La strategia dei due percorsi paralleli
Il dibattito sulla sostenibilità ha fatto passi avanti importanti, sulla spinta anche dell’emergenza sanitaria. Ora a quella spinta si sta aggiungendo la propulsione del conflitto Russia-Ucraina che ha già trasformato quella sfida in una scommessa energetica per il futuro dell’intera Europa. Sarà il 2022, a questo punto, l’anno in cui potremo vedere effettivamente se si passerà dalle parole ai fatti. Con un ulteriore pungolo decisivo: l’entrata in vigore della nota (e discussa) Tassonomia europea, lo standard europeo per la finanza sostenibile e chiamato a classificare le attività economiche in funzione del relativo grado di sostenibilità.
Si tratta di un passaggio decisivo per la decarbonizzazione dell’intera economia economia italiana ed europea, destinata a cambiare il contesto competitivo per le imprese. Ma in particolare il loro assetto produttivo e organizzativo. Le imprese, se già non l’hanno fatto, sono costrette a dotarsi di una strategia climatica che mitighi i rischi e amplifichi le opportunità, sia nel breve che nel lungo termine. Una strategia poi che deve declinarsi secondo criteri scientifici, sventando ogni tentativo di greenwashing data la posta in gioco. Saranno necessari strumenti attuativi, in termini di metriche, di processi, di obiettivi stabiliti, operazioni fino alla rendicontazione, cui sono interessati tutti gli stakeholder nazionali e del territorio, a partire dagli investitori.
Questo il quadro di partenza, i passaggi che aspettano le aziende e che si innesta su un contesto economico-internazionale già cambiato radicalmente negli ultimi sei mesi. Ora, sconvolto ancora più profondamente nelle sole ultime tre settimane.
La questione della autonomia o della sovranità energetica di ogni paese europeo oggi domina su tutte le precedenti priorità e sulle nuove strategie geopolitiche nazionali. Non è solo una questione di caro bollette per imprese e famiglie. Non è solo un’emergenza crescente in termini di povertà energetica dei nuclei familiari (che non possono permettersi di scaldare o illuminare a sufficienza la propria abitazione). E non è più solo la criticità del caro-prezzi delle materie prime ed energetiche sul sistema economico e che costringe imprese, in particolare quelle più impegnate nei settori energivori come acciaio e chimica, costrette a dover fermare la produzione (solo in Lombardia sono già più di 350 quelle costrette all’interruzione) o a spostare i turni di lavoro negli orari off-peak, le fasce orarie in cui il costo dell’energia è inferiore. La crisi internazionale, il conflitto alle porte d’Europa e i mercati delle materie prime in costante pressione su ogni quotazione sono già tutti temi sul tavolo della nuova era della globalizzazione industriale e commerciale.
La vera sostenibilità del digitale
Ma la vera novità di questo ampio e complesso scenario, in coerenza con il percorso imposto dallo schema della tassonomia europeo, è il rilancio ulteriore della sempre più ribadita centralità del pilastro digitale, di una transizione tecnologica intesa come determinate solo se strettamente connessa e driver della scommessa sostenibile ed energetica. Si avrà vera sostenibilità solo se si procede su un doppio binario: trasformazione digital e green insieme, se realizzate di pari passo.
Aumentare la tutela ambientale e la sostenibilità delle imprese significa accelerare soprattutto sulla trasformazione e sull’innovazione digitale per garantire il massimo del percorso oggi possibile in termini di passaggio green delle trasformazioni digitali dell’industria e dei loro prodotti smart oriented. Senza le cosiddette nuove “infrastrutture della qualità”, il cui peso crescente nella sfida energetica è decisivo, sarà difficile puntare alla qualità e alla sostenibilità energetica dei processi, alla conformità green dei prodotti, agli standard sostenibili approvati dei servizi.
