La comunicazione positiva per aumentare motivazione ed engagement
Secondo un noto assioma sulle relazioni umane formulato in seno alla Scuola di Palo Alto (California), non possiamo non comunicare. Naturalmente però possiamo farlo bene oppure male e il buon allenamento delle soft skills è determinante per fare la differenza .
Il punto non va sottovalutato perché molte ricerche hanno evidenziato che tanto il “cosa” quanto il “come” si comunica possono avere notevoli conseguenze sulla motivazione e sul coinvolgimento ( engagement ) dei lavoratori, con effetti a cascata sulle performance aziendali. Per sostenere l’ empowerment dei singoli e le performance di una squadra risultano cruciali, in particolare, un clima relazionale in cui si provi “sicurezza psicologica” e un buon equilibrio tra i feedback positivi e quelli negativi.
Questo nuovo articolo passa in rassegna molte ricerche sul tema (tra cui quelle di Google, Ibm e Gallup) e presenta un prontuario di idee per fare il punto sulla comunicazione positiva nella propria azienda e per tenere il polso della situazione nel tempo. Le aziende che già comunicavano in maniera efficiente con i propri collaboratori sono anche quelle che hanno gestito al meglio l’emergenza della pandemia.
Sommario
L’apologo della cattedrale
I complimenti dei capi e il valore dei feedback positivi
Dati e suggerimenti da una ricerca Gallup
L’importanza del riconoscimento secondo una ricerca IBM
L’engagement si può misurare?
Il project Aristotle di Google e la formula segreta delle squadre migliori
La sensibilità sociale come ingrediente dell’intelligenza collettiva
Il modello “bastone e carota” non funziona
Come diminuisce l’engagement?
Resistenze tipiche contro la prassi del riconoscimento
Spinte gentili per aumentare l’engagement dei lavoratori
Dare feedback per riceverli
L’apologo della cattedrale
Tra i racconti sul senso e sugli effetti della motivazione ce n’è uno che riguarda tre scalpellini impegnati a trasformare grossi frammenti di roccia in blocchi da costruzione. Un passante li interroga su quel che stanno facendo. Il primo risponde: “Non vedi? Mi ammazzo di fatica”. Il secondo risponde “Mi guadagno il pane per la mia famiglia”. Il terzo, infine, introduce una visione inaspettata: “Stiamo costruendo una cattedrale”.
La morale dell’apologo è presto detta: i tre scalpellini stanno facendo la stessa cosa, ma agiscono con prospettive diverse e quindi, probabilmente, con un trasporto differente. Possiamo sostare sullo scenario simulato e immaginare l’importanza della figura del manager che coordina i lavori: può dirigere facendo sentire il lavoro come un peso, oppure alleggerire (metaforicamente) il peso (oggettivo) del lavoro aiutando ad inquadrarne il senso più ampio.
Si può ipotizzare, dalle loro risposte, che i tre scalpellini siano coinvolti in modo diverso nel lavoro che stanno facendo. Vedremo se e fino a che punto il coinvolgimento è descrivibile in questa chiave.
Prima di approfondire, però, precisiamo che useremo prevalentemente la parola “coinvolgimento” per tradurre l’inglese e ngagement , che allude a una spinta più profonda di quella associabile alla semplice motivazione.
Rispetto alla motivazione , che può essere incrementata e sostenuta da incentivi esteriori (come un aumento o un premio) anche in situazioni in cui non ci si sente particolarmente coinvolti nel lavoro, il termine engagement comporta un legame interiormente sentito con il proprio lavoro e/o con l’azienda, una dedizione e un impegno profondi, che spingono a dare il meglio di sé anche quando le condizioni esteriori sono sfavorevoli. Non è un caso che engagement si possa tradurre anche con “fidanzamento”.
Non è sufficiente inculcare il modello “testa bassa e lavorare”? E come è possibile aumentare il coinvolgimento , se esso non dipende soltanto da incentivi “esteriori”?
Approfondiremo tutti i punti passando in rassegna importanti ricerche condotte in aziende di varie dimensioni e in diversi paesi del mondo.
I complimenti dei capi e il valore dei feedback positivi
Nel 2003 l’agenzia di lavoro interinale “Ad Interim” raccolse le risposte di un campione di quasi tremila lavoratori (dai 20 ai 35 anni, 55% donne) alla domanda: «Cosa ti gratifica di più nel tuo lavoro?».
Le tre risposte più frequenti, tutte attorno al 30%, riguardavano lo stipendio , il contatto con le persone e la prospettiva di raggiungere ruoli di maggiore responsabilità . C’era poi un 9,5% di risposte che faceva ricevimento ai complimenti dei capi .
Quest’ultima risposta è stata commentata con sufficienza da chi l’ha rilevata: è stata attribuita ai più introversi e letta come sintomo negativo di dipendenza, segno di una “fase infantile” in cui si troverebbero alcuni lavoratori bisognosi di conferme e senza altre gratificazioni. Proprio questa lettura segnala però la clamorosa sottovalutazione del valore dei feedback positivi e più in generale della comunicazione positiva dei manager , su cui negli ultimi anni numerose ricerche hanno richiamato l’attenzione.
Certo, il terreno è scivoloso, perché c’è modo e modo di intendere i “complimenti” e il loro senso. Ci sono complimenti che possono dividere i gruppi anziché unirli e complimenti (sentiti, non di circostanza) che possono sostenere il lavoro di squadra. Ci sono complimenti che puntano agli “io” senza arrivare al “noi” della squadra e complimenti rivolti al “noi” che non riescono a toccare gli “io”.
Tra le tante cose di cui dovrebbe occuparsi, una recente ricerca Ascai (Associazione per lo Sviluppