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Terra contaminata. Dal lavaggio del suolo meno rifiuti, più riuso

Articolo. Negli ultimi cinquant’anni ambiente e salute hanno pagato un prezzo altissimo allo sviluppo: le aree dismesse si sono moltiplicate, abbandonate a se stesse, spesso disperdendo in maniera incontrollata il loro carico inquinante o diventando deposito di scarti e rifiuti. Bonificare tout court non basta.

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L’intervento di bonifica nell’area delle ex acciaierie Falck di Sesto San Giovanni Foto Piero Annoni

«I principi di sostenibilità e circolarità promossi anche a livello europeo nella gestione dei rifiuti devono essere applicati anche nella progettazione degli interventi di bonifica» sottolinea Damiano Belli, amministratore delegato di Ambienthesis, società del Gruppo Greenthesis di cui fa parte anche Rea Dalmine. «Per garantire il minor impatto ambientale possibile, le tecnologie odierne consentono di utilizzare anche impianti mobili per il trattamento del terreno e delle acque di falda sul posto, riducendo così il trasporto su strada dei materiali e limitando le scorie da smaltire in discarica».

Con il soil washing, per esempio, il terreno viene sottoposto a un vero e proprio lavaggio attraverso una separazione granulometrica, che consente di concentrare gli inquinanti nella matrice più fine. Di una tonnellata di terra contaminata il 20% viene avviato a smaltimento, mentre il restante 80% può essere riutilizzato nella stessa area per riempire gli scavi dovuti alla bonifica. «Con il trattamento in loco si ottengono tre vantaggi non solo per l’ambiente, ma anche per la salute dei cittadini – spiega Belli –: un risparmio delle emissioni, perché viaggiano meno camion; un minor consumo di suolo in discarica, perché dovrà essere smaltito solo il 20% del terreno inquinato; un minor sfruttamento di cave, perché non servirà materiale vergine per riempire il vuoto dovuto alla rimozione del terreno. Tutti elementi dei quali le amministrazioni dovrebbero tenere conto nell’approvazione dei progetti di bonifica».

In Italia sono almeno diecimila le aree contaminate note e catalogate. Quelle più estese e classificate come pericolose dallo Stato sono state definite “siti di interesse nazionale per le bonifiche” (Sin) dal cosiddetto decreto Ronchi del 1997 e dai successivi decreti 471/99 e 152/2006. Inizialmente i Sin erano una sessantina, sparsi lungo tutta la Penisola, 28 dei quali sulla fascia costiera, ridotti oggi a una quarantina, mentre le bonifiche dei siti declassificati sono diventate di competenza delle Regioni.

Ambienthesis ha lavorato su oltre 50 Sin, tra i quali il polo petrolchimico di Mantova, l’Ilva di Taranto e l’area delle ex acciaierie Falck di Sesto San Giovanni. Sul Sin di Bagnoli, invece, la società del gruppo Greenthesis ha appena completato per Invitalia una ricerca per individuare le migliori tecniche di bonifica applicabili. «Uno studio propedeutico andrebbe sempre fatto, perché ogni sito da bonificare è un mondo a sé – spiega Belli –. Nell’area di Bagnoli, dismessa da almeno due decenni, c’erano un’acciaieria, un cementificio e un’azienda che produceva manufatti in cemento-amianto. In base ai test svolti abbiamo visto che le migliori tecniche applicabili sarebbero il soil washing e il desorbimento termico (un processo di depurazione del suolo inquinato che rimuove i contaminanti organici volatili e semivolatili vaporizzandoli, ndr). Ora, alla luce di questi risultati, Invitalia procederà alla definizione degli interventi necessari e ai relativi bandi di gara».

Progettazione approfondita e applicazione di tecnologie avanzate sono sicuramente strumenti che consentono di raggiungere gli obiettivi di bonifica a condizioni sostenibili, ma anche la semplificazione amministrativa gioca un ruolo primario. «Per l’approvazione di un piano di bonifica oggi servono da uno a tre anni – sottolinea Belli –. Anche se lo scorso settembre il Decreto Semplificazioni ha stabilito tempistiche più stringenti, la burocrazia purtroppo ci mette sempre lo zampino ma, se un piano industriale viene abbandonato perché nell’attesa ha perso validità, si fa un doppio danno: all’ambiente e alla salute dei cittadini».

Separare la frazione inquinata

Gli interventi di bonifica dei siti inquinati possono essere di tipo chimico, fisico, termico o biologico. I trattamenti chimici mirano a ridurre la tossicità o la mobilità della sostanza inquinante; quelli fisici separano il contaminante dalla matrice solida o liquida in cui si trova; gli interventi termici, invece, separano la sostanza inquinante dalla matrice mediante vaporizzazione o radiofrequenze; infine, i trattamenti biologici, come la bioventilazione o bioventing e il landfarming, attraverso iniezioni di ossigeno nel terreno inducono la proliferazione dei microrganismi naturalmente presenti e capaci di degradare i composti inorganici di cui si nutrono.

Una delle tecniche più diffuse è il soil washing. Si tratta di un vero e proprio lavaggio del terreno che ha l’obiettivo di separare la frazione colloidale, alla quale si legano gli inquinanti, da quella inerte. La parte contaminata separata viene poi destinata a smaltimento, mentre la parte pulita può essere riutilizzata. La stessa acqua di lavaggio può essere usata per numerosi cicli di trattamento e, al termine del processo, essere depurata e scaricata in fognatura. Il desorbimento termico, invece, è usato per i contaminanti vaporizzabili come gli idrocarburi aromatici e policiclici aromatici o gli oli minerali, che vengono trattati tramite l’immissione di vapore a temperature variabili tra 150° C e 230° C o il riscaldamento a radio frequenze, cioè mediante l’energizzazione del terreno con onde elettromagnetiche. 

L. F.