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Raccomandati e passa-parola non funzionano più: il lavoro chiede competenze vere

Articolo. La ricerca Randstad 2022 sulle strategie di employer branding dopo il crollo dell’attrattività delle aziende segna anche questa svolta del nuovo lavoro: perde nettamente forza la relazione amicale o di parentele. Il ruolo della formazione e dei percorsi di re-skilling nell’orientare chi sta scegliendo un’altra impresa

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I giovani Gen Z: più attenzione alla persona

La ricerca del senso della propria vita passa sempre più dalla ricerca di un maggiore significato trovato anche nel proprio lavoro. Insieme, le due nuove dimensioni, diventano leva che aiuta a costruire un maggiore equilibrio tra vita e lavoro. Non si è più disposti a cedere sul primo terreno, se la seconda sfera non dà modo di recuperare.

È una dinamica nuova, imposta all’attenzione delle imprese soprattutto dal crescente fenomeno delle cosiddette Grandi Dimissioni. Per almeno due aspetti distinti, due trend emersi con molta chiarezza sia dall’ultimo Osservatorio HR Practice Innovation del Polimi, sia dal nuovo Rapporto Employer Branding Research 2022 di Randstad: fortemente guidato dalle nuove generazioni, con in testa la Gen Z (18-25 anni) e subito seguiti dai Millenials (26-41 anni), si chiede alle imprese più attenzione alla persona, alla sua valorizzazione, giovani che guardano e scelgono le aziende solo se si lavora in un’atmosfera piacevole, e dove valori come diversità e inclusione sono pratiche concrete. Flessibilità d’orario e remote working (flessibilità del luogo da dove lavorare) sono gli altri due parametri che aiutano a conciliare vita e professione, e dentro a questo equilibrio altrettanta attenzione è posta alla visibilità del percorso di carriera e di crescita personale garantito dall’azienda.

 

L’importanza percepita del lavoro ha subito un cambiamento profondo, l’atteggiamento nei confronti del lavoro è cambiato più positivamente per il 30% delle persone, dice la ricerca Randstad, il che è simile alla media europea del 28%. Anche in questo caso riguarda soprattutto le persone fino a 35 anni e più istruite (40% ciascuno). Un cambiamento legato alla differente percezione del significato del lavoro: se il lavoro diventa più importante, allora l’atteggiamento cambia più positivamente e raggiunge il 56%. Se il lavoro diventa meno importante, allora l’atteggiamento scende negativamente fino al 48%.

Ecco il secondo pilastro di questo cambiamento, ancora tutto da costruire, e inteso soprattutto come nuova opportunità (e sfida contemporanea) che si presenta alle imprese per reinterpretare e ripensare il fenomeno delle grandi dimissioni. «È un tema che c’è e va affrontato come una vera opportunità per cambiare il lavoro, la dimensione di impresa, la cultura organizzativa – spiega Marco Bentivogli, esperto di lavoro e coordinatore nazionale del movimento Base -. Accanto a chi lascia il lavoro (talvolta senza un’alternativa in tasca) ce ne sono troppi che restano, ma senza vedere più molto senso nel lavoro che fanno. Bisogna riconquistare le persone scegliendo il cambiamento e favorire la liberazione nel lavoro e non da esso».

L’attrattività va ricostruita su nuovi valori

Reinterpretare il lavoro, ma dentro una nuova cultura organizzativa dell’impresa. È anche questo il tema trasversale che emerge dall’ultima ricerca Randstad intorno alla ridefinizione dei modelli di employer branding. Il tema dell’attrattività si sta imponendo come decisivo oggi per intercettare profili e competenze sempre più difficile da trovare sul mercato del lavoro. Attrattività delle aziende, fenomeno che la ricerca degli Osservatori del Polimi ha certificato essere crollata in questi due ultimi anni. «Le imprese tradizionali italiane faticano ad attrarre e trattenere talenti, rispetto ad aziende di altri Paesi – spiega Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio HR Practice Innovation del Polimi -, ma anche per le startup che pure raramente offrono condizioni di sicurezza e di equilibrio vita-lavoro migliori. Le retribuzioni e le prospettive di carriera c’entrano – spiega Corso -, ma non sono davvero il cuore del problema. A pesare c’è una grande voglia di coinvolgimento decisionale, di autonomia, di senso della propria vita, di benessere e spazio per le proprie passioni».

