto pur di attirare una clientela che di suo non avrebbe avuto e non avrebbe una grandissima passione per la montagna, anzi, ma che è disponibile a farsi sedurre dalle proposte sempre più «disneyane» prodotte dalla fantasia di montanari veri tourist-manager.

Cascine rovesce dove l’umidità farebbe venire l’artrite anche a un ragazzo di quindici anni, diventano agriturismi ambiti, dove la gente compete per trovar posto e per vedere finalmente mungere una capra o assistere, incantata, al caglio di una caldaia di latte appena munto. I nostri vecchi vendevano il formaggio. Questi fantastici giovani imprenditori vendono emozioni. E sono bravissimi.

I rifugi, nati oltre un secolo fa, umilissimi e essenziali, per dare riparo agli alpinisti, ora sono diventati ristoranti tre stelle. Tre o quattro anni fa avevo fatto una passeggiata da solo nella zona del rifugio Brunone, tanto per tornare a camminare sulle creste della Scaletta e ritrovare i posti di grandissime emozioni di quando ero giovane. Ero poi passato al rifugio, più grande e accogliente di come me lo ricordavo, e mi ero fermato a leggere il menù del giorno appeso all’esterno: ragazzi, come «Da Vittorio». Fantastici.

Cosa vuol dire l’orso
Anche la storia dell’orso è in linea con la montagna «disneyana» che si sta imprenditorialmente perseguendo: la storia che la presenza dell’orso e del lupo certifichi di una situazione di salubrità dell’ambiente naturale e di un equilibrio ecologico ritrovato è con evidenza una patente cretinata. Nessun biologo serio direbbe mai una cosa del genere. Non qui, non nei nostri boschi dove a un habitat improbabile corrisponde un’antropizzazione istituzionalmente incapace di una convivenza con fiere di un certo calibro. La presenza o l’assenza dell’orso nei nostri boschi non cambia, sotto l’aspetto ecologico, assolutamente niente. La presenza ha per altro qualche vero rischio: tremo all’idea che un’orsa con i cuccioli possa incontrare una famigliola di gitanti in scarpe da tennis con bambini al seguito.

Tuttavia si è capito che per la gente attratta da una montagna «tipo Disneyland» l’idea che si possa vedere passare un orso «orsacchiotto» nei prati è un’idea fantastica, capace di motivare senz’altro la spesa di una settimana in agriturismo o di un fine settimana in alta quota. È per questo che quelli di Valgoglio, che non hanno più le scarpe grosse ma hanno ancora il cervello fino, hanno tappezzato le strade che dal paese salgono ai monti di cartelli che segnalano la presenza dell’orso un po’ dappertutto, cartelli che hanno capito che invece di spaventare esaltano la curiosità e l’entusiasmo del cittadino indeciso su dove andare a spendere i suoi soldi. Poi insieme alla storia dell’orso nascono piste per cicloamatori di montagna, e poi vie ferrate per ogni tipo di difficoltà per fare in modo che ogni cliente possa trovare, in montagna, la possibilità di spendere i suoi soldi esercitando la sua personale modalità di provare emozioni.

E per chi non cammina, non pedala o non arrampica, c’è sempre l’elicottero che con poca spesa e pochi rischi ti fa vedere uno spettacolo veramente da sogno. Resta inteso poi che quando fai di tutto per far venire clienti laddove loro da soli mai avrebbero deciso di andare, diviene ovvio che se salendo al rifugio Coca gli capiti la sfortuna di un sasso in testa, questi denuncino il sindaco. Esattamente come a Disneyland: il ragionamento non fa una piega … mi hai detto tu di venire qui … fosse stato per me sarei andato all’idroscalo, ma siccome tu mi hai convinto con mille promesse, adesso mi devi garantire quello che mi avrebbe garantito l’idroscalo …

Va’ dove ti portano i soldi
Non credo che si possa onestamente criticare quello che sta avvenendo. In fondo succede anche oggi, come in passato, che il cambiamento consegua a una semplice questione di convenienza economica. Quando la convenienza era produrre erba e formaggi si è fatto in modo di produrre erba e formaggi. Quando la convenienza è diventata fare turismo di massa allora ci si è messi a fare turismo di massa, con tanto di fake news di richiamo.Certo io che ho conosciuto la montagna di Foppolo nel 1956, ho una gran nostalgia di quella essenzialità e di quelle montagne silenziose e indifferenti.

Ma quelli che conosceranno la montagna dei rifugi ciclabili, con cucina a tre stelle e finti orsi al chiaro di luna, quando nel 2100 Foppolo si metterà a fare il Sauvignon blanc più strepitoso del mondo, sostituendosi alla Franciacorta ormai trasformata in deserto, avranno nostalgia della loro montagna Disneyland esattamente come io ho oggi nostalgia della mia montagna umile. Nulla di nuovo sotto il sole. E non pare sia possibile opporsi ai cambiamenti imposti dalla necessità di sopravvivere e prosperare. Si mettano dunque ovunque cartelli di avviso della possibile presenza di orsi e i sindaci comincino a pensare a una qualche protezione assicurativa contro i rischi rappresentati dalla caduta massi sui loro sentieri.

Post scriptum
Mentre scrivo vengo raggiunto dalla notizia che un carabiniere che passeggiava in un bosco del Trentino è stato assalito da un giovane orso di circa centoventi chili che è poi stato catturato e ristretto nel «centro per il recupero degli animali selvatici» appositamente predisposto dalla Provincia autonoma. A caldo mi sembra una notizia perfetta. Adesso al nostro orsetto di centoventi chili, nel Centro di Recupero e Riabilitazione ci faranno la «sicoterapia». Due o tre «sigologi» specializzati nella «sigologia degli orsi che “cianno” lo stress» ci insegneranno all’orso a non attaccare i carabinieri che passeggiano nei boschi.

Immagino poi che solerti esperti di ecologia dei boschi non si lasceranno scappare l’occasione di richiedere il finanziamento anche per l’attivazione di Centri per il Recupero e la Riabilitazione dei passeggiatori nei boschi, per fare anche a loro una bella «sicoterapia sigologica» per farci capire che l’orso lui non capisce che tu vai a passeggio e crede invece che gli invadi il suo territorio e allora devi spiegarci, ma con calma, che non vuoi farci del male ma che ci vuoi bene e vuoi solo passeggiare tranquillo. Le spese dei Centri di recupero e della «sicoterapia sigologica» sono ovviamente a carico dello Stato, cioè di tutti noi. E per l’economia alpina farà brodo anche questo. E noi che credevamo di aver chiuso i manicomi…

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