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Talenti in fuga dalle imprese poco flessibili , senza valori e piani di carriera

Articolo. La pandemia ha cambiato tutto e stravolto le priorità. Lavoratori sempre meno coinvolti e ingaggiati. Non è più così importante una politica retributiva. Le giovani generazioni puntano su aziende che conciliano vita privata e impegni professionali. Ecco come il digitale si trasforma in leva di attrattività

Lettura 9 min.

La grande fuga e manager impreparati

Ore 19,12. Treno in partenza verso casa. Sale al volo, trafelata, si siede accanto alle amiche che le avevano riservato il solito posto. «Il capo ci ha convocato tutti proprio a fine giornata – ha voluto spiegare subito -. Dopo le nuove cinque dimissioni solo di questa settimana, sono tutti preoccupati. E sapete che cosa ci ha detto il nostro amministratore delegato? Adesso basta andarvene, se c’è qualcosa che non funziona ditelo, oppure se volete chiedere qualcosa in particolare fatevi avanti, fatemelo sapere. Sono pronto ad accogliere ogni richiesta».

È un po’ questa la sintesi del dramma che stanno vivendo, da almeno un anno, anche i nostri imprenditori e di riflesso immediato, i responsabili delle risorse umane aziendali. La fuga dei dipendenti. O meglio, quel fenomeno delle dimissioni volontarie e di massa, il cosiddetto Big Quit o Great Resignation, con cui si etichetta oggi la grande fuga dalle aziende, tutti alla ricerca di un nuovo punto di equilibrio fra lavoro e vita personale. Questo mentre le aziende sono tutte in cerca di una strategia per mettere un rimedio a questa emorragia di personale e di profili professionali. Il punto è che si scoprono impreparate, non adeguate e sguarnite sotto il profilo degli strumenti e delle strategie da mettere in campo.

Il fenomeno è in atto da oltre un anno. E continua. Ancora oggi il nuovo dato dell’ultima indagine Indeed, portale specializzato nel recruitment, ribadisce che oltre il 46% dei lavoratori italiani sta pensando di cambiare lavoro. Gli ultimi dati Inps segnalano che le dimissioni nel trimestre aprile-giugno sono cresciute del 40%, con un amento dell’85% rispetto all’anno 2020. Il ministero del Lavoro, precisa ulteriormente che in Italia, sono state 484mila (tra uomini e donne) le dimissioni volontarie dal lavoro, su un totale di 2,5 milioni di contratti cessati. Il 37% in più rispetto al trimestre 2021 precedente, l’85% in più rispetto allo stesso periodo del 2020.

 

Sono cambiate le priorità. Ed è cambiato il concetto di che cosa sia «un buon lavoro». La scala dei valori per cercare, preferire e accettare un’occupazione si è in gran parte ribaltata. Il livello della retribuzione resta in cima ai criteri di scelta, oltre un lavoratore su due (il 56%, fonte Indeed) è ancora spinto dal desiderio di “guadagnare di più”. Si parte certamente da lì. Ma è un desiderio che lascia facilmente il gradino più alto del podio ad altre priorità quando, per esempio, il lavoro consente di avere più certezza e solidità del posto, quando non ci si fa abbagliare da un piccolo aumento economico di fronte a prospettive ben più interessanti nel medio-lungo periodo, quando è garantita una maggiore flessibilità di orario e organizzativa tale da poter conciliare ritmi professionali con proprie esigenze di vita personale. «Soddisfazione e responabilità», ha sottolineato in un recente intervento pubblico Marco Bentivogli, ex segretario metalmeccanici della Cisl, è la risposta che oggi le persone stanno sempre più cercando e chiedendo al lavoro, un’occupazione come percorso per dare senso anche alla propria vita. «Solo il 5% dei lavoratori - secondo Bentivogli - è soddisfatto del proprio lavoro, gli piace ciò che fa in fabbrica o in ufficio. E chi risponde su che cosa cerca nel proprio tempo al lavoro, la risposta è sempre smart working, autonomia e migliori condizioni per conciliare la vita privata con il lavoro».

