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Digitale e innovazione , sono le Pmi Large a crescere le nuove filiere del futuro

Articolo. Sono un gradino sopra le medie imprese. Hanno investito in processi di digitalizzazione e si avvicinano in modo strutturato e convinto ai percorsi di innovazione. Non guardano all’immediato, ma hanno una visione di cambiamento di più lungo periodo. Per questo sono le imprese leader di filiera e a loro si guarda per promuovere la digitalizzazione anche nelle realtà più piccole, ancora in ritardo

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Micro, piccole, medie e grandi imprese. La geografia del sistema produttivo si è sempre sviluppata intorno a questi quattro pilastri della nostra economia industriale. Oggi, innovazione, trasformazione digitale, necessità di ridisegnare i modelli e i paradigmi di business identificano una nuova “classe” di imprese. Un pilastro nuovo, con in più un ruolo guida, di modello a cui ispirarsi in un contesto di incertezza e complessità, perché sono le aziende che meglio stanno puntando sull’innovazione digitale come leva per il progresso del business. E in parte per la sopravvivenza.

Sono le «Pmi Large», una categoria d’impresa in evoluzione, e dove la differenza non sono solo i criteri statistici e finanziari di bilancio (fatturato sopra i 50 milioni di euro o un numero dipendenti superiore a 250 addetti), ma due altri fattori: una capacità di crescita dimensionale (anche con aggregazioni, fusioni, acquisizioni) per andare un gradino sopra le medie imprese e necessaria per darsi un nuovo obiettivo di sviluppo. Ma è in particolare il ritmo della loro trasformazione digitale e della capacità di essere capofiliera modello trainante per gli altri anelli a farne un nuovo gruppo di “imprese avanzate”.
Nel grafico qui sotto i quattro maggiori profili di maturità digitale dimostrato dalle Pmi Large.

 

Il ruolo delle filiere del valore è centrale

Torna centrale il tema della filiera e il modo di come stare dentro alla catena del valore. Dove essere parte della catena non basta più da sola, o non è più certo condizione sufficiente per continuare a restarci.

Parlare lo stesso linguaggio – digitale, di sostenibilità, di innovazione continua e di attenzione alla formazione – è invece sempre più l’elemento essenziale di competitività, e prima ancora di resilienza per rimanere inserita nella propria catena del valore e sul proprio mercato. La vera differenza la fa la capacità di essere costantemente in linea con il livello di innovazione e di trasformazione digitale espressi da tutti gli altri anelli della propria filiera. Il digitale è il punto di forza per le Pmi Large: il 71% mostra un profilo “convinto” o “avanzato”, rispetto al 50% delle Pmi tradizionali.

 

Non è quindi un caso così isolato infatti se si torna a parlare di ritardo nella digitalizzazione delle piccole e medie imprese. Un dato da cui parte anche l’analisi dell’ultimo Osservatorio Innovazione Digitale nelle Pmi del Politecnico di Milano attraverso un’indagine puntuale con Infocamere, per sottolineare, ancora una volta, come molte piccole e micro imprese sono ancora in ritardo sul percorso di trasformazione digitale.

Troppo spesso, inoltre, le Pmi “tradizionali” approcciano in modo destrutturato il proprio percorso di innovazione, facendosi guidare più dall’esigenza temporanea di cambiamento o dalle opportunità di finanziamento una tantum offerti dalle diverse istituzioni. Per questo, le aziende più grandi e i leader di filiera hanno oggi un compito molto preciso – sottolineano i ricercatori del Polimi -: devono promuovere la digitalizzazione anche nelle imprese più piccole, che stanno a monte della produzione. E i primi dati emersi esprimono chiaramente questa prospettiva. Il digitale è considerato come un costo solo dal 2% delle Pmi Large, rispetto invece al 16% delle Pmi tradizionali, mentre, per il 61%, è lo strumento cardine per costruire il futuro dell’azienda, contro il 35% delle altre Pmi.

