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Tanto lavoro nero e poca formazione. Ecco come si forma il mismatch giovani-imprese

bianca. Tiraboschi: «Scuola, università e mercato del lavoro: la transizione che non c’è». La nuova indagine di Fondazione Adapt individua e denuncia come i percorsi formativi e l’alternanza siano compromessi da «lavoretti» e da basse mansioni. Ma il peggio è il totale disallineamento con i fabbisogni delle imprese.

Lettura 12 min.

Università e lavoro, la transizione che non c’è

È tutto in un tweet di sette righe, 270 caratteri di denuncia. Scuola, Università, Lavoro: la transizione che non c’è. Da una ricerca sui curriculum vitae degli studenti un solo dato su tutti è chiaro: l’incontro dei giovani con il lavoro passa da stage di dubbia qualità e legalità, lavoretti quasi sempre in nero. Assenti i contratti pensati per facilitare la transizione dalla scuola all’impresa.

C’è lo studente di liceo classico che per due anni, 30 giorni in tutto, sperimenta l’alternanza scuola lavoro come magazziniere. Poi si iscrive a Economia. C’è la studentessa di un istituto tecnico economico che studia relazioni internazionali, ma le viene chiesto di fare la commessa in negozio. C’è la studentessa di liceo scientifico destinata a una scuola superiore dove è assegnata ad attività di traduzione testi. O il perito chimico che svolge compiti di archiviazione e segreteria nella biblioteca comunale. Per più di uno studente su tre (38%) non c’è alcuna relazione fra ciò che studia e le attività in alternanza. Ma si spazia anche in ben altri ambiti: servizi di bar e ristorazione (8%-10%), attività di aiuto compiti, lavoro di amministrazione e segreteria (15,4%), contabilità, rendicontazione (13%), archiviazione e cancelleria (23%), babysitteraggio (6%), ripetizioni e servizi educativi in senso lato (12%) vendita al dettaglio (7,5%).

E qui la prima criticità, su come i mestieri e le aree che emergono delle esperienze professionali distino dal percorso accademico intrapreso degli studenti. Difficilmente ci sono attività in settori economici o giuridici. Il dramma è che poi il 70-80% di questi giovani prosegue i propri studi in ambiti completamente differenti dall’esperienza formativa nelle imprese. Tutto questo nei casi migliori. Altrimenti si entra negli angoli ancora più bui del sistema formativo, dove diffuso è il ricorso a lavoretti occasionali, informali, senza nessun tipo di contratto, alcuna tutela e dove trova ampio spazio il lavoro in nero. Le criticità non finiscono qui.

 

La fotografia scattata dall’indagine della Fondazione Adapt su quasi 200 curriculum vita di studenti universitari (sedi di Como, Varese, Modena, Reggio Emilia) se da un lato descrive le esperienze (malamente) fatte nelle aziende, dall’altro mette a nudo l’incapacità in primo luogo della scuola, troppo spesso autoreferenziale, e di imprese nel progettare percorsi formativi coerenti con la realtà del lavoro, senza alcuna connessione con quanto studiano e apprendono in classe. Le aziende denunciano ogni giorno di avere fortemente bisogno sia di competenze tecniche, digitali ed informatiche, sia di competenze trasversali, relazionali e organizzative, come il saper lavorare in gruppo, il problem solving, il lavorare in autonomia e la flessibilità e l’adattamento. Eppure emerge come forte criticità il disallineamento proprio fra i contesti lavorativi nei quali gli studenti svolgono i percorsi di alternanza, le attività affidate ai ragazzi e, dall’altro, gli obiettivi formativi e professionali dei piani formativi preparati dalle scuole.

 

La fotografia dei curriculum degli studenti

Michele Tiraboschi

Professore di Diritto del lavoro allUniversità di Modena e Reggio Emilia

Un dato che emerge chiaro dai curriculum dei giovani e dalle esperienze fatte: alcuno sviluppo di competenze spendibili sul mercato.
L’indagine condotta da quattro ricercatori Adapt, coordinati da Lilli Casano, ricercatrice in Diritto del lavoro all’università dell’Insubria e sotto la supervisione scientifica di Michele Tiraboschi, professore di Diritto del lavoro all’università di Modena e Reggio Emilia, è chiarissima: i limiti del sistema formativo italiano, che anche là dove immagina forme di raccordo tra scuola e lavoro non è poi in grado di assicurare una reale coerenza e alternanza didattica dei percorsi. Dove si indica, la formazione resta poi priva di connessioni il mondo del lavoro. Altro elemento pesantissimo, il mancato sviluppo di competenze professionali in linea con le esigenze del mercato del lavoro e delle imprese.