La consapevolezza e la ricerca di lavori stabili

La pandemia è stata un grande punto di rottura. L’impatto che ha avuto sul lavoro, sull’organizzazione aziendale e sulle politiche di gestione delle risorse umane dentro le imprese è stata quasi disarmante. Dopo quasi due anni di emergenza sanitaria, infatti, tutte le indagini e le osservazioni sul campo portano a concludere che non è solo il lavoro ad essere cambiato. È un altro fenomeno prima di tutto ad emergere. Sono i lavoratori che hanno acquisito nuove consapevolezze. E da questa nuova posizione attribuiscono maggiore importanza a fattori come qualità di vita e work-life balance.

 

E così, oltre a espressioni radicali come le grandi dimissioni di massa, l’incertezza sul futuro, l’orientamento a non accettare compromessi, soprattutto da parte delle generazioni più giovani, su temi, in testa a tutti, come il clima aziendale e l’equilibrio vita privata e professionale, sta emergendo un ulteriore nuovo fenomeno, il cosiddetto Yolo Economy, da You Only Live Once (“Si vive una volta sola”). Un trend che in questi ultimi mesi sta già convolgendo tantissime persone, soprattutto Millennials, giovani che hanno deciso di abbandonare il posto fisso per inseguire «le proprie passioni e provare a trasformarle in un lavoro a tempo pieno o cambiare lavoro per farne uno più gratificante o in un ambiente più in linea con il proprio benessere psico-fisico. Una rivalutazione delle priorità personali e professionali a 360 gradi».

Questo è il quadro di sfide, punto di partenza, cui si trovano di fronte oggi le direzioni HR e i responsabili delle risorse umane. L’aumento degli investimenti in digitale e la necessità di ridefinire alcuni processi aziendali impone una revisione delle strategie finora seguite. Anche perché tutti questi nuovi fenomeni, visti con gli occhi delle Direzioni HR, ha avito pesanti effetti sui livelli di engagement e sul senso di appartenenza delle persone. L’Osservatorio HR del Polimi prefigura per le Direzioni HR un nuovo ruolo, sempre più di Connected People Care, la cui strategia portante punta a consolidare pratiche sempre più «orientate alle esigenze delle persone, facendo leva sull’utilizzo di tecnologie e strumenti che raccolgono ed elaborano i dati disponibili».

Mettersi in ascolto dei dipendenti

Mariano Corso, docente di Leadership & Innovation e responsabile scientifico dell’Osservatorio HR e dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, parte da qui la n uova policy, e non esitato a definire quanto «aziende e manager si sono scoperti impotenti» di fronte a questi nuovi trend. L’ultimo studio McKinsey sottolinea ulteriormente il dato, dice che su questo fronte c’è ancora molto da fare e «la prima regola, corretta, è certamente quella di mettersi in ascolto dei dipendenti e farsi le domande giuste». Non solo. Lo stesso studio McKinsey dice anche perché «è importante che le imprese prendano consapevolezza del fenomeno e che capiscano perché le persone se ne vanno, così da individuare le azioni da mettere in campo».

 

Le persone se ne vanno non solo, ma anche perché le imprese cambiano. Cambiano i paradigmi organizzativi, i modelli di business si modificano e si adattano ai nuovi scenari definiti e imposti soprattutto dall’evoluzione sempre più accelerata da innovazione e tecnologie. Un esempio calzante, anche se in parte estremo, ma che dà il senso della velocità di questo cambiamento è la cosiddetta «guerra del metaverso», il nuovo progetto di universo in realtà aumentata messo in campo da Zuckeberg, il leader dei Meta (ex Facebook).
Una guerra che ha preso di mira i migliori talenti di Microsoft. In meno di un anno oltre 100 dei più bravi specialisti e ingegneri in materia di realtà aumentata sono passati a Meta, a colpi di maggiori stipendi, in alcuni casi anche del doppia della retribuzione. La concorrenza per assumere i maggiori talenti da rivali e da startup non è una novità per la Silicon Valley. Quello che sembra invece un fenomeno senza precedenti è l’elevato numero di uscite e la rapidità con cui avvengono: fenomeno che mostra la “fame” di profili specifici e la voglia (in questo caso della nuova società Meta) di crescere e di farlo in tempi stretti.

