Briciola, l’aiuto di Nadia e l’agriturismo
Le medicine migliori di Cesare

Colpito in età adulta dalla sclerosi multipla, si è «rimesso in piedi» realizzando i suoi sogni.

La storia d’amore tra Nadia e Cesare Valente è iniziata «grazie a una busta d’insalata». Avevano in comune una professione nel settore alimentare, ma soprattutto erano entrambi coraggiosi, tenaci e generosi. Lei abitava a Bergamo, lui a Modena. Il primo contatto tra loro è stato casuale, una telefonata per un ordine di prodotti (l’insalata), poi hanno incominciato a sentirsi ogni tanto per chiacchierare e si sono incontrati. Allora non sapevano quanta strada avrebbero fatto, ma sono rimasti sempre insieme, aiutandosi a vicenda, anche quando la vita ha presentato una prova difficile: Cesare si è ammalato di sclerosi multipla.

«Ho incominciato a sentire la gamba sinistra più rigida – racconta – e non riuscivo più a muoverla in modo fluido. Avevo 39 anni e fino a quel momento ero sempre stato bene, non avevo avuto altri sintomi che potessero mettermi in guardia. All’improvviso, qualche anno fa, un’estate, nell’ultimo weekend di luglio sono rientrato a casa la sera dal lavoro e mi sono accorto che la gamba non rispondeva più ai miei comandi». Nadia quel giorno si era messa in viaggio da Bergamo per andare a Modena a trovarlo, affrontando lunghe code sull’autostrada: «Il traffico era molto intenso – racconta lei –, sono arrivata tardi, stanchissima e preoccupata. Abbiamo deciso di andare al Pronto soccorso il giorno dopo per capire che cosa stesse succedendo».

La speranza che potesse trattarsi di un sintomo transitorio di stress o di un’infiammazione è durata poco: «All’ospedale – continua Cesare – ho spiegato ai medici quali fossero i miei sintomi e mi hanno ricoverato d’urgenza. Hanno eseguito alcuni accertamenti, come la tac e la risonanza magnetica. Ho avuto subito la sensazione che potessi avere qualcosa di grave. Alla fine, infatti, è arrivata la diagnosi di sclerosi multipla, una patologia con un nome minaccioso e per me del tutto sconosciuta».

Sono iniziate le terapie: «Dopo qualche giorno avevo l’impressione che i sintomi iniziassero a regredire, riuscivo di nuovo a padroneggiare i movimenti anche se non controllavo bene la gamba. Il mio unico pensiero era che dovevo uscire prima possibile dall’ospedale per tornare a lavorare, perché era il periodo di picco per gli ordini e le consegne e mi sembrava quasi un tradimento restarmene lì a riposo. Poi è arrivato finalmente il momento delle dimissioni, il 15 di agosto. Ho dovuto insistere con la neurologa perché mi spiegasse chiaramente di che cosa si trattava. Mi parlava procedendo per accenni e allusioni, usando termini scientifici inadatti a chi non avesse studiato medicina. Non riuscivo a capire, quindi ho chiesto che mi venisse chiarito in che cosa consistesse di preciso la mia patologia. All’inizio mi sono spaventato moltissimo. La dottoressa è stata cauta perché secondo il protocollo avrebbe potuto darmi con certezza quella diagnosi solo dopo sei mesi e nuove analisi di controllo. A quel punto ho fatto le valigie e sono tornato a casa con Nadia, con l’umore sotto le scarpe».

Cesare era molto abbattuto: «Ha incominciato subito a rovinarsi la vita guardando su internet – dice Nadia – cercando tutte le informazioni possibili sulla sua malattia. Quando siamo rientrati a casa mi ha restituito le mie chiavi e mi ha detto che dovevo andarmene, e che ognuno di noi due avrebbe dovuto proseguire per la sua strada, perché lui era malato e non aveva più niente da offrirmi».

Lei, però, non ci aveva neppure pensato: «Gli ho chiesto se fosse impazzito, gli ho spiegato che qualunque cosa avesse, potevamo affrontarla insieme e che non mi sognavo neppure di lasciarlo da solo». Non è stata una scelta facile, e Cesare non voleva darla per scontata: «Ho sentito, sia allora sia in seguito, di molte persone che scoprendo la malattia del partner decidevano di andarsene. Non avrei mai voluto scaricare i miei problemi su Nadia, desideravo che si sentisse libera di proseguire la sua vita senza che io diventassi un impaccio per lei».

