I conti che non tornano con il mercato italiano
Le grandi dimissioni, la Great Resignation di origine americana? Il salto nella Yolo Economy, magari al buio perché comunque «si vive una volta sola?». Ma per scoprire dopo che proprio a causa di quel tuffo ci si è pure fatti male?No, grazie. Le grandi dimissioni di massa non sono (ancora) un fenomeno italiano. Di altri mali soffre il mercato del lavoro italiano, bassi salari, alta svalorizzazione del lavoro, stato di estraneità dal lavoro, mancate gratificazioni, dalla poca identità fino al mancato riconoscimento del proprio ruolo sociale. Ma per ora niente grande fuga. Non lo è, almeno, con le stesse caratteristiche in cui si è imposta negli Usa, dove invece tutto questo abbandonare l’occupazione rientra nel perimetro «della rinuncia del posto di lavoro, anche quando è sicuro e ben pagato, proprio per dedicare maggior tempo alle proprie passioni, alle relazioni, ai rapporti sociali, alla propria famiglia». Lasciano il lavoro perché l’emergenza sanitaria, lo stress psicologico, la difficile condizione fisica hanno certamente fatto emergere altre priorità lungo la propria scala di valori, la realizzazione personale può avvenire anche secondo altre dimensioni della propria vita.
Il post-pandemia ha definito anche questi nuovi risvolti di lettura del lavoro che è cambiato. Con cui si stanno facendo i conti. Ma ha rilanciato con strumenti e motivazioni nuove leve di talent acquisition e di talent retention per impostare strategie più efficaci di brand reputation o di forte impatto attrattivo nei confronti di giovani e talenti. Guardano non più solo al fronte economico, ma alla sfida che ora, soprattutto i più giovani, intendono giocare fatta più di formazione, aspettative rispetto al lavoro, alla quantità del tempo libero, alle giornate di smart working fino al vero strumento che può fare la differenza e che è la varietà dello welfare aziendale offerto. Ieri il rapporto Excelsior ha indicato in 359mila i lavoratori ricercati dalle imprese solo per il mese di marzo, 41mila in più (+13,0%) su febbraio e 67mila in più (22,9%) sull’anno scorso.
Nelle previsioni delle imprese cresce ancora la difficoltà di reperimento: è al 41,1% delle assunzioni programmate, un +9% su marzo 2021 quando erano difficili da reperire il 32,2% dei profili ricercati. Difficoltà che sale al 58,4% per gli operai specializzati, al 56,1% per i dirigenti, al 48,0% per le professioni tecniche e al 44,1% per le professioni intellettuali e scientifiche. A guidare, le industrie della meccatronica che ricercano 20mila lavoratori (-1,8% sul mese e +12% sull’anno). Ma ancora una volta i contratti a tempo determinato confermano la forma contrattuale prevalente più proposta, con 184mila profili ricercati, il 51,3% del totale.
Un mismatch che peggiora nei prossimi anni
È questo alla fine il quadro di fortissima carenza di personale specializzato con cui le imprese devono fare i conti. Fatto di un mismacht che “peggiorerà ulteriormente” per le imprese già impegnate sul fronte della transizione digitale ed energetica, avranno sempre più bisogno di personale specializzato e di alte competenze.
Ma no, grazie. Questo della Great Resignation, non è certo un fenomeno italiano.
I numeri delle dimissioni sono in crescita anche in Italia, ma quegli stessi numeri dicono altro. Per prima, a raffreddare questa interpretazione, è stata la stessa Banca d’Italia che nel suo ultimo report sul mercato del lavoro (novembre 2011) ha spiegato in modo netto che “complessivamente la dinamica delle dimissioni appare strettamente associata a quella della domanda di lavoro a tempo indeterminato”. È vetro che si tratta di quasi tutte dimissioni volontarie, e a prima vista la grandezza di quei numeri sembrerebbero restituire una fotografia identica a quella che giunge da Oltreoceano.
Ma i dati dicono un’altra cosa. Primo, non sono così elevati da configurare un fenomeno tutto italiano. Questa volta è il bollettino del ministero del Lavoro: nei primi tre trimestri 2021 il numero delle dimissioni è risultato identico al totale delle dimissioni del 2020, e superiore a quelle dello stesso periodo 2019.
Secondo, è vero che nei primi nove mesi del 2021 si registrano 1.362.000 dimissioni volontarie, con un incremento del 29,7% rispetto allo stesso periodo del 2020. Ma proprio nel 2020, quando a causa del Covid il mercato del lavoro si era paralizzato, si era verificato un picco negativo di dimissioni: solo 1.050.000 nei primi tre trimestri, ovvero -18,0% rispetto al 2019.