Professore del Politecnico di Milano e Scientific chairman del World Manufacturing Forum
È la grande sfida che attende ora l’intero ecosistema economico, dalle grandi industrie (già un po’ meglio messe su questo percorso), alle medie imprese (in fase di riorganizzazione, ma sparsa) alle più piccole aziende, invece, alle prese con un ampio disorientamento strategico. Nei giorni scorsi, in un incontro con imprenditori al Made di Milano, il competenze center guidato da Marco Taisch, professore del Politecnico di Milano e Scientific chairman del World Manufacturing Forum, ha fatto da punto di snodo una sua riflessione: «Non si può fare transizione ecologica senza transizione digitale. È un concetto molto importante, che deve arrivare alle aziende e ai suoi imprenditori e manager. Trasformazione Digital e Green insieme, e da realizzare di pari passo». La transizione ecologica «è un fortissimo driver anche verso la transizione digitale, dato che se si può fare digital transformation senza sostenibilità – ha spiegato Taisch -, non si può certamente fare il contrario: non si può realizzare transizione ecologica senza sviluppare le risorse digitali che la favoriscono e favoriscono la decarbonizzazione».
Ecco quindi la nuova sfida: lo sviluppo sostenibile richiede nuovi modelli di business, schemi organizzativi come la servitizzazione delle attività manifatturiere, altro abilitatore di maggiore sostenibilità, ma anche una diffusa IoT , fondamentale per far ariva al consumatore in modo trasparente come funziona la fabbrica 4.0, cosa succede in termini di produzione e di minor impatto ambientale, di inquinamento, quanto un’azienda è davvero sostenibile nelle sue attività e forme di produzione. Ed è qui, a questo punto, che subentrano le due nuove dimensioni con cui fare i conti.
La prima, l’ha specificata l’ultima analisi Cerved, di qualche giorno fa, sotto forma di allarme: la riconversione dei processi di produzioneper raggiungere gli obiettivi europei di emissioni zero al 2050 rischia di colpire pesantemente 35mila aziende italiane.
E questo nonostante un potenziale di investimento di 20,6 miliardi (il 37% dei fondi del Pnrr) alla transizione sostenibile dell’industria, abbinato a un altro 20% per la digitalizzazione. La ricerca Cerved arriva a questa sintesi (dopo un indagine su 683mila imprese) indicando che saranno 57mila le società che richiederanno ingenti investimenti per la transizione ecologica, con 35mila aziende però che non avrebbero i fondamentali necessari per sostenere gli investimenti senza compromettere il proprio equilibrio finanziario. In cima, con oltre l’89%, emergono le imprese energivore o legate al comparto dell’energia.
C’è poi una seconda indagine della Commissione europea che ha affondato le sua analisi su oltre 16.300 piccole e medie imprese impegnate in un percorso verso la digitalizzazione e la sostenibilità, risultati in gran parte confermati dall’indagine sulla Digital Transformation delle imprese pubblicata dall’Osservatorio del Politecnico di Milano. Tre gli elementi al centro dell’analisi: il processo innovativo in via di implementazione, le strategie di digitalizzazione e le priorità delle pratiche di sostenibilità progettate.
I risultati hanno restituito un 20% di Pmi che ha appena intrapreso o sta ancora pianificando una strategia di digitalizzazione. Ma oltre il 65% sta ancora affrontando il “come” digitalizzarsi nel brevissimo periodo. Il 62% delle medie-grandi imprese ha invece già adottato almeno una tipologia di tecnologie digitali, per lo più cloud computing (43%), infrastrutture ad alta velocità (32%) e smart device (21%). Sul fronte delle tecnologie più innovative, invece, solo il 10% delle Pmi utilizza big data analytics, il 5% utilizza robotica e il 3% blockchain, tecnologia in realtà secondo l’ultimo Osservatorio Polimi in decisa crescita, sia diffusionale sia come valore di mercato. Le percentuali sono migliori per le start-up (imprese nate dopo il 2015).
