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Export digitale, nuovi mercati ma imprese in ritardo di strategie

Articolo. Poche risorse, scarsa cultura digitale, competenze e profili professionali insufficienti, poca visione strategica. L’e-commerce ha una potenzialità che le imprese ancora non riescono a sfruttare anche per una scarsa consapevolezza delle opportunità di sviluppo. Intanto, nonostante lo scenario di incertezza, si aprono nuovi mercati di maggiore interesse.

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Mancano competenze, un freno alla crescita

Export digitale, una potenzialità lasciata nel cassetto. La mancanza di competenze adeguate, una conoscenza ancora insufficiente del digitale nelle piccole e medie imprese la cui inevitabile ricaduta si registra in un’inefficiente strategia e utilizzo dei canali digitali di vendita: sono limiti che oggi – in uno scenario di grande incertezza e complessità, ma anche di ripresa e di riposizionamento del commercio internazionale - stanno frenando in modo importante settori dell’industria italiana. I valori e le quote di export già significativi di settori industriali come automotive, fashion, meccanica, farmaceutica, e che complessivamente oggi valgono il 28% dell’export complessivo, 175 miliardi in valore, potrebbero avere una crescita ulteriore se solo aumentasse nelle imprese il livello di consapevolezza strategica dell’export digitale e la potenzialità connessa a questo strumento di generare nuove opportunità di sviluppo.

Ma c’è un ostacolo oggettivo, denuncia l’ultimo Osservatorio Export Digitale della School of Management del Politecnico di Milano, presentato oggi: mancano ancora sia una cultura diffusa sia le conoscenze adeguate per rilanciare questa sfida.

 

Imprese in ritardo, quindi, ma soprattutto una ancora bassa maturità sulle strategie di innovazione digitale travolgono e limitano ogni settore produttivo. Profili professionali inadeguati significa anche difficoltà e incapacità a elaborare una visione di crescita e i passaggi di una strategia di sviluppo d’impresa. In questo contesto, poi, le piccole e medie imprese presentano anche un ulteriore vincolo sulle strategie di export digitale: la forte inefficienza nell’uso dei canali di vendita digitali, delle tecnologie per l’export e dei cruscotti di indicatori per valutare dei progetti di internazionalizzazione.

Più cultura dell’innovazione digitale

È su questi ultimi aspetti che l’Osservatorio ha presentato nel report una mappatura sul livello di maturità su sei aree funzionali, pilastri di una strategia di export digitale efficace. Il risultato dell’analisi emerso non lascia dubbi. Indica che la maggioranza delle medie e piccole imprese si colloca in stadi iniziali di maturità per molte delle funzioni analizzate: i più bassi livelli di digitalizzazione si hanno proprio nell’adozione di canali di vendita digitali (numerose le imprese che non ne hanno addirittura attivato alcuno). Ma anche nell’uso di tecnologie a supporto dell’export e nell’utilizzo di cruscotti di indicatori strutturati per valutare i progetti di e-commerce internazionale si rilevano pochissime iniziative. E così si torna al punto iniziale: colpa an cora della scarsa propensione alla digitalizzazione, a una carenza di competenze sui temi dell’innovazione digitale e tecnologica, a una cultura aziendale ancorata ai paradigmi del passato, a limitate risorse da investire. Spicca in questo perimetro la “maggiore maturità” nel marketing, nella comunicazione e nella governance del progetto.

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Riccardo Mangiaracina

Responsabile scientifico dell’Osservatorio Export Digitale

«In un contesto turbolento, il canale online rappresenta un’opportunità non ancora pienamente compresa dalle Pm - spiega Riccardo Mangiaracina, responsabile scientifico dell’Osservatorio Export Digitale - necessario per raggiungere mercati lontani, conoscere meglio i propri clienti e ottimizzare i processi di vendita. Oggi, più che mai, è necessario creare cultura e diffondere conoscenza per agire con consapevolezza in una strategia di export digitale».
Nonostante lo scenario economico negativo, nel 2022 però le esportazioni italiane sono comunque cresciute, più per l’aumento dei costi di produzione e dei prezzi che dei volumi. «Se i brand italiani non hanno osservato un aumento degli ordini cross-border – precisa Mangiaracina - sono comunque riusciti a mantenere le loro quote di mercato».