L’incertezza di trovare un altro posto
Responsabile Politiche sociali del Censis
Sono i numeri che emergono nettamente dal quinto Rapporto Censis-Eudaimon sul welfare aziendale, realizzato in collaborazione con Eudaimon, leader nei servizi per il welfare aziendale, con il contributo di Credem, Edison e Michelin. Dati che sono stati presi un po’ come base di partenza per introdurre l’osservatorio e capire meglio non tanto il fenomeno in sé, quanto le cause di questo cambiamento, ben lontano dall’essere un tuffo nella Yolo Economy e ancora di più, un salto nel buio. Prima spiegazione: «Tra i lavoratori italiani il pragmatismo vince sulla tentazione delle dimissioni al buio per cercare un impiego più gratificante o per fare altro – spiega Francesco Maietta, responsabile Politiche sociali del Censis -. Il 56,2% degli occupati in Italia non è propenso a lasciare il proprio lavoro, nella convinzione che non troverebbe un impiego migliore. La percentuale sale al 62,2% tra i 35-64enni e al 63,3% tra gli operai».
Insomma la maggioranza dei lavoratori è insoddisfatta del proprio lavoro, ma non lo lascia: la Great Resignation non parla italiano, ma certo per ora, stigmatizza Maietta «prevale un fenomeno di estraniazione dal lavoro nel lavoro». Un pericolo nuovo: alla ragione economica, se ne aggiungono infatti altre importanti e pericolose. «Tenere il lavoro nonostante tutto, per paura di non trovarne un altro è il primo passo verso l’estraniazione dal lavoro nel lavoro – spiega Maietta -, una dimensione psicologica di silenziosa estraneità dal lavoro, le mancate gratificazioni e non riconoscersi nel lavoro come attività sociale che trasmette identità alla fine rischia di erodere le comunità aziendali».
Troppa precarietà alla base del lavoro
Cosa succede, quindi. Si conferma, secondo il Censis, un trend di più lungo periodo di crescita delle dimissioni, ma legato all’aumento della precarietà, alla insoddisfazione dei rapporti di lavoro, ma anche alla garanzia che “meno male che ho un posto”, nella consapevolezza che sia difficilissimo rientrare nel mondo del lavoro una volta usciti. La Great Resignation fa paura, tuttavia l’82,3% dei lavoratori (l’86,0% tra i giovani, l’88,8% tra gli operai) è insoddisfatto della propria occupazione e ritiene di meritare di più. Ed è qui di Emmanuele Massagli, presidente Adapt, rimarca come «la competizione al rialzo degli stipendi delle imprese sane per convincere i professionisti affermati a trasferirsi da loro non è affatto una pessima notizia, anzi è un segnale di ripresa e di scongelamento del nostro mercato del lavoro. Una condizione, se possibile – conclude Massagli – anche migliore di quella prefigurata dagli entusiasti della Great Resignation».
Le retribuzioni, infatti, è un nodo centrale. In Italia non crescono da troppo tempo: il 58,1% dei lavoratori ritiene di ricevere uno stipendio non adeguato al lavoro svolto. E infatti negli ultimi vent’anni le retribuzioni medie lorde annue in Italia sono calate del 3,6% in termini reali, mentre in Germania sono aumentate del 17,9% e in Francia del 17,5%. E pensando alla propria occupazione, il 68,8% dei lavoratori si sente meno sicuro rispetto a due anni fa, percentuale che sale al 72% tra gli operai e al 76,8% tra le donne.
Ancora un dato per completare la fotografia: nell’ultimo biennio il 66,7% dei lavoratori (il 71,8% tra i millennial) ha vissuto uno stress aggiuntivo per il lavoro e il 73,8% teme che in futuro dovrà fronteggiare nuove emergenze lavorative. Per il 51,3% degli occupati il proprio lavoro è molto cambiato durante la pandemia e sullo smart working i lavoratori italiani si dividono: il 25,1% non vorrebbe farlo, il 32,9% è soddisfatto e vorrebbe proseguire, il 42,0% opterebbe per una soluzione ibrida.
Fondatore e amministratore delegato di Eudaimon
«Le persone non scappano dalle aziende, ma ci sopravvivono come fosse una necessità ineludibile, di cui minimizzare senso e impatto sulla propria vita. Nei prossimi anni - spiega Alberto Perfumo, fondatore e amministratore delegato di Eudaimon - questo mood psicologico potrebbe accentuarsi, poiché emergerà una potente voglia di vivere che presumibilmente andrà a cercare l’auto-valorizzazione soggettiva fuori e oltre il lavoro e le aziende. Diventa fondamentale promuovere engagement, portare le persone a quell’investimento soggettivo che fa tirare fuori il meglio di sé, e che può nascere solo se nel lavoro e nelle aziende le persone trovano le buone risposte alle proprie ambizioni e alla voglia di riconoscimento e realizzazione personale».