 

Il significato del lavoro è diventato importante. «Per un italiano su tre (il 36%), il significato del lavoro è diventato più importante nel 2021 tenendo conto degli sviluppi mondiali – spiega Marco Ceresa -. Si tratta di una percentuale nettamente superiore a quella dei lavoratori europei in generale che si fermano al 26%. Ma per contro – continua Ceresa -, il significato del lavoro è diventato meno importante per un lavoratore su cinque (20%). Poiché questo gruppo è notevolmente più basso, l’equilibrio è a favore di una crescente importanza del significato del lavoro».

La soddisfazione di lavorare da remoto

Tutti desideri – oggi poco soddisfatti - che infatti allargano il fenomeno anche in termini di categorie di lavoratori coinvolti. Dai profili più specialistici, dai talenti ai più giovani, ora l’indagine Randstad certifica che anche «il 65% degli impiegati considerano sempre più importante per restare (dal 62% al 65%) un ambiente di lavoro piacevole – spiega Marco Ceresa, Group Ceo di Randstad - unitamente al work life balance, drivers allineati con la forza lavoro media italiana. L’unico driver che li distingue dagli altri è l’importanza di poter lavorare da remoto (43% contro 27% degli operai)». E infatti anche gli operai, categoria finora rimasta ai margini di questo fenomeno di rivisitazione dell’ambiente di lavoro, considerano «nel 65% dei casi, un’atmosfera di lavoro piacevole come il driver più importante, mentre il 63% opta per un buon equilibrio tra vita lavorativa e vita privata. Gli operai scelgono ancor più dei loro colleghi impiegati – spiega Ceresa - una piacevole atmosfera di lavoro, valutando questo driver quest’anno al 65% rispetto al 59% dell’anno scorso».

 

Ma i dati della ricerca dicono ancora di più su questi lavoratori. Sono proprio gli operai, quasi uno su due (il 48% dei casi), che negli ultimi sei mesi hanno cambiato datore di lavoro. E lo hanno fatto in misura maggiore rispetto agli impiegati, fermi al 22%, addirittura in frenata rispetto a un anno quando avevano cambiato impresa il 36% dei colletti bianchi. La prospettiva di un futuro diverso rimette le attese in equilibrio: sia operai sia impiegati hanno sostanzialmente la stessa intenzione di cambiare datore di lavoro nei prossimi sei mesi, dal 38 degli impiegati al 44% degli operai.

Le carenze delle offerte delle imprese

Atmosfera di lavoro piacevole, flessibilità e buon equilibrio vita lavorativa-vita privata e benefit interessanti dentro un percorso di carriera: tre requisiti che nella percezione dei lavoratori, però, oggi non vengono quasi mai soddisfatti. La classifica Randstad mette al sesto, settimo e ottavo posto (su una scala uno-dieci) l’attenzione posta a questi tre bisogni, la classifica è la differenza fra ciò che dipendenti chiedono e ciò che ritengono che i datori di lavoro non offrano adeguatamente.

