Almè, la grande pietra misteriosa
coperchio del sarcofago romano

Per qualcuno, durante l’infanzia, si trasformava in un nascondiglio, per altri diventava una base per una sosta. Ma cosa c’entra coi Longobardi? Avete storie del vostro paese o luoghi dimenticati da segnalare? Scrivete a [email protected]

Per qualcuno, durante l’infanzia, si trasformava in un nascondiglio, per altri diventava una base per una sosta. Chi però sa che quella grande lastra monolitica in granito rimanda a un sarcofago può fare un lungo salto all’indietro nella storia, fino all’epoca dei Longobardi. In pochi, anzi pochissimi, ad Almè e dintorni sanno che la «pila», come è chiamata in termini «tecnici», è in realtà il coperchio di un sarcofago di probabile origine romana.

Da anni dislocato nel parco di piazza Lemine, la «pila» è stata trasferita da poche settimane nell’area verde di fronte a quella che diventerà la nuova biblioteca. Nessuno sa da dove provenga. Alcuni anziani del paese la ricordano come oggetto di giochi della loro infanzia. La memoria storica di questa pietra, dalla forma semplice ma misteriosa, arriva fino agli inizi del XX secolo.

Un’atmosfera magica e un alone di mistero circondano il reperto archeologico. «Qualche nonno di Almè - spiega lo storico locale Antonio Silvestri - ricorda che la pietra era ritenuta il coperchio della tomba di un cavaliere. Tutto ciò non ha impedito comunque di usarla come scivolo o come panchina. Mi hanno raccontato che serviva anche come nascondiglio, in quanto poggiava su quattro blocchi ed era incava». Ma dietro una leggenda, spesso si nasconde un barlume di verità. E, come precisa Silvestri, «nelle tombe dei Longobardi, grande popolo guerriero, non era raro trovare lo scheletro di un cavallo insieme al corpo del suo padrone, in quanto si credeva che la vita nell’aldilà fosse una continuazione di quella terrena. Anche questo piccolo particolare farebbe risalire il coperchio ai Longobardi. Si racconta che nel passato, ad alimentare l’atmosfera di magia, contribuiva anche lo scherzo organizzato da alcuni baldi giovani che di notte spostavano il coperchio facendo credere alla gente ingenua e superstiziosa che ciò avvenisse per le proprietà miracolose del coperchio». Il coperchio del sarcofago è conosciuto con il termine «pila», che significa «vasca, recipiente di pietra, marmo e simili, grande e profondo».

«In bergamasco è tradotto con “pilot” e indica un recipiente basso e largo, usato come mangiatoia per maiali - continua Silvestri -, per lavarvi i panni o per altri scopi. Infatti, se lo capovolgiamo, presenta la forma di una vasca». Ed è stata proprio la curiosità di Silvestri a chiarire in parte il mistero che avvolge questo reperto. Il sopralluogo, effettuato da Stefania Casini, direttore del Civico Museo Archeologico di Bergamo Alta, ha confermato l’autenticità del reperto, come si legge in una lettera che la stessa Casini aveva inviato in Municipio in cui dichiarava «che il coperchio del sarcofago potrebbe risalire al periodo tardo-romano/alto medievale (III- VIII sec d.C.)».

Un primo passo avanti era stato compiuto, rimanevano però altre domande alle quali occorreva dare risposte chiare: a quale popolo apparteneva? a quale periodo più circoscritto risaliva? «Durante una ricerca in Internet - afferma lo storico - ho scoperto che nel 1976 a Trezzo sull’Adda erano venute alla luce cinque tombe. Dall’analisi del loro contenuto si ebbe la certezza che risalissero al periodo longobardo, intorno al VII secolo dopo Cristo. Fin qui niente di straordinario. Però, nell’osservare le foto dei cinque coperchi, uno di essi mi ha fatto saltare sulla poltrona: a parte il colore, era praticamente identico a quello di Almè, per forma e dimensione».

Per tentare di dare una risposta ai suoi dubbi Silvestri si è recato a Trezzo per esaminare i coperchi: mentre quattro erano costituiti da lastre, la quinta copertura era simile a quella di Almè, a doppio spiovente e terminante con quattro acrotèri nella parte inferiore degli spigoli. La diversità dei coperchi e i dubbi sulla datazione hanno portato Silvestri fino al sito archeologico di Trezzo, dove ha potuto incontrare l’archeologa Caterina Giostra e avere la conferma che il coperchio depositato nei giardini del castello visconteo di Trezzo apparteneva a un sarcofago romano, riciclato dai Longobardi. Nel gennaio del 2011, Maria Fortunati, della Sovrintendenza per i Beni Archeologici della Lombardia per l’età romana, medievale e rinascimentale, ha visionato il reperto. «Dopo un’attenta osservazione - riferisce il sindaco Luciano Cornago, che negli anni ha seguito con grande interesse la ricerca sul reperto - ha confermato l’autenticità del coperchio sostenendo che potrebbe essere datato dal III al IX secolo d.C., periodo che coincide con la presenza romana e longobarda sul nostro territorio. Il reperto quindi poteva essere inquadrato tra l’età paleocristiana e altomedievale. Da qui il consiglio di collocarlo in un posto più idoneo ed eventualmente di ripulirlo con la dovuta cautela». Finalmente il mistero della grande pietra è stato risolto: il coperchio è autentico e apparteneva probabilmente a un sarcofago romano, usato forse, come è successo a Trezzo, per coprire una tomba longobarda.

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