Un capitale umano che nessuno valorizza
In ritardo, pochi strumenti e del tutto inefficaci, ancora nessun approccio strategico nelle poche riforme del lavoro fatte. C’è poi un altro limite: scuole e imprese ancora non si parlano come dovrebbero. Quando lo fanno non si capiscono: se solo 4 studenti su 10 ritengono adeguata la loro preparazione, oltre il 70% delle scuole invece è convinto di aver fornito una formazione adeguata per il lavoro. Poi precarietà, retribuzioni basse, contratti a tempo, lavori in cui i giovani non si riconoscono creano «un preoccupante fenomeno di dispersione delle potenzialità dei giovani - spiega Alessandro Rosina, docente di Demografia alla Cattolica –. E per valorizzare al meglio il potenziale di un capitale umano che andrà a contrarsi è necessario evitare ogni spreco, invece di offrire basse opportunità».
Germania, Francia e Gran Bretagna lo fanno da decenni. E ora la riforma della Spagna , il lavoro è tornato dignitoso, l’occupazione stabile, i contratti collettivi forti. Il nostro svantaggio emerge tutto dal confronto con le quattro aree industriali europee con cui la Lombardia (e il sistema impresa della provincia di Bergamo) si confrontano in termini di competitività produttiva e innovazione industriale in quanto distretti simili come struttura, organizzazione e tessuto manifatturiero. Sono, con la Lombardia, le regioni motori d’Europa: Baden- Württemberg, Bayern, Cataluña e Rhône-Alpes. Ma c’è un versante su cui la Lombardia (e Bergamo) si allontanano dai benchmark internazionali: l’alto tasso di Neet, giovani fino ai 29 anni che, non più coinvolti in percorsi formativi, non hanno ancora un lavoro e, disillusi e disarmati, hanno smesso anche di cercare un posto.
Il modello tedesco, una marcia in più
Il focus dell’ultimo report di Alert, il centro studi di Assolombarda, denuncia come rispetto soprattutto ai modelli tedeschi dei distretti di Bayern e del Baden-Württemberg, la Lombardia ha un’incidenza di giovani fuori dal mercato del lavoro più alta, spesso doppia i cui il 17% sono giovani laureati. Molto più alti invece i tassi di occupazione giovanile tipiche del modello tedesco: in media il 12% dei giovani Neet lombardi, che sale al 13,6% se allarghiamo fino ai 29 anni (in Italia è ancora peggio, al 19%) si confronta rispettivamente con il 4,7% e il 5,2% tedeschi, o con l’8,6% francese del Rhône-Alpes.
La fotografia si fa più fosca perché quelle proporzioni si raffrontano con universi di giovani occupabili che per la Lombardia è molto meno popolato: dei 966mila giovani lombardi attivi diventano Neet oltre due su dieci, in Bayern questo succede solo per uno su venticinque, ma con 1,4 milioni di giovani, in Baden per uno su venti con 1,2 milioni fino ai 29 anni. Il ritardo della Lombardia vale anche in rapporto alla situazione giovanile della spagnola Cataluña, con registra una quota simile di giovani 14-29 anni (837mila unità) e una proporzione di Neet vicina a quella lombarda, l’11,8%. La differenza la fa la ripartizione fra giovani che comunque ogni giorno cercano lavoro (attivi) e chi invece ha smesso di studiare e resta fuori anche dai canali occupazionali, più favorevole ai primi: 5,8% contro il 4,1% lombardo.
Bergamo non brilla, anzi fa anche peggio: nel 2021 (ultimi dati disponibili) i giovani Neet bergamaschi sono ancora 27.900 al 16,3%: 3.900 non si formano più, ma restano alla ricerca di un lavoro; altri 24mila non cercano più nemmeno il posto. Il dato è sceso (dal 18,3% del 2020 e da quarta a decima provincia lombarda), ed è spiegato da una disoccupazione giovanile riassorbita nel post-Covid, anche se in parallelo continua a crescere la difficoltà di reperimento di nuove competenze.