Il driver dell’innovazione digitale
Il focus sulle strategie di sostenibilità ambientale, indicano un 34% di imprese che ha implementato almeno un’azione significativa: sei su dieci riguardano il riciclo e riuso di materiali, più di una su due (52%) ha modificato i processi per ridurre il consumo e l’impatto di materia prima naturali, sostanzialmente la stessa platea di imprese che ha scelto di aumentare il risparmio di energia o la transizione verso energie da fonti rinnovabili. I questo solco si inserisce un 30% di piccole e medie imprese che sta sviluppando innovazioni sostenibili di prodotto e di processo.
Ma non basta ancora. Lo ha rimarcato molto bene Nicoletta Corrocher, research fellow all’Icrios, dipartmentimento di management e Tecnologia della Bocconi di Milano. Nel suo ultimo intervento per il sito Lavoce.info la Corrocher ricorda infatti se le tecnologie digitali possono essere alla base di una svolta ecologica, c’è anche un impatto energetico che spesso si sottovaluta o, peggio, si trascura, proprio per incapacità di misurarlo. «Computer, data center e dispositivi elettronici consumano una quantità crescente di elettricità che – spiega Corrocher - se non generata da fonti rinnovabili emette gas serra». L’apporto di emissioni gas serra da parte del settore Ict era di circa l’1,6% nel 2007, salito vertiginosamente al 3-3,6% nel 2020. E le previsioni sono che arrivi all’8% nel 2025.
«L’infrastruttura Ict ha infatti bisogno di un’enorme quantità di energia per immagazzinare, elaborare e trasmettere dati. Inoltre – racconta sempre Corrocher -, la crescente connettività dei dispositivi e la condivisione simultanea di dati richiede un consumo continuo di elettricità. Da questo punto di vista, uno dei pilastri della strategia “verde” dovrebbe essere quello di utilizzare data center e fornitori di servizi cloud alimentati da fonti rinnovabili piuttosto che quelli tradizionali, favorendo un taglio sostanziale delle emissioni totali dell’Ict».
Sustainability leader di Deloitte Italia
Anche questa consapevolezza fa parte della strategia che supporta la transizione digitale ed energetica, un passaggio decisivo per la decarbonizzazione del sistema economico. Detta in altri termini: la Tassonomia europa ha costretto le aziende da quest’anno ad adottare una strategia climatica che mitighi i rischi e amplifichi le opportunità, sia nel breve che nel lungo termine.
«Una strategia che deve poi declinarsi nei necessari strumenti attuativi – spiega Franco Amelio, Sustainability leader di Deloitte Italia - in termini di metriche, processi, obiettivi, operazioni, fino alla rendicontazione dei risultati e dei processi che ahnno portato a quei risultati”. Secondo lo studio di Deloitte Italia «Il climate change nell’informativa finanziaria redatta dalle società quotate in Italia”, le imprese italiane “manifestano una crescente consapevolezza sul tema del cambiamento climatico: il 53% delle relazioni finanziarie annuali 2020 delle società quotate sul Mta – spiega Amelio -, contiene infatti già informazioni sul clima, l’11% in più dello scorso anno. Spesso, però, si tratta di informazioni di contesto o di mercato, in larga misura qualitative – sottolinea Amelio -, riflesse solo in parte sulla gestione dei rischi, ancor meno sulla strategia e quasi per nulla sulle poste iscritte in bilancio».
Anche nelle metriche devono essere fatti passi avanti, soprattutto «sulla misura delle emissioni Scope 3, sulla certificazione degli inventari di GHG, sull’assunzione di target science-based e sull’integrazione della catena di fornitura» spiega nel dettaglio Amelio. Che non evita di lanciare anche un allarme. «In questa fase di assestamento, si registrano casi piuttosto evidenti di green marketing, per non dire di greenwashing: una tendenza che potrebbe persino accentuarsi nei prossimi mesi, ma che è destinata a scontrarsi con l’azione legislativa e regolatoria e con la maggiore consapevolezza dei consumatori».
