La crisi energetica, gli scenari per l’Italia
«La direzione verso cui dobbiamo andare nel medio periodo è senz’altro quella delle rinnovabili» avverte l’economista Carlo Cottarelli, intervenuto all’incontro, organizzato venerdì al Carmine in Città Alta da eco.bergamo, il nostro mensile dedicato all’ambiente, all’ecologia e alla green economy, in collaborazione con Ing di Treviolo, e coordinato dal caporedattore Marcello Raimondi.
Il neosenatore eletto nelle liste del Pd, che ha dialogato con un gruppo selezionato di imprenditori attivi nella promozione della sostenibilità, ha ricordato come il gas non sfruttato completamente in Italia, di cui tanto si parla, non sia moltissimo e il problema delle emissioni di anidride carbonica permanga.
Superare il nodo della burocrazia
«Bisogna superare il nodo degli impedimenti burocratici per le rinnovabili. Quest’anno le autorizzazioni sono state quadruplicate grazie all’azione del governo Draghi. Ci sono stati anche ritardi. Il ministero non ha emanato le linee guida affinché le Regioni definiscano i siti dove le rinnovabili si possano installare. Finora le Regioni si esprimono solo su dove non si può mentre, nelle aree dov’è consentito, serve comunque un’altra autorizzazione. È meglio definirle ex ante. Ora spetta al nuovo governo: le Regioni avranno poi sei mesi di tempo per decidere. La necessità resta quella di snellire le procedure, superando questioni legali e ricorsi. Sono serviti 14 anni per aprire il primo parco eolico marino a Taranto».
Investire nella ricerca sul nucleare
L’altra grande questione è quella del nucleare, ma è più di lungo termine. «Il problema – osserva Cottarelli – non è tanto il rischio di incidente quanto le scorie. Credo che sia un errore non investire almeno nella ricerca, puntando sul nucleare di quarta generazione e poi sulla fusione, di cui si parla da molto tempo: prima o poi ci si arriverà. Le rinnovabili sono la scelta principale, ma resta il nodo della non costanza della produzione fotovoltaica ed eolica. Sono in una posizione intermedia tra chi dice cominciamo da domani a costruire centrali nucleari e chi assolutamente no». Il gas naturale liquefatto? «Credo che la strada dei rigassificatori sia da percorrere. Se si fanno, ci sarà meno tendenza ad andare sull’energia pulita? I rigassificatori non riducono la spinta verso le rinnovabili, anzi. Alla fine il prezzo dell’energia del sole non aumenterà mai, mentre dobbiamo importare il gas dall’estero e da aree instabili come il Medio Oriente».
Sganciare il prezzo dell’elettricità da quello del gas
Sul prezzo dell’energia gli interventi possibili sono tre. Il primo è lo sganciamento del gas dall’elettricità, di cui il 40 per cento in Italia è prodotta da fonti rinnovabili. «Il collegamento con la forma di energia più costosa era nato per proteggere le rinnovabili e incentivarle» ricorda Cottarelli. Ma ora il più caro è decisamente il gas. «Chi produce elettricità con le rinnovabili sta facendo profitti molto alti. Serve una decisione rapida del Consiglio europeo. L’altro intervento è il tetto al prezzo del gas, sceso sotto i 100 euro al megawattora ma ancora quattro, cinque volte più alto di prima del Covid. Si è capito come sia così delicato che non si può lasciare interamente alle forze del mercato, provocando sbalzi troppo alti. Il terzo intervento è un altro pacchetto di aiuti: Draghi ha lasciato margini di manovra per dieci miliardi negli ultimi mesi di quest’anno, così da prolungare le misure introdotte con i 60 miliardi già stanziati, divisi equamente tra famiglie e imprese. Rispetto al pil l’Italia è, per ora, il Paese che ha messo più soldi. La Germania ha annunciato 200 miliardi per il futuro con un’economia molto più grossa. Credo che occorra proseguire su questa strada, perché per l’anno prossimo ne serviranno altri, ma in modo molto più mirato, ai settori effettivamente più colpiti e ai redditi bassi. Il taglio delle accise va bene, ma non a chi va in Ferrari».
Acquisti precauzionali, non speculazione
Carlo Cottarelli non è tra chi imputa l’aumento del prezzo del gas solo alla speculazione. «Se voi andate al supermercato pensando che la prossima volta non trovate più lo zucchero, ne comperate cinque scatole invece di una. Sono acquisti precauzionali. Tutti, avendo paura di restare senza gas dopo qualche mese, erano disposti a comperare a prezzi assurdi per riempire i depositi. Putin ha annunciato che chiude il rubinetto del gas se viene messo un tetto al prezzo. Oggi dalla Russia ne importiamo circa 12 miliardi di metri cubi rispetto a quasi 30, circa due terzi rimpiazzati nel giro di qualche mese: il massimo che si potesse fare. Avere meno gas di quanto ce ne serve potrebbe portare a un razionamento che colpisce anche il settore produttivo».
