Le storie dimenticate / Pianura
Venerdì 12 Settembre 2014
La Treviglio del Quattrocento
Una città di leggi enigmatiche
di Roberto Conti
A Treviglio all’alba del Quattrocento era assolutamente vietato togliere il cappuccio ad un passante. E persino strappargli i capelli a patto che si provasse di averlo fatto per correggerlo. Se anche voi lettori avete storie dimenticate da segnalare scrivete a: [email protected]
Guai a fare serenate alla propria bella di notte. Lo vietava uno specifico articolo degli Statuti Comunali del Castello di Treviglio, un corpus di 669 articoli redatto nel 1392. Sfogliando questo massiccio documento si trovano leggi attualissime che sembrano scritte ieri ma anche prescrizioni davvero incomprensibili agli occhi del cittadino moderno.
Dopo il terzo suono della campana di notte, fino alla prima campana del giorno successivo era assolutamente vietato suonare il liuto, la viola o qualsiasi altro strumento musicale. Pene severissime erano riservate ai bestemmiatori. In più occasioni negli Statuti si parla della Chiesa che era considerata un ente assolutamente intoccabile. Infatti, si specifica che qualora un articolo fosse ritenuto offensivo per il clero, doveva essere immediatamente ritenuto nullo. In questo clima non è difficile immaginare come e perché il legislatore si accanisse così tanto contro chi non portava rispetto verso questa istituzione.
Chi malediceva Dio e la Beata Vergine Maria, per esempio, rischiava fino all’amputazione della lingua a meno che non potesse permettersi di pagare una multa. Non era nemmeno consentito maledire i santi. In questo caso il contravventore poteva essere accusato da chiunque in qualsiasi momento. Anche in questo caso, o pagava o la pena era maggiorata: era posto alla berlina, o alla catena, e fustigato severamente.
Un comma dello stesso articolo precisa che era vietato pronunciare la parola «vermocane». Pare che nel medioevo augurare il vermocane fosse un’offesa talmente pesante da scatenare risse anche violente. Quindi, per evitare tutto ciò, il legislatore trevigliese optò per bandire quella parola.
Sempre a proposito di risse ci sono articoli interamente dedicati. Sono esplicitate pene specifiche per chi amputa un arto, cava un occhio, graffia o morde qualcuno. Non era lecito nemmeno strappare i capelli a qualcuno a meno che – e qui viene il bello - non si dimostrasse di averlo fatto per correggerlo. Guai anche a chi lacerava l’abito di qualcuno o gli levava il cappuccio dalla testa. Sfogliando questo corpus balza subito all’occhio il fatto che gli articoli siano per lo più disposti senza un ordine preciso. In una parte del documento, ad esempio, si parla dell’obbligo di chiamare il borgo «Castello» e subito dopo si cita il divieto di vendere pesci e gamberi se non nella piazza del Comune.
Tra gli aspetti più curiosi c’è da notare che non era possibile negare che una persona fosse morta. Se un uomo era dichiarato morto «per voce e fama» non si poteva discutere. Era così e basta. Altra curiosità sullo stesso argomento: era vietato piangere ad alta voce, o gridare o dimenarsi piangendo dietro qualche feretro.
Alle soglie del Quattrocento il borgo di Treviglio era ancora principalmente dedito all’agricoltura e all’allevamento. Così, una serie di articoli prescriveva come ci si doveva comportare con gli animali. Non era consentito catturare colombi, cicogne e rondini, sparvieri e falconi. Andavano riconsegnati al podestà dietro pagamento di una multa. Nessuna persona poteva scorticare cavalli, muli asini, né cani o talpe. In compenso c’era una taglia sui lupi: chi dimostrava di averli catturati all’interno del Castello riceveva un premio in denaro. Questo perché all’epoca i lupi rappresentavano una vera e propria piaga capace di massacrare animali e ferire uomini. Le bestie, in particolare oche e anatre, non potevano girovagare per il Castello senza un pastore o un custode.
Era prescritto anche il numero massimo di oche che si potevano possedere. Non si poteva tenere nel Castello pecore, capre e agnelli. I maiali non potevano girare per il borgo dal primo marzo fino alla festa di san Michele. Non potevano nemmeno esser venduti salvo che la richiesta non arrivasse dai frati di Sant’Antonio: loro li potevano acquistare, ma non più di quattro.
Fa sorridere notare che, ieri come oggi, si faceva di tutto per combattere la piaga del gioco d’azzardo. Sul tema gli articoli si sprecano. Entro tre giorni dalla denuncia, veniva fatta una grida dai banditori nella piazza contro il giocatore accanito per invitare la gente a non stipulare contratti con lui. Poi veniva completamente interdetto dei suoi beni. Chi giocava, oltre al denaro da sborsare, veniva condannato al confino per un anno lontano dal Castello per almeno trenta miglia. I trasgressori finivano in carcere. Nel testo si specifica che era vietato giocare a zara e a tutti i giochi con i dadi o d’azzardo come reginetta, ossicini e palline. Un’altra punizione: le porte della casa del giocatore venivano bruciate e doveva rimanere disabitata per un anno. Era invece consentito giocare alle tavole e agli scacchi.
Tra le stranezze contenute negli Statuti trevigliesi c’è inoltre il divieto di affittare terre agli abitanti di Calvenzano.
Nel sottolineare gli aspetti curiosi di questo documento non bisogna però dimenticare che tutto sommato gli Statuti sono imparziali e sinceramente diretti a porre tutti i trevigliesi in una posizione di uguaglianza con una particolare attenzione verso vedove, orfani e indigenti. Un articolo dice esplicitamente: «Tutti i privilegi e le immunità concessi e concesse dal comune di Treviglio a qualcuno o ad alcuni di qualunque condizione siano, siano stati cancellati e di nessun valore».
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