Lilli Casano

Ricercatrice in Diritto del lavoro all’università dell’Insubria

Visto dall’altra parte, dal mondo aziende, sono gli stessi professionisti, imprenditori e lavoratori specializzati, per via della breve durata, a manifestare una bassa motivazione a guidare questi giovani in un itinerario approfondito che vada oltre il mero “learning by doing” o, ancor peggio, l’assegnazione di compiti di bassa manovalanza. «Questo succede perché mondo della scuola e università sono ancora prevalentemente pensati per il Novecento industriale, dove si registrava una netta separazione tra scuola e lavoro, tra teoria e pratica – spiega Michele Tiraboschi, attento giuslavorista ed esperto di dinamiche del mercato del lavoro -. Oggi è necessaria l’integrazione tra questi due mondi, ma questo avviene sono raramente grazie alle iniziative coraggiose di singoli docenti e di imprese più strutturate e lungimiranti».

Fra tirocini, alternanza, volontariato i giovani non godono mai di tutele retributive o previdenziali ma manca l’intenzione a far crescere competenze

Ma Tiraboschi va oltre questa riflessione richiamando la necessità che già Marco Biagi aveva indicato, venticinque anni fa, nei suoi progetti di riforma del mercato del lavoro. Il richiamo di Biagi era di «passare da un sistema educativo di trasmissione delle conoscenze – spiega Tiraboschi - a una formazione basata sulle competenze, superando la semplice logica di apprendimento per una crescita cognitiva continua dentro a processi di innovazione delle imprese». Oggi, rispetto alla nuova situazione e dinamiche del mercato del lavoro, Tiraboschi precisa che l’occupabilità «non è una formazione piegata alle esigenze contingenti del mercato del lavoro e neppure una formazione per un preciso mestiere. Difficile, del resto, che un giovane di quindici o vent’anni – sottolinea Tiraboschi - conosca la realtà dei mestieri dietro le singole etichette e, ancor di più, già sappia cosa vorrà fare da grande. Così inteso quello di occupabilità è un concetto vecchio e forse anche sbagliato, per la nuova economia almeno, anche perché già ora e ancor più in futuro si cambieranno almeno dai cinque ai dieci “lavori” nell’arco di una vita. Lavori che non sono solo posti e contratti spiega Tiraboschi -, ma mestieri, specializzazioni e relative competenze professionali necessarie per svolgerli».

 

La distanza fra scuola e impresa: il nodo dell’incontro

Il famoso disallineamento o il tappo del mismatch fra competenze e fabbisogni professionali, in gran parte si forma però qui, fra questa incapacità di relazione fra scuola-impresa: nella distanza fra contesti lavorativi dei percorsi di alternanza e gli obiettivi e piani professionali delle scuole. «I giovani incontrano il mondo del lavoro ben prima della fine degli studi: lavoretti per arrotondare, attività nell’impresa familiare, i tanti momenti di alternanza scuola lavoro, il volontariato – spiega Lilli Casano -. Il nodo è sul “come” lo incontrano». Ed eccole le modalità.

Giorgio Impellizzieri

Dottorando in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro all’Università di Siena

Nella grandissima maggioranza dei casi sono esperienze svolte senza il rispetto delle norme giuridiche: tantissimo lavoro nero, tirocini che non rispettano i piani formativi, esperienze di volontariato». Ma anche sotto questo profilo non è tutto. «Il dato più grave è che questi frammenti di lavoro – spiega Giorgio Impellizzieri, dottorando in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro all’Università di Siena - sono per lo più disordinati e casuali, non funzionali allo sviluppo di competenze e professionalità. Queste poi magari maturano comunque, ma manca una progettazione complessiva». E questo è un elemento che appare evidente alla luce del fatto che, in quasi tutti i curriculum analizzati, l’apprendimento e lo sviluppo delle proprie competenze «non viene quasi mai ricondotto al periodo di studi – spiega Impellizzieri - quanto piuttosto a esperienze di volontariato e a piccole parentesi professionali, non meglio inquadrate dal punto di vista contrattuale e giuridico. Emerge evidente, invece, la dimensione piuttosto eterogenea, disconnessa e limitata in termini temporali di queste attività, penalizzando l’apprendimento di competenze, difficili da sviluppare in poche settimane».