«Nessuna recessione catastrofica»
«Non sono un catastrofista. Ci sarà una recessione abbastanza breve, niente di comparabile con quanto visto con la crisi globale del 2008-2009, quella dell’euro del 2011-2012, il Covid nel 2020». Da Carlo Cottarelli arriva un invito alla fiducia. «A meno che non ci siano ulteriori shock geopolitici, Putin che decide di chiudere il gas per non parlare di una guerra estesa alle principali potenze».
All’incontro al Carmine snocciola i dati. «Credo che ci possano essere un paio di trimestri con decrescita. L’anno scorso gli Stati Uniti hanno avuto una crescita forte, attorno al 6 per cento su base annuale, una recessione leggera nei primi due trimestri di quest’anno, il terzo positivo al 2,6 per cento. Non c’è stato il crollo atteso da molti. Il mercato ha assorbito abbastanza bene l’aumento dei tassi d’interesse. L’Europa, nei primi due trimestri, è cresciuta a un tasso del 2,5. Nel 2022 l’Italia si profila al 3,3: tirano il turismo e i servizi. Guardando in avanti ci sono fattori sia negativi sia positivi. Tra i primi il clima di fiducia delle famiglie crollato a ottobre a livelli del 2014, quando ancora si risentiva della crisi dell’euro; sceso anche quello delle imprese, ma non in modo così forte. C’è preoccupazione, incertezza».
«Il fattore positivo è la discesa dei prezzi»
«I fattori positivi sono la discesa dei prezzi delle materie prime, dopo il picco ad aprile-maggio, di quello dei noli dei container, più di recente anche di quello del gas. Un punto di domanda riguarda l’aumento dei tassi di interesse. Le banche centrali hanno adottato un approccio cauto, negando, per tutto l’anno scorso, che esistesse un problema d’inflazione. L’aumento della Banca centrale europea è al 2 per cento: c’eravamo abituati a tassi d’interesse negativi, ma non sono normali. Quando l’inflazione è al 10 per cento, è inevitabile. Se non lo si fa, si sta dicendo ai risparmiatori spendete perché i vostri soldi saranno erosi dall’inflazione. Se gli Stati Uniti aumentano i tassi d’interesse e l’Europa no, l’euro si svaluta, spingendo l’inflazione. Infine, se le banche centrali non agiscono, lasciano pensare che l’inflazione resti elevata, alimentandola ulteriormente. Non sono convinto che l’inflazione in Europa sia dovuta solo a un aumento del prezzo delle materie prime. Ormai si è allargata al di là dell’energia e degli alimentari. Il tasso di disoccupazione in Europa è al di sotto della media e in Italia persino degli ultimi decenni. Siamo in una fase di ciclo economico abbastanza forte. L’aumento dei tassi d’interesse andrà avanti. Le banche centrali non agiranno in modo molto aggressivo per non causare una forte recessione».
Il rapporto tra debito pubblico e pil meglio del previsto
Il problema è il prossimo anno. «Il deficit pubblico annunciato per il 2022 era attorno al 5,6 per cento del pil, dovrebbe scendere al 3,9 nel 2023. Se andiamo in recessione, si può fare qualcosa di più del 3,9 come sostegno all’economia. Il rapporto tra debito pubblico e pil sta andando meglio del previsto perché il pil, in conseguenza dell’inflazione, cresce più rapidamente. Il debito pubblico viene eroso dall’aumento dei prezzi. Chi ci perde? Chi ha investito in titoli di Stato. Quasi un terzo del nostro debito pubblico è detenuto dalle istituzioni europee. Negli ultimi anni la Bce ha comperato 350 miliardi di euro di titoli di Stato».
«Dal governo Draghi nessun ritardo»
Economista
Il suo ultimo libro si intitola «All’inferno e ritorno. Per la nostra rinascita sociale ed economica». Dove deve tornare l’Italia?
«Non al 2019, prima del Covid, perché quell’anno concludeva il ventennio peggiore della storia economica italiana, in cui non c’era stata una crescita del reddito pro capite per la prima volta dal 1861. Il pil dell’Italia, secondo il Fondo monetario internazionale, era al 170° posto su 182 Paesi. Non è quello il mondo cui dobbiamo tornare, ma uno che da molto tempo non vediamo».
Che cosa bisogna fare?
«Servono delle riforme. In parte stanno nel Pnrr che, di qui al 2026, mette l’Italia in condizioni di crescere non allo 0,2 per cento annuo ma all’1,5, al 2. Sta al nuovo governo completare quelle riforme. Da parte del governo Draghi non c’è stato nessun ritardo nel rispettare le condizioni per sbloccare l’arrivo dei soldi europei».
E il nuovo governo?
«Sarà abbastanza coeso per durare parecchio tempo, non è che l’idea mi piaccia molto. Non si metta a litigare con l’Europa quando comincerà ad obiettare. Se la reazione è battere i pugni sul tavolo, può essere un problema. Andiamo avanti finanziariamente con i soldi di Bce e Ue. Stiamo attenti, altrimenti ci cacciamo noi nell’inferno. Se Meloni è prudente sui conti pubblici, è la garanzia migliore».
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