Il digitale è anche un fattore culturale

Il digitale costituisce quindi un aspetto culturale di queste imprese, proprio perché in queste aziende esiste una maggiore consapevolezza di questa transizione. Ma c’è ancora un limite per entrambe le categorie. È ancora troppo carente l’attività di formazione svolta e rivolta ai dipendenti e per il management aziendale.

Un’attenzione e un ritardo dentro un mondo, quello delle Pmi, che comunque è estremamente differenziato e variegato, sia nella sua capacità di innovarsi e di stare al passo con le nuove trasformazioni tecnologiche. Sia di cogliere i cambiamenti come punti di nuova crescita competitiva e di introdurli in azienda.
Sono anche questi due differenti approcci a identificare in modo univoco un sottoinsieme oggettivo di imprese all’interno del panorama economico che, se da un lato esclude dal novero quelle imprese che nei comportamenti sono assimilabili alle Pmi, poi nella forma non lo sono affatto.

 

Anche i numeri, in parte danno un riscontro di quanto sta succedendo in questa platea di medio imprese, una fotografia a due velocità. Nel triennio 2018-2020 solo il 50,9% delle imprese aveva svolto attività innovative, introducendo con successo, sul mercato o al proprio interno, almeno un’innovazione di prodotto o di processo. Un dato che secondo l’analisi svolta dai tecnici dell’Istat nel loro ultimo report su “L’innovazione nelle imprese in Italia” è «preoccupante se comparata a quella relativo al triennio precedente quando le imprese innovative erano state il 55,7%». Qualcosa quindi si è inceppato, non per tutte, ma per molte il percorso si è effettivamente interrotto.

Una pattuglia di Pmi più «digital» delle altre

Claudio Rorato

Direttore dell’Osservatorio Innovazione Digitale nelle Pmi

«Circa 250mila Pmi sono in grado di produrre intorno al 40% del fatturato nazionale e di assorbire oltre il 30% della forza lavoro: numeri che fanno comprendere non solo l’importanza del ruolo giocato dalle Pmi in Italia, ma anche l’attenzione che il Paese deve loro dedicare per salvaguardare questo patrimonio economico e sociale» spiega Claudio Rorato, direttore dell’Osservatorio Innovazione Digitale nelle Pmi. E non esita anche a evidenziare quanto il passaggio evolutivo, in linea con le trasformazioni del mercato e delle nuove filiere digitalizzate, da “tradizionale” a “Large” non dipenda sempre e solo dal singolo imprenditore. Anche, naturalmente. Ma è un passaggio che fa riferimento al più ampio ecosistema in cui sono inserite le piccole e medie imprese.

 

«Prima di parlare dei singoli, però, dobbiamo parlare di responsabilità del sistema: troppo spesso sentiamo parlare di arretratezza delle imprese, di scarsa cultura digitale degli imprenditori, di visioni poco evolute. L’imprenditore, per la sua stessa estrazione, prevalentemente tecnica, si concentra più sul prodotto che sulla gestione e la programmazione, più sulla quotidianità che sulla pianificazione e la gestione del cambiamento. Ecco, allora, che le associazioni di categoria, le filiere, le supply chain, gli istituti finanziari, la classe politica, la pubblica amministrazione, gli hub territoriali per lo sviluppo digitale devono fare la loro parte per creare le condizioni che permettano di fare impresa. Solo a quel punto, le responsabilità individuali di fare o non fare potranno essere attribuite alle singole organizzazioni».

Aiutare queste Pmi più “evolute” a fare l’ulteriore salto di qualità resta importante quindi anche per tutte le altre imprese inserite nelle filiere a cui potrebbero guardare per comprendere lo stato di digitalizzazione del gradino dimensionale successivo al loro, quello delle medie imprese e al quale ispirarsi in chiave evolutiva.

Un profilo avanzato per diventare un modello

Non è un passaggio da sottovalutare, le Pmi Large sono vetrina di innovazione e modello di capacità di trasformazione: la fotografia che emerge dall’indagine degli Osservatori Polimi indica chiaramente che il digitale è un punto di forza delle Pmi Large. Il 71% mostra, infatti, un profilo convinto o avanzato, rispetto al 50% delle altre Pmi. Sono imprese che stanno cercando di riorganizzare i processi con l’aiuto del digitale e che dispongono internamente di competenze per l’innovazione. Solo il 29% delle Pmi Large, invece, può essere ascritto alle categorie degli “analogici” e dei “timidi” (rispetto al 50% delle altre Pmi). Queste imprese, infatti, sono ancora restie ad abbracciare la transizione digitale “mancando, soprattutto, di un approccio olistico e di una visione strategica di lungo termine” evidenzia la ricerca del Polimi.