Tempi stretti che forse non tutte le aziende hanno a disposizione, tempo prezioso invece per poter rilanciare una contro-offensiva sul fronte della difesa dei propri talenti. Anche perché un altro dato che è cambiato rispetto al passato, e ancora una volta soprattutto fra i più giovani, è l’alta propensione al cambiamento, alla mobilità professionale. Il posto fisso non piace più: cambiare posto di lavoro o aspettare per trovarne uno che meglio aderisce ai propri desideri non spaventa più.

 

Per questo attrarre talenti, trattenerli, coltivarli nel modo giusto rientra tutto in quello che ora si definiscono le nuove sfide per le imprese e, in particolare, per i responsabili delle risorse umane e HR aziendali. Le imprese mettono sul piatto della propria offerta un diverso approccio e strategie di recruitment. Il 45% delle aziende, pur di intercettare i migliori talenti e in particolare di trattenere i propri migliori uomini, è disposto ad aumentare le forme e le occasioni di smart working, concedere più occasioni per lavorare da casa, organizzare gli spazi di lavoro in modo da garantire maggiore sicurezza, garantire un’offerta di ogni tipo di supporto dal tecnologico allo psicologico, migliorare il pacchetto dei propri benefit.

Cuore e cervelli dentro le imprese

Tutto quanto viene riprogettato, dal lavoro all’ufficio mettendo al centro le persone. Le tecnologie consentono un grande balzo in questo senso: «dal digitale si ottiene il massimo quando le persone diventano il fulcro del processo organizzativo – si sottolinea nella ricerca McKinsey -, motrice di un processo di trasformazione in cui ricerca di senso individuale e ricerca di senso imprenditoriale possono coesistere felicemente». La Great Resignation, o come la definisce McKinsey, il Great Attrition «è quindi qualcosa con cui le imprese dovranno continuare a fare i conti, e per farlo forse occorre capire più in profondità che cosa è successo negli ultimi mesi». E Bentivoglio rincara: «Bisogna battere i modelli manageriali che agevolano l’abbandono di cuore e cervello fuori dai cancelli, con la riconsegna all’uscita».

Ma c’è anche una nuova dimensione che può influenzare la messa a fuoco delle strategie degli HR rispetto ai cambiamenti organizzativi delle imprese. Uno dei dati che sta emergendo come elemento parzialmente inatteso sul tavolo e sempre più preso in considerazione è l’aumento della produttività e del livello di efficienza nell’87% delle imprese (fonte: Studio Boston Consulting Group e KRC Research) registrata durante il periodo di pandemia proprio grazie alle nuove forme di lavoro supportate o favorite dalle tecnologie digitali. Il modello di organizzazione è quello emerso da una situazione emergenziale, che però ora si deve ripensare e adattare alle nuove domande che stanno via via imponendo gli stessi lavoratori. Una pressione che si esercita sulla completa trasversalità dei settori industriali. Nessun ambito lavorativo è escluso o influenza maggiormente le statistiche. Piuttosto «il lungo periodo di pandemia e di lavoro da remoto forzato ha provocato lentamente e in modo nascosto nelle persone una riduzione di engagement e senso di appartenenza all’azienda che si è manifestato improvvisamente nel momento in cui si è iniziato a intravvedere la luce in fondo al tunnel».

 

Ed ecco allora, il primo punto all’ordine del giorno della nuova strategia Hr, la prima vera sfida da affrontare: il coinvolgimento aziendale non ha mai toccato un livello così basso. I dati presentati da Emanuele Madini, Partner e practice leader dell’area “People & Innovation” di P4I – Partners4Innovation, citando la ricerca degli Osservatori del Polimi, sottolineano come il distacco dei lavoratori «non è mai stato così alto: in Italia appena il 7% si può definire pienamente ingaggiato, cioè legato all’azienda e attaccato al proprio lavoro, oltre che soddisfatto».

