«L’attenuazione degli effetti dell’attuale squilibrio dipende da ciò che facciamo ora, soprattutto se pensiamo alla responsabilità che ci attribuiranno coloro che dovranno sopportare le peggiori conseguenze». Lo scrive Papa Francesco nella «Laudato si’», un’enciclica sulla linea del magistero dei suoi predecessori. Già Paolo VI, nel 1970 alla Fao, parlò della possibilità «sotto l’effetto di contraccolpi della civiltà industriale, di una vera catastrofe ecologica». Giovanni Paolo II si occupò di salvaguardia del Creato con un interesse crescente.
Benedetto XVI, nella «Caritas in Veritate», scrive: «La Chiesa deve difendere non solo la terra, l’acqua e l’aria come doni della creazione appartenenti a tutti. Deve proteggere soprattutto l’uomo contro la distruzione di se stesso».
La ventiseiesima conferenza sul clima a Glasgow ha discusso, in questi giorni, di impegni più drastici di riduzione dei gas serra, per contenere l’aumento della temperatura media globale al di sotto di 1,5°C, e di cento miliardi di dollari all’anno di finanziamenti ai Paesi poveri per aiutarli nella transizione energetica. È troppo presto e forse sbagliato dire se l’assise sarà definita un successo o un fallimento. Il Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici fu istituito nel 1988, la prima conferenza si tenne a Rio nel 1992: il tema, però, non è mai stato al centro dell’attenzione dei media come quest’anno. Due settimane di negoziati non possono risolvere la crisi climatica.
L’esempio dell’Unione Europea
L’esito dei lavori si giudica dalle decisioni conseguenti, come l’aggiornamento al rialzo dell’impegno dell’Unione Europea per la riduzione dei gas serra, passato, sulla linea dell’Accordo di Parigi, dal -40% al -55% nel 2030 rispetto al 1990, con il conseguente pacchetto legislativo «Fit for 55» del luglio scorso e le relative ricadute sulle legislazioni degli Stati membri. E fanno bene i movimenti come Fridays for Future a continuare a pungolare, chiedendo ai governi di alzare ancora l’asticella degli impegni.
La decarbonizzazione è un processo lungo e faticoso. Richiede di intervenire sull’intero processo produttivo. Oggi ci si scontra non più tanto con chi, cocciutamente, nega ancora la necessità di tagliare i gas serra per mitigare il riscaldamento globale, ma con le argomentazioni, più subdole, di chi sostiene che la società e l’economia non siano ancora pronte ad affrontare le sfide della decarbonizzazione. Oppure che sia ininfluente un impegno dell’Unione Europea, da cui proviene solo l’8% delle emissioni, rispetto, per esempio, al 28% della Cina, che continua a ricorrere al carbone, o, addirittura, che sia troppo tardi per fare alcunché.
Rinviare l’azione è il costo più alto
Questi discorsi sono ancor più pericolosi di quelli di chi, per almeno trent’anni, ha negato la necessità di agire, ritardando interventi che si potevano attuare in modo ben più graduale. Perché portano, ancora una volta e quando il tempo utile sta per scadere, a rinviare l’azione risoluta contro il riscaldamento globale, i cui sempre più drammatici effetti sono sotto gli occhi tutti, ovunque nel mondo: gli eventi meteorologici estremi, l’innalzamento del livello dei mari, la fusione dei ghiacciai, la desertificazione. È vero che oggi dall’Europa proviene solo l’8% delle emissioni. Ma la CO2, che permane nell’atmosfera, è arrivata, innanzitutto, dai Paesi che hanno avviato la rivoluzione industriale e, quindi, hanno accumulato per primi il debito ecologico nei confronti dei Paesi più poveri e delle generazioni future. Posticipare, ancora una volta, l’azione è di gran lunga più costoso e rischia di diventare fatale.
Lo scetticismo coinvolge la transizione dalle fonti fossili a quelle rinnovabili, anche se è sostenuta da agenzie internazionali, università e persino gran parte della finanza. L’influenza della vecchia economia lineare estrattivista condiziona ancora il mondo della comunicazione e quello della politica. È vero che la transizione energetica mantiene il ricorso, per un tempo il più possibile breve, alle fonti fossili. Ma, per salvarci, dovremo rinunciarvi. Aspettiamo la fusione nucleare, che non esiste ancora? Confidiamo nella cattura e nello stoccaggio della CO2, una tecnologia molto problematica? È come se, nella prima fase della pandemia, non avessimo preso misure per il contenimento del contagio, aspettando i vaccini.
Il ruolo dell’Italia
Dobbiamo agire subito. Come insegnano le più di mille imprese, tra cui 34 eccellenze bergamasche, in esposizione alla fiera di Rimini sull’economia circolare e le fonti rinnovabili. Le scelte di oggi sono decisive per tutti. Il dibattito dev’essere trasparente, superando inutili contrapposizioni. La relazione sulla green economy presentata a Rimini mostra che l’Italia è prima tra i cinque principali Paesi europei per produttività delle risorse, seconda per riciclo di rifiuti urbani e tasso di utilizzo circolare dei materiali, mentre è in coda per la digitalizzazione. L’Italia, se supera questo deficit, può diventare, priva di materie prime ma ricca di sole e di vento, l’Arabia dell’era della economia circolare.