 

Vi è però una forte percezione dei vantaggi derivanti dal digitale: solo il 2% infatti delle Pmi Large lo considera come un costo, contro invece il ben più elevato 16% delle Pmi tradizionali. Mentre, ed è qui la chiave di volta, il 61% lo considera lo strumento per costruire il futuro dell’azienda, il doppio rispetto al 35% delle Pmi tradizionali. Nel segmento delle Pmi Large, ancora, emerge la maggiore attenzione per le tecnologie di frontiera, anche se i tassi di adozione “non sono così interessanti da poter parlare di un fenomeno diffuso”.

Federico Iannella

Ricercatore senior Osservatorio Digitale Pmi del Politecnico di Milano

Digitale e transizione energetica sono strettamente connessi, l’una motore e conseguenza dell’altra. Così la transizione digitale è accompagnata da una inevitabile transizione green, cambiamento fra i più richiesti dalle capofiliera per restare allineati al resto degli anelli. Il 58% delle Pmi Large, infatti, ha adottato o è interessato ad adottare soluzioni per ottenere una riduzione dell’impatto energetico, il 48%, invece, è interessato a rating Esg, mentre il 61% ha introdotto o si propone di introdurre pratiche di Csr, la Corporate social responsibility.

«L’importanza del ruolo giocato a livello economico e sociale da parte delle piccole e medie imprese merita la massima attenzione da parte del sistema Paese, che deve fare la sua parte: solo in questo modo si può affrontare il problema nella sua interezza e indagare le ragioni profonde dietro all’andamento digitale delle imprese. Per attivare meccanismi di contaminazione ed emulazione tali da allargare la base digitale è necessario, da un lato, adottare un approccio per filiere che tenga conto anche delle Pmi Large, mentre dall’altro gli hub territoriali di innovazione devono collegarsi maggiormente tra loro e con la rete relazionale del territorio» è la conclusione di Federico Iannella, ricercatore senior Osservatorio Innovazione Digitale nelle Pmi del Politecnicop di Milano.

L’analisi dell’Ossevatorio si è poi concentrata, per il momento, su tre filiere del made in Italy. «Abbiamo analizzato in particolare tre filiere molto importanti - specifica Rorato - l’agro-alimentare, la moda, design e l’ arredo. Per tutte emerge che anche le grandi aziende del settore a monte della filiera dialogano e agiscono prevalentemente con piccole e anche micro imprese, e ciò determina che già all’inizio della filiera ci siano freni e problemi per una digitalizzazione minore e in ritardo. Per colmare questi gap, devono intervenire le aziende leader di filiera e promuovere una maggiore digitalizzazione anche a monte della filiera, tra le realtà minori in termini dimensionali, ma che sappiamo sono essenziali per fare funzionare tutto il sistema».

Il settore agro-alimentare è decisamente il più numeroso, con 54mila imprese attive (4% del comparto). Le PMI rappresentano il 49% del fatturato complessivo di filiera (pari a circa 192 miliardi di euro) con una media di 3,5 milioni di euro per ogni realtà, ed evidenzia una forte vocazione verso la micro-dimensione con una media di circa 18 addetti per impresa.

L’arredamento vede 8mila Pmi attive (5,7% del comparto) ed esprime la dimensione più elevata sia a livello di fatturato, rappresentando la metà degli oltre 37 miliardi dell’intera filiera (con una media di 4,3 milioni di euro per ogni realtà) che in termini di addetti medi per impresa.

La moda, invece, presenta 19mila imprese attive con un fatturato medio di 3,9 milioni di euro (54% degli oltre 73 miliardi del comparto) e circa 22 addetti per ogni impresa.