 

I numeri allora potrebbero giocare un ruolo di incentivo a imboccare questo percorso, sempre più centrale, secondo gli analisti dell’Osservatorio, delle strategie future dell’ecommerce internazionale. E questo almeno sotto due profili: il giro d’affari che sta sviluppando in un contesto estremamente instabile e incerto. E, dall’altra, per nuovi mercati che stanno aprendo in seguito al conflitto russo-ucraino, come sbocco di maggiore interesse per l’export digitale italiano.

I numeri quindi: l’export digitale italiano dei beni di consumo direttamente ai consumatori (B2C), tramite sito web o marketplace o intermediato dai negozi o punti vendita, nel 2022 è stato di 18,7 miliardi, con un +20,3% sul 2021 (in linea con l’export nazionale). L’aumento in valore di 3 miliardi ha portato la quota complessiva all’8,8% dell’export totale: pilastri sono il Fashion con 10,1 miliardi, il 54% del totale; il Food & Beverage con 2,6 miliardi, +18,2% e l’Arredamento con 1,3 miliardi e una crescita del +13%.

I numeri del commercio digitale con il mondo

Sul fronte del commercio tra aziende, invece, l’export digitale B2B ha raggiunto nel 2022 i 175 miliardi, con +20% sui 146 miliardi del 2021 (il 28% dell’export totale). In termini di incidenza, i settori che pesano di più sono l’Automotive (38 miliardi, 22% del totale), il Fashion (26 miliardi, 15%) e la Meccanica (17,8 miliardi, 10%). Le crescite più elevate sono per il Farmaceutico (+47%), l’Elettronica di consumo (+21%) e il Fashion (+20%). Le esportazioni a valore sono quindi cresciute notevolmente nel 2022 a fronte di un cambiamento marginale in volume.

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Lucia Tajoli

Responsabile scientifico dell’Osservatorio Export Digitale

«C’è stato anche un parziale riorientamento geografico dei flussi - spiega Lucia Tajoli, responsabile scientifico dell’Osservatorio Export Digitale - con Russia e Cina in calo, a fronte di una crescita degli Usa e una tenuta del mercato europeo». Ed è in questa ottica di nuovi mercati e guardando ai paesi di maggiore interesse per l’export digitale italiano che l’Osservatorio ha predisposto un indicatore, guardando tra 20 principali economie mondiali. Ai primi posti, in questa classifica, gli Stati Uniti, UK, Germania, Svizzera, e Francia. Ma emergono subito dopo come interessanti paesi come Singapore, Canada e Corea del Sud. Più in basso, all’undicesimo posto, partner commerciali come la Spagna.

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Samuele Fraternali

Direttore dell’Osservatorio Export Digitale

E poi c’è l’aspetto finanziario, leva essenziale per gli investimenti. «Il nostro tessuto imprenditoriale sconta i limiti di una ridotta disponibilità di risorse e scarse conoscenze sul digitale – dice Samuele Fraternali, direttore dell’Osservatorio Export Digitale -. Servono governance definita e competenze tecniche per realizzare progetti di internazionalizzazione, oltre a un maggiore ricorso ai finanziamenti e alle misure di sostegno all’internazionalizzazione. Le istituzioni, le università, le associazioni di settore e professionali possono avere un ruolo determinante nell’accelerare la trasformazione digitale e favorire l’esportazione del made in Italy».

 

Un ultimo aspetto riguarda le strategie politiche pubbliche. Il tema resta la formazione, il capitale umano da potenziare nelle competenze. Così come da potenziare le capacità gestionali ne manageriali dentro le imprese. In più, l’Osservatorio evidenzia che esiste una relazione positiva tra export (sia tradizionale che digitale) e innovazione e che gli incentivi pubblici nazionali e regionali sono positivamente correlati all’adozione di ciascuna di queste strategie di crescita nelle Pmi, anche se emerge un possibile effetto di spiazzamento.
«L’export digitale è correlato alle innovazioni organizzative e di mercato - spiega Stefano Elia, responsabile scientifico dell’Osservatorio Export Digitale -. Il supporto pubblico può generare, tuttavia, un possibile effetto di distorsione delle risorse nelle Pmi, in quanto le imprese che accedono a fondi pubblici e che implementano contemporaneamente export (digitale o tradizionale) e innovazione, tendono a concentrarsi maggiormente su una delle due strategie a discapito dell’altra. Quindi, le politiche per l’erogazione di fondi pubblici alle Pmi non dovrebbero essere standardizzate, ma accompagnate da servizi non finanziari per potenziare le capacità gestionali e manageriali, corsi di formazione».