Resta forte, alla fine, la presenza di reale separazione tra istruzione, formazione e il mondo del lavoro: per uno studente è una difficoltà in più a “ibridare” la propria formazione con esperienze specifiche in azienda. Del resto, secondo i dati Oecd (l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, l’Italia è fanalino di coda in Europa per numero di studenti-lavoratori con circa il 15%, a differenza per esempio di Regno Unito, e ancor di più in Germania, dove i giovani tra i 15-29 anni che studiano e lavorano sfiora il 50%.

 

Le competenze che non si possono raccontare

La cartina di tornasole di queste lacune sono sempre i curriculum. E in particolare è l’impostazione che emerge dai questi profili che l’indagine Adapt ritiene «decisiva nel determinare il mancato incontro tra la domanda e l’offerta, poiché, in assenza di una narrazione logica ed ordinata delle esperienze lavorative, del relegamento di queste a “lavoretti saltuari”, che poco hanno a che fare con la possibilità di definire un proprio profilo professionale, e in assenza dell’esplicitazione delle competenze possedute e sviluppate, risulta complesso dal lato delle imprese e del datore di lavoro operare una scelta consapevole rispetto al candidato» precisa Impellizzieri.

Tommaso Galeotto

Dottorando in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro dell’Università Siena

Ma anche qui non è solo questo. «Mancano le descrizioni delle competenze professionali in linea con le esigenze delle imprese – spiega Tommaso Galeotto, dottorando in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro dell’Università Siena -. Viene dato poco spazio alla presentazione delle proprie conoscenze professionali e abilità trasversali e a come sono state sviluppate nel percorso di studi o nei contesti di lavoro. In questo modo il curriculum, da veicolo di incontro tra domanda e offerta di lavoro, rischia di diventarne un ostacolo. Anche perché, non da ultimo, sono sostanzialmente quasi sempre assenti riferimenti alla propria ambizione professionale e alla volontà di intraprendere un determinato percorso».

 

Quasi la metà (42%) dei contatti con il lavoro è avvenuto come tirocini, ma è quasi sempre lavoro irregolare. «Questo dato, accanto a quello raccolto sul tirocinio formativo, sottolinea come i giovani – racconta Casano - abbiano genericamente esperienze lavorative, ma non abbiano un contratto. E ancora, qualora entrino in stretto contatto con attività propriamente professionali, lo facciano nella maggioranza dei casi tramite lavoro irregolare. Le cause sono diverse – spiega Lilli Casano -: dalla tendenza delle imprese a scaricare sui giovani le esigenze di flessibilità alla riduzione del costo del lavoro, alla carenza di high skilled».

L’incapacità di descrivere i lavori e gli incarichi svolti è spesso dovuta al fatto che quelle mansioni non sono regolate ma sono lavori sommersi

Un altro elemento, quindi, che fa ribadire a Tiraboschi quanto ancora non ci sia alcuna transizione fra scuola. Università e mondo delle imprese e del lavoro. Una distanza che può essere però colmata. “Occupabilità e formazione per competenze sono un percorso di crescita e sviluppo integrale della persona che ci porta a essere padroni del nostro destino in quanto attrezzati per le sfide lavorative e non solo che incontreremo nella vita – spiega Tiraboschi -. Anche perché non formati ottusamente per superare un esame o per apprendere un singolo mestiere, che magari sarà già scomparso non appena ci affacceremo nel mercato del lavoro, ma piuttosto in quanto capaci di apprendere e risolvere i problemi che via via incontreremo forti di una consapevolezza di chi siamo e cosa vogliamo, delle nostre potenzialità e talenti così come dei nostri limiti e lacune. Ed è in questo che dovrebbe esaltarsi il metodo della alternanza formativa secondo un fare per imparare e meglio comprendere le nozioni che si sono apprese in aula e nelle lezioni”.