 

È parte da qui la ricerca di nuove opportunità, intese come occasioni di miglioramento. Ed è qui che emerge l’ulteriore novità, importante e in parte anche segno veramente del nuovo tempo che attraversa il mercato del lavoro. Perde decisamente peso e importanza il passa-parola come leva “facile” per trovare un nuovo posto di lavoro. Gli amici, le relazioni fra parenti, le segnalazioni e le raccomandazioni perdono decisamente importanza per trovare o cambiare la propria situazione lavorativa: solo un anno fa erano quasi due su tre ad affidarsi a questi contatti.
Oggi sono meno di uno su quattro. La ricerca Randstad indica come principale strumento le agenzie per il lavoro (dal 23 al 26%), il canale social LinkedIn passato dal 20 al 25% e quindi le segnalazioni personali sceso al 24%. Seguono i job portal (saliti dal 17 al 20%) e il motore di ricerca Google sostanzialmente fermo intorno al 19% rispetto a un anno fa.

 

Una svolta storica, verrebbe da dire, ma anche in questo caso le novità e il cambiamento del mercato del lavoro sono alla base di questa svolta: i posti di lavoro di alto profilo e di alta qualifica professionale sono sempre in aumento e sempre più restano scoperti. Le imprese richiedono competenze specifiche, con conoscenze e abilità di un certo livello. Affidarsi al passa-parola o alla raccomandazione di un amico non è più così affidabile. Evidentemente, non sempre portano a candidare o a esaminare il potenziale dipendente più adeguato e preparato. In più, spesso, le stesse imprese si ritrovano candidati con preparazione lontana da quella richiesta.

 

Massima coerenza ra domanda e offerta

Da qui la svolta di affidarsi a strutture più preparate, che lavorano strettamente con le imprese, che conoscono le esigenze e i bisogni professionali delle aziende. «E che rispondono alla maggiore parte delle domande di profili professionali delle aziende – precisa Marco Ceresa di Randstad – dopo un percorso di formazione, di up-skilling o re-skilling dei candidati selezionati per garantire la massima coerenza fra domanda e offerta di competenza. Le strategie di recruitment e di talent acquisition, per un’agenzia del lavoro si basano proprio su questa capacità di allinearsi con le richieste delle imprese: restando in contatto, esprimendo consulenze e parlando con le aziende siamo sempre pronti a formare le persone in linea con i loro bisogni di skill attraverso percorsi di formazione dedicati».

La stessa formazione, come percorso garantito, e base di una crescita professionale resta anche uno dei requisiti più importanti per scegliere un nuovo posto di lavoro. La crescita professionale è «molto importante» per due dipendenti italiani su tre (65%). E, ancora una volta, lo è molto di più per chi ha meno di 35 anni, così come per coloro con un livello di istruzione elevato (75% ciascuno).

 

L’azienda si giudica attrattiva anche per questo, anche se fra desiderio e realtà corre molta differenza: otto su dieci ritiene molto importante che il datore di lavoro offra la possibilità di riqualificazione o di miglioramento delle competenze, ma solo il 47% ritiene che la propria azienda offra sufficienti opportunità di sviluppo. Non è un dato da sottovalutare, perché il 72% dei lavoratori è «molto probabile» che resti e non si metta a cercare un’altra impresa «se verranno offerte opportunità di riqualificazione o di miglioramento delle competenze». E delle condizioni di lavoro, a cominciare dal livello di flessibilità d’orario e di luogo del posto di lavoro.

Se il 96% di chi oggi lavora da remoto crede che continuerà a farlo in futuro, di questi però il 78% si aspetta di farlo comunque in condizioni ibride di lavoro (20-80%) da remoto e in sede. Resta invece in cime alle preferenze la flessibilità organizzativa del lavoro: l’indagine Randstad, spiega che per sostenere e mantenere un buon equilibrio tra vita lavorativa e vita privata, i dipendenti in media vorrebbero che ci si concentrasse su tre benefici aggiuntivi: la flessibilità d’orario con il 42% dei lavoratori (le donne di più, il 45%). A seguire, ma con la stessa importanza, migliorerebbero l’equilibrio vita lavorativa e vita privata nuovi benefit, l’offerta di vantaggi ai dipendenti e l’offerta di uno sviluppo della propria carriera professionale.