Modelli di leadership e una spinta purpose

Si deve ripartire da qui. Porre le basi per rivedere o definire per la prima volta la propria employee value proposition (Evp) tenendo conto del nuovo contesto e delle nuove aspirazioni delle persone. Sono questi i valori che fanno la differenzi sulle imprese concorrenti. L’engagement di una persona nel proprio ambiente di lavoro riflette, oltre agli spazi fisici e ai modelli di welfare, in particolare la definizione e comunicazione del valore dell’azienda e il suo ruolo sociale (il “purpose”), le politiche retributive, i piani di sviluppo e carriera, la formalizzazione della cultura aziendale e dei suoi valori, i modelli di leadership.

L’attenzione verso le persone, in un momento in cui l’accelerazione digitale ha trasformato le aziende, significa attenzione verso le loro competenze. Quelle digitali in particolare. L’ultimo indice Desi, anno 2021, indica l’Italia nella classifica delle competenze digitali ancora in estremo ritardo. L’efficacia delle proposte formative dentro un’azienda devono colmare questo gap e ritardo. Le «Digital Academy hanno un ruolo centrale anche quando si tratta di disegnare dei percorsi di reskilling, e sono quanto più necessari oggi – spiega Madini - se si pensa alla profonda transizione che sta affrontando il mondo del lavoro e che vede la nascita ciclica di nuove professioni, che richiedono competenze specifiche. Alle aziende non basta più semplicemente investire nel cambiamento – conclude -, oggi occorre più che mai focalizzarsi anche sulle competenze necessarie per soddisfare le richieste di business».

 

Ma c’è una seconda sfida che stanno affrontando gli Hr aziendali: andare oltre il semplice smart working. Nel senso che non può più essere considerato una semplice “alternanza” fra lavoro in presenza e lavoro da remoto. Lo smart working va riprogettato. Le ricerche dell’Osservatorio Polimi mettono in evidenza come «la pandemia ha accelerato l’evoluzione dei modelli di lavoro verso forme di organizzazione più flessibili e intelligenti e ha cambiato le aspettative di imprese e lavoratori, anche se emergono delle differenze fra le organizzazioni che rischiano di rallentare questa rivoluzione – spiega Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio Smart working -. Le grandi imprese stanno sperimentando nuovi modelli di lavoro, con la ricerca di nuovi equilibri fra presenza e distanza capaci di cogliere i benefici potenziali di entrambe le modalità di lavoro. In molte organizzazioni, soprattutto piccole medie imprese, invece, si sta tornando prevalentemente al lavoro in presenza a causa della mancanza di cultura basata sul raggiungimento dei risultati. Un arretramento – avverte Corso - che si scontra con le aspettative dei lavoratori e gli obiettivi di digitalizzazione, sostenibilità e inclusività del nostro Paese. Ora è necessario costruire il futuro del lavoro sul vero smart working, che non è una misura emergenziale, ma uno strumento di modernizzazione che spinge a un ripensamento di processi e sistemi manageriali all’insegna della flessibilità e della meritocrazia, proponendo ai lavoratori una maggiore autonomia e responsabilizzazione sui risultati».

Ed è in questo senso che anche Madini nella sua ricerca non fa che esortare a «ingaggiare concretamente i team aziendali nel ridisegnare pratiche e processi in virtù di una nuova concezione di flessibilità lavorativa che liberi davvero le energie delle persone. Per questo motivo, le direzioni HR devono essere in grado di fornire ai team strumenti e approcci per valutare sia le esigenze di organizzazione del lavoro peculiari del proprio ambito, sia le aspettative e le esigenze individuali delle persone con l’obiettivo di creare nuovi equilibri e modelli lavorativi che garantiscano produttività ed engagement delle persone». Una sfida quindi che si snoda su molteplici piani e che chiama in causa contemporaneamente diverse funzioni aziendali. «Alle imprese spetta il compito di strutturare progetti coraggiosi, lavorando su policy, tecnologie, spazi di lavoro e stili di leadership - afferma Alessandra Gangai, direttrice della Ricerca smart working nella Pubblica amministrazione i lavoratori devono allenare skill più adeguate al nuovo work-life balance; i policy maker devono accompagnare questa trasformazione con onestà intellettuale e lungimiranza».