«E nel curriculum i lavoretti pregiudicano il posto»

Percorsi di formazione confusi, totalmente disallineati con i propri studi, forme giuridiche delle esperienze e dei rapporti di lavoro spesso «inclassificabili», lavoretti occasionali, stage dubbi: tutti elementi che compromettono la prima vera presentazione di un giovane, delle sue competenze e abilità al mondo delle imprese.
Il curriculum è anche la carta d’identità di un giovane che le aziende verificano per la scelta di un potenziale candidato a un posto di lavoro. Con l’aggravante che i le imprese dedicando però in media mai più di un minuto alla sua lettura, secondo quanto emerso da una serie di indagini.
Quello che un giovane ci scrive dentro, quindi, è decisivo. Ma è proprio questa una difficoltà: non riuscire a descrivere nel dettaglio le competenze maturate e le mansioni eseguite nelle diverse, frammentate e brevi, forme di alternanza, oltre che incoerenti rispetto ai percorsi di studio.

Scarsa capacità di comunicare le proprie abilità

Ciò si riflette anche nei numerosi ed evidenti difetti redazionali dei curriculum che, nell’alzare barriere all’ingresso nel mercato del lavoro dalla porta principale, rivelano scarsa capacità da parte degli studenti universitari di comunicare chi sono, di precisare cosa cercano e conseguentemente di redigere un documento di presentazione di attitudini, qualità e competenze professionali. L’analisi dei curriculum ha, infatti, evidenziato non solo criticità di carattere stilistico, ma anche difficoltà nel tradurre le esperienze lavorative svolte (con o senza contratto) in competenze professionali acquisite.
Le abilità sono indicate in modo sommario, non collocate nel loro contesto di sviluppo e di apprendimento e sono spesso inserite in una sezione unica senza alcuna distinzione tra quelle tecniche e quelle trasversali, tra l’altro molto poco menzionate. Incrociando i dati e rilevando le principali carenze (segnalazione ambito di interesse, posizione professionale di riferimento, resa grafica insufficiente, l’indicazione di competenze trasversali), è emerso come soltanto il 29,82% dei curriculum analizzati (con leggere correzioni) sarebbero utilizzabili per reali candidature. In nessun contratto è dato riscontrare la segnalazione di referenze utili a garantire la veridicità di quanto presente nel curriculum vitae o comunque il valore e la qualità del giovane.

Annamaria Guerra

Pedagogista e collaboratrice della Scuola di alta formazione di Adapt

Per un curriculum, tutto questo, significa fornire la ricchezza di una mappa e l’analisi delle esperienze fatte. E qui sorge un’ulteriore carenza: ogni curriculum si configurano più come appunti che come veri e proprie indicazioni di competenze e formazione. «Dalla valutazione sulla qualità e sull’efficacia dei curriculum - spiega Annamaria Guerra, pedagogista e collaboratrice della Scuola di alta formazione di Adapt - emergono criticità sia a livello grafico sia a livello contenutistico: solo il 29,8% dei documenti analizzati è utilizzabile per candidature reali. Ciò suggerisce la necessità di una riflessione sulla scarsa capacità degli studenti universitari di redigere un documento di presentazione professionale efficace e sul fatto che nessuno insegni loro a farlo».

Sara Prosdocimi

Dottoranda in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro all’Università di Siena

La stessa difficoltà emerge anche quando l’alternanza si svolge nel frequentatissimo settore del volontariato. «Il quadro dell’opera del volontariato che emerge dai curriculum è quanto mai complesso e variegato - racconta Sara Prosdocimi, dottoranda in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro all’Università di Siena -. Se diverse sono le motivazioni che spingono i giovani a svolgere queste attività, utili a far acquisire e maturare competenze e professionalità nel mercato del lavoro, è risultato come, soprattutto in seguito alla riforma del Terzo settore, due siano i principali rischi correlati a tali esperienze: da un lato una dimessa applicazione delle tutele assicurative e del diritto al rimborso spese, maggiormente nel modello del “volontariato individuale”; dall’altro, anche se in minor percentuale, l’utilizzo del volontariato a mascherare veri e propri rapporti di lavoro».

ll curriculum vitae: tutti gli errori del primo incontro con l’azienda

1 - La carta d’identità del giovane per l’imprenditore
Ha un’importanza decisiva: è il primo incontro fra azienda e il giovane. Il dato interessante è che, indipendentemente dalle azioni e dalle strade che le imprese scelgono di intraprendere, il curriculum rappresenta comunque, seppur in formati e modalità differenti, il primo punto di incontro tra la persona e l’azienda. Da questo documento parte la selezione di un candidato al posto di lavoro. Ma il 51,5% dei curriculum ha una impostazione grafica errata o imperfezioni che ne intaccano l’efficacia.