Riforme del lavoro quasi mai efficaci
E allora riparte da qui l’analisi, da questi giovani che «rappresentano il futuro di una comunità - sottolineano i ricercatori Alert -. Ma sono anche una fascia di popolazione già in calo, sono sempre meno».
«Non studiano e non lavorano, ma i Neet fanno comunque notizia» spiega Valentina Magri, esperta in materia di occupazione giovanile e che insieme a Francesco Pastore (docente di Economia politica all’Università della Campania e scomparso di recente) ha appena pubblicato il libro «Gioventù bloccata». Il difficile (e lungo) passaggio dalla scuola al lavoro è il focus del libro. «Non basta un incentivo economico, i Neet sono anche l’indicatore più evidente di un fallimento delle politiche del lavoro, della formazione e dell’orientamento professionale – spiega Magri -. Quando manca quest’ultimo poi intervengono i genitori. Significa spesso una spinta a scegliere scuole e corsi di studio che danno una formazione inutile ai nuovi modelli economici e non trovano riscontro nel mercato del lavoro».
È qui la grande differenza con la Germania: in Italia una ricerca McKinsey dice che solo nel 40% dei casi c’è interazione fra scuole e imprese. E nel 21% di queste le aziende la definiscono inutile. In Germania e in Gran Bretagna le interazioni vanno oltre il 70%, la connessione fra offerta formativa e mondo del lavoro è continua. «In Germania valorizzano le esperienze degli studenti in azienda con tirocini, apprendistato – spiega Magri – più che gli interventi delle aziende nelle scuole». L’assenza di esperienza e l’impossibilità di accrescere l’esperienza sul lavoro, poi, costringono a passare continuamente e troppo velocemente da un posto all’altro, così si acquisiscono solo le competenze generali e non anche quelle specifiche per svolgere al meglio il mestiere per cui si ha studiato. I freschi dati AlmaLaurea dicono che solo uno su due svolge un lavoro coerente con gli studi fatti. E quel lavoto, quando si trova, non arriva poi prima dei cinque anni. Anche questo incide. «La mancanza di competenze adeguate, lo scoraggiamento per il contratto non rinnovato, lavori umili – sentenzia magri - sono un ostacolo alla ricerca di un nuovo lavoro. E se entri nella condizioni di Neet, diventa sempre più difficile poi uscirne».
Attrattività delle imprese i driver più importanti
Equilibrio fra lavoro e vita privata
Scende leggermente, ma per quasi 6 giovani su 10 l’equilibrio tra lavoro e vita privata resta il driver determinante per scegliere l’azienda dove lavorare. Seguono un buon clima aziendale e retribuzioni interessanti.
Un percorso di formazione e di carriera
È il dato a cui guardano di più i giovani laureati: il 52% valuta e richiede la possibilità di aumentare le proprie competenze con formazione di qualità e con un contenuto del lavoro interessante.
Buone relazioni e flessibilità del lavoro
Sono i benefit non materiali, che per un giovane contano molto: un’azienda con buone relazioni con i manager e i colleghi, che offra un lavoro flessibile e autonomia su come svolgere il proprio lavoro.
Cambiare lavoro, forse. Cresce la paura di perderlo
Continua il fenomeno delle grandi dimissioni, ma con più calma. Cresce al 24% coloro che intendono cambiare posto fra i più giovani, ma l’incertezza e le crisi fanno crescere la paura di perdere il lavoro.
Le retribuzioni basse fanno perdere i giovani
Difficoltà precarietà e costo della vita in crescita sono i fattori che oggi spaventano. Così come la paura di non farcela. Gli stipendi troppo bassi stanno spingendo 4 giovani su 10 a lasciare il proprio datore di lavoro.
Migliorare le competenze: la percezione delle imprese è bassa
È importante per l’82% dei giovani. Ma c’è un forte gap nella percezione sull’importanza della riqualificazione e del miglioramento delle competenze fra dipendenti e datori di lavoro.