Un deficit di motivazione per colmare il quale sono gli stessi lavoratori ha indicare delle risposte. Le richieste alle aziende sono chiare: il 91,2% vorrebbe retribuzioni più alte, l’86,5% più servizi di welfare aziendale su ambiti come la sanità e l’assistenza per i figli, il 75,2% un maggiore supporto nel rispondere ai bisogni sociali quali la non autosufficienza di un familiare, la previdenza, l’istruzione dei figli. Intanto aumentano le imprese che puntano sugli strumenti del welfare aziendale.
L’engagement comes strategia aziendale
Per il 62,5% dei responsabili delle risorse umane il welfare aziendale è una priorità e il 71,9% si dice pronto ad attivare servizi ad hoc per informare i lavoratori e rispondere ai loro bisogni. «A una condizione - precisa Alberto Perfumo di Eudaimon -: che il welfare aziendale non sia solo strumento di integrazione del reddito, o peggio ancora, sostitutivo del reddito del lavoratore. Se prevale certamente l’idea di meritare di più, occorre che il lavoro dia il riconoscimento necessario per generare identità e appartenenza».Ecco quindi la leva strategica: attivare processi di engagement, attivare un’evoluzione del purpose aziendale, cioè di una finalità condivisa. L’emergenza sanitaria, questo ha certamente insegnato qualcosa. «Dopo che in una fase così drammatica è stato molto apprezzato il supporto della comunità aziendale laddove si è espresso – spiega Francesco Maietta del Censis -, nel ritorno all’ordinario sono indispensabili motivazioni collettive e senso della direzione di marcia, da cui possano discendere identità e appartenenza. È in questo quadro che si colloca anche l’azione del welfare aziendale». Strumento per rispondere «alla persistente fame di reddito», ma può ricostruire motivazione, appartenenza, riconoscimento, identità. «In sintesi, deve dare un contributo alla risposta all’estraniazione dal lavoro», sottolinea Perfumo.
Il rapporto Censis-Eudaimon scatta la fotografia di partenza, mette a fuoco la criticità. Ma delinea anche il metodo per adottare soluzioni adeguate. Il punto di partenza è sempre lo stesso. Trasformare le aziende in imprese attrattive per giovani migliori e talenti più preparati. Ma anche essere riconosciute, apprezzate e valorizzate dalle persone che già ci lavorano. «Ogni persona ha bisogno e si aspetta, oltre a una retribuzione adeguata, soluzioni che riconoscano la sua unicità – spiega Maietta -. Significa personalizzare il rapporto del lavoratore con l’azienda e, nel caso del welfare aziendale, vuol dire vedere riconosciuti gli specifici bisogni di tutele e servizi del lavoratore e metterlo nella condizione di scegliere bene, aiutato a capire le soluzioni più adatte all’interno di offerte spesso ipertrofiche». Perché un buon welfare aziendale – emerge dall’indagine – ha anche bisogno di molta informazione, di essere conosciuto, è quello che consente di scegliere tra tante cose, ma che aiuta anche a scegliere rispetto a problemi ed esigenze. Lo richiede il 75,2% dei lavoratori: maggiori informazioni, supporti, una guida per affrontare problemi e difficoltà legati a specifici bisogni sociali come non autosufficienza, previdenza, scuole dei figli. Il 27% indica tale richiesta come molto importante, il 48,2% come abbastanza importante.
Sei imprese su dieci (62,5%) rispondono di esserci, per loro il welfare aziendale «è una priorità e sarà sempre più così», a cui si aggiunge un 32,8% che lo reputa comunque importante. Ma il vero dato nuovo emerge fra gli ambiti di welfare aziendale prioritari: sono certo indicati salute, malattia e non autosufficienza (84,4%), cura e gestione dei figli (baby-sitter, asili nido, ecc.) per l’84,4%. Ma spunta come leva strategica importante con un 75% di peso il bilanciamento tra vita privata e lavoro, con un 73,4% istruzione e formazione. L’efficacia però sarà più elevata, oltre che con maggiori benefici fiscali, per l’85,9% delle volte con più servizi e prestazioni personalizzati su profilo ed esigenze dei lavoratori, ad esempio in base a età, genere, tipologie familiari.
Una dimensione nuova, rivista quella del welfare aziendale. Più ricco e più capace di attrarre. Alla fine, se confezionato con una offerta originale di mix di esigenze in ambito lavoro, welfare, figli, famiglia, tempo libero. Che supporta fiscalmente il reddito del lavoratore con benefici anche per i conti aziendali; garantisce l’accesso ad una molteplicità di flexible benefit e la soggettività del lavoratore, aiutandolo nel costruirsi soluzioni personalizzate per rispondere alle sue problematiche il welfare aziendale può diventare una buon motore di opportunità occupazionale e di conciliazione dei tempi vita-lavoro. Rimetterebbe in moto quella mobilità lavorativa e di opportunità oggi fortemente frenate anche per evitare il “salto nel buio”.