2 - Tempo di lettura di un curriculum vita: al massimo un minuto
Un selezionatore dedica non più di un minuto per leggere un curriculum. Questo induce a capire come anche la struttura e l’impostazione grafica vadano curate a dovere: struttura chiara, sintetica e ragionata oltre che un’impostazione grafica che ne garantisca una buona lettura. Mai predisporlo in un formato jpg (immagine). Meglio il formato europeo (scelto dal 21,6%).

3 - Molte criticità di comunicazione: nessun aiuto di orientamento
Le criticità tecniche ed espositive nell’analisi del curriculum degli studenti, con diffusi vizi grafici e lacune di comunicazione (dall’organizzazione in sezioni alla resa grafica e alla lunghezza, fra minima ed eccessiva), sono la prova di quanto sia rimasta inattuatta anche azione dei tanto invocati quanto irrealizzati – o almeno inefficaci – programmi di orientamento che forniscano almeno le coordinate essenziali su uno degli attrezzi più importanti per l’incontro tra domanda e offerta di lavoro.

 

4 - Manca la vera identità del giovane: ambizioni e competenze
Emerge una scarsa capacità dei giovani di comunicare chi sono, di precisare cosa cercano e quindi di redigere un documento di presentazione di attitudini, qualità e competenze professionali.

5 - Non emergono le esperienze di lavoro fatte
Molta difficoltà nel tradurre la ricchezza delle le esperienze svolte in competenze e abilità acquisite: sono indicate in modo sommario, e quasi mai collocate nel loro contesto di sviluppo e di apprendimento.

6 - Solo un giovane su tre potrebbe candidarsi per un lavoro
Soltanto il 29,82% dei CV analizzati sarebbero utilizzabili per reali candidature. Anche se in nessun contratto si riscontra la segnalazione di referenze utili a garantire il valore e la qualità del giovane.

Michele Tiraboschi

Professore ordinario di Diritto del lavoro all’università di Modena e Reggio Emilia

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Michele Tiraboschi, professore ordinario di Diritto del lavoro all’università di Modena e Reggio Emilia, è stato molto chiaro nell’introduzione all’ultima ricerca Adapt intorno a quello che raccontano i percorsi di formazione e le esperienze di lavoro dei nostri studenti. E a sua conclusione è tanto chiara, quando categorica: fra Scuola, università e lavoro non c’è alcuna transizione. L’incontro Il loro incontro con il lavoro passa da stage di dubbia qualità e legalità, lavori in nero.

Ma perché le imprese faticano a valorizzare un giovane e a trasformarlo in propria risorsa a cominciare dai percorsi di alternanza?

Esistono diverse spiegazioni, in generale e anche nello specifico dei singoli contesti produttivi e di lavoro. Come docente ritengo che una grossa criticità stia non trovare anche nelle imprese guide, maestri o comunque lavoratori adulti disponibili e formati a trasmettere conoscenze e competenze ai più giovani. Non è raro anzi che i lavoratori adulti guardino con sospetto i giovani per paura di essere scavalcati una volta che sono state trasmesse a loro le basi del mestiere.

Qual è il meccanismo che ancora si inceppa di fronte a un mismatch alto e di cui si lamentano gli imprenditori?

Nel 2003 la legge Biagi aveva previsto la pubblicazione gratuita, sui siti di scuole e università, del curriculum di studenti, neodiplomati e neolaureati. L’idea era di facilitare il contatto con i giovani durante e al termine del loro percorso formativo di base. Scuole e università raramente hanno adempiuto a questa richiesta. Il ministero del lavoro, invece di rendere effettiva questa previsione normativa ha dato loro ragione escludendo la pubblicazione dei curriculum per incomprensibili ragioni di pratica. Così i giovani non hanno modo di farsi conoscere (se non inviando in modo del tutto frammentario il loro curriculum alle singole aziende) mentre alcuni intermediari si sono occupati di organizzare e gestire il business del curriculum degli studenti. Non di rado le imprese devono pagare questi intermediari per poter accedere a pacchetti di curriculum.

Perché c’è così tanta distanza fra percorsi progettati e quanto si studia a scuola o in università?

Perchè il mondo della scuola e quello della università sono ancora prevalentemente pensati per il Novecento industriale dove si registrava una netta separazione tra scuola e lavoro, tra teoria e pratica. Oggi viviamo un’epoca di necessaria integrazione tra questi due mondi ma questo avviene sono raramente grazie alle iniziative coraggiose di singoli docenti e delle imprese più strutturate e lungimiranti.