Un legame stretto fra obiettivi climatici e impresa
Per le imprese, dunque, c’è parecchio lavoro da fare. Anche perché dati di contabilità nazionale pubblicati da Cerved indicano che l’Italia è, tra le quattro principali economie dell’Unione, il paese con il più basso contributo in termini di valore aggiunto dei settori inclusi nella tassonomia e nel sottoinsieme delle attività transitional (il 12,2% del valore aggiunto è generato da settori identificati come transitional, contro il 16,8% della Francia, il 13,6% della Spagna, il 14,7% della Germania). E il conto alla rovescia è già iniziato.
Stabilire quindi un legame più stretto tra gli obiettivi climatici di breve e lungo termine e la strategia aziendale che passa inevitabilmente, oltre che da nuove competenze dei board e dei manager, anche da un ripensamento della struttura organizzativa delle imprese, è quindi il primo passaggio di questa transizione. Presupposto sarà la dimensione del pacchetto di investimenti da mettere in campo in materia di sistemi e infrastrutture digitali, Ict , cybersecurity, Intelligenza artificiale. Tutti strumenti basilari per i nuovi processi di rendicontazione climatica di cui le aziende si dovranno dotare.
«Tutto ciò porterà ad accelerare sull’innovazione di prodotto e di processo – sottolinea Amelio -, aggiornando sia il modello di business che il rapporto tra impresa e società. Prima si farà tutto ciò, più facilmente si consoliderà la posizione della propria impresa nella nuova arena competitiva».
E anche dall’Osservatorio del Politecnico di Milano, emerge come «le imprese italiane hanno compreso come l’innovazione digitale sia una leva fondamentale per la competitività e la crescita: nel 2022 quasi la metà delle grandi imprese e delle Pmi italiane aumenterà il budget Ict e si prevede una crescita superiore al 4% negli investimenti, riprendendo il trend pre-pandemia, dopo il rallentamento registrato nel 2021 (+0,9%)» spiegano gli autori dell’ultima Osservatorio Digital tranasformation della School of Management del Politecnico di Milano.
Più investimenti per accelerare le transizioni
Cresce l’adozione dell’open innovation per accelerare questa crescita, un approccio che si è dimostrato vincente per rispondere in modo rapido alle nuove esigenze e oggi è già praticato dall’81% delle grandi aziende.«Oggi startup, imprese e pubbliche amministrazioni stanno affrontano la nuova normalità portando con sé due lezioni apprese dalla crisi - afferma Alessandra Luksch, Direttore degli Osservatori Digital Transformation Academy e Startup Intelligence del Politecnico di Milano –. La prima è che l’innovazione digitale non è un bene di lusso, ma una leva fondamentale per il progresso del business, per la sopravvivenza nei contesti competitivi e per la transizione ecologica. La seconda è che nessuno può salvarsi da solo: in un periodo di forte crisi e discontinuità, l’esigenza di innovare ha portato molte imprese a guardare a stimoli provenienti dall’esterno».
Resta comunque, alla fine, un dato su tutto da tenere presente: gli obiettivi Onu prefissati dall’Agenda 2030 sullo sviluppo sostenibile saranno possibili solo da una misurazione degli obiettivi realizzati dalle imprese. L’Iso, (International Organization for Standardization), l’istituto che fissa le regole tecniche e ne certifica la loro applicazione corretta, ha predisposto uno standard di valutazione dell’impronta ambientale e della decarbonizzazione di qualsiasi prodotto e di numerosi processi. Si è arrivati dopo aver pubblicato qualcosa come 22mila fra norme internazionali e documenti correlati. Anche questi elementi per l’industria e il paese rappresentano una importante opportunità: l’autonomia energetica da fonti fossili o da forniture straniere, l’uso efficiente di risorse innesca risparmi e innovazione. Trasformando in redditività e nuova competitività.