Cesare ha dovuto subito fare i conti con i cambiamenti che la sclerosi multipla aveva portato nella sua routine quotidiana: «Speravo di poter tornare alla normalità ma mi sono accorto che non sarebbe stato semplice. La frequenza delle ricadute era ravvicinata, le conseguenze erano invalidanti, i medici mi avevano spiegato che ero stato colpito dalla patologia in una forma molto aggressiva. Se per due settimane stavo discretamente, per le due successive mi sentivo male, perdevo autonomia nei movimenti e le incombenze più banali diventavano insormontabili». Poi è iniziato l’iter delle terapie, con esiti alterni: «Il primo farmaco che ho assunto era efficace, ma il corpo dopo qualche tempo si è assuefatto, costringendomi a cambiarlo». Con la nuova terapia, però, è arrivata anche un’altra fase acuta della patologia, che ha accelerato all’improvviso, incidendo in modo molto significativo sulla vita di Cesare: «Da quel momento non sono più riuscito a recuperare completamente. Così ho avviato con Nadia ricerche approfondite per capire se ci fossero altre strade da percorrere. Sono venuto a sapere di un nuovo sistema di cura portato avanti da un neurologo di San Paolo, in Brasile, che stava ottenendo ottimi risultati. Basato sull’assunzione di vitamina D e studiato inizialmente per il Parkinson, aveva invece avuto esiti più importanti proprio nella sclerosi multipla. Questa cura è arrivata in Italia nel 2014, e allora c’erano soltanto due medici che la portavano avanti, così ci siamo rivolti a loro. Oggi, cinque anni dopo, gli specialisti coinvolti sono diventati 28». Cesare ha reagito molto bene: «Quando abbiamo iniziato – chiarisce Nadia – aveva perso del tutto l’autonomia di movimento, ma poi grazie al nuovo farmaco ha ricominciato a muovere le gambe e ad alzarsi. C’è voluto un po’ di tempo per riprendere a camminare, ma dopo quaranta giorni era di nuovo in piedi. Gli avevo comprato la sedia a rotelle ma lui mi aveva detto che non ci si sarebbe mai seduto».

In quel periodo Cesare ha potuto contare sull’aiuto di un personal trainer speciale, la cagnolina Briciola, un tenerissimo volpino bianco: «Ho letto l’annuncio in cui i volontari di un canile di Milano dicevano che aveva bisogno di una nuova casa – ricorda Nadia –, perché entrambi i suoi padroni erano morti. Abbiamo pensato quindi di adottarla, e sono andata subito a prenderla. Era magra, doveva prendere dei calmanti per l’ansia, aveva sofferto molto per essere rimasta sola». Briciola ha preso subito sul serio il compito di stare vicino a Cesare: «Nadia è venuta a portarmela – racconta lui – e me l’ha lasciata, con il compito di accudirla e di portarla fuori. Mi sono chiesto subito come avrei fatto, dato che a malapena muovevo qualche passo, temevo che si sarebbe persa, che sarebbe scappata, ma non è stato così. Mi sono accorto subito che era nato tra noi un feeling straordinario. Briciola ha capito la situazione e si è adeguata. Ha imparato a starmi vicina, a mantenere il ritmo del mio passo, intuiva quando per me era una giornata buona o una cattiva. Quando stavo male mi si accoccolava accanto sul letto o sul divano. In seguito ho visto che con Nadia si comportava in modo diverso: con lei giocava, correva e saltava, ma quando stava con me si adattava al mio passo e mi teneva sotto controllo. La mia cagnetta è stata per me uno stimolo e un sostegno prezioso. Grazie a lei non ho avuto bisogno di antidepressivi, bastava la sua presenza per spingermi a superare i miei limiti, se non avessi avuto il compito di portarla a spasso sarei rimasto a letto a languire. È una terapia semplice che mi sentirei di consigliare a tutti i malati come me».

Secondo il filosofo francese Gaston Bachelard «noi soffriamo per i sogni, noi guariamo con i sogni», e per Cesare è stato proprio così. Quando ha capito di non poter più condurre la vita di prima - sempre in viaggio, sempre a servizio dei suoi clienti - grazie al sostegno di Nadia ha deciso invece di reinventarsi: «Entrambi – osserva Cesare – avevamo nel cuore il sogno di aprire un’attività, e abbiamo pensato a un agriturismo. Abbiamo cercato il posto giusto e l’abbiamo trovato in un’antica dimora di campagna ad Adrara San Martino, circondata da prato, bosco, un laghetto. Il mio medico quando gli ho parlato del progetto mi ha guardato in modo strano e mi ha risposto che secondo lui ero pazzo, ma che se era quello il mio desiderio potevo andare avanti per la mia strada. Così ho scoperto (strada facendo) quanto potente possa essere un sogno, quanto il desiderio di realizzarlo possa far scivolare in secondo piano tutte le difficoltà».

Nel 2016 Cesare e Nadia si sono trasferiti da Modena ad Adrara, hanno aperto l’agriturismo Grammelot, con cinque camere per l’ospitalità e il ristorante, e si sono sposati: «È stato un periodo densissimo – chiarisce Cesare –, il più importante della nostra vita. Abbiamo sperimentato sul serio che volere è potere. C’era moltissimo lavoro da fare, ma siamo andati avanti lentamente, abbiamo superato una difficoltà alla volta, senza arrenderci mai. Ho preso alla lettera il motto di Steve Jobs: “Siate affamati, siate folli”. Ho scelto di essere ottimista, ho pensato che nella vita ci vuole un pizzico di pazzia». Cesare e Nadia hanno reso il loro agriturismo accogliente anche chi ha problemi di mobilità: «A noi purtroppo capitano spesso esperienze faticose, a volte anche un po’ umilianti, anche solo per andare al cinema o trascorrere una serata fuori casa. Questo ci rende più sensibili, cerchiamo di fare del bene a chi ne ha bisogno. Quando si presenta l’occasione offriamo supporto anche ad associazioni di volontariato come “Rendiamo visibili gli invisibili”, nata da poco, con un gruppo su Facebook, composta da persone con sclerosi multipla, con l’obiettivo di offrire protesi e ausili a chi non può acquistarli. Partiamo da noi e da ciò che possiamo fare per rendere la vita più semplice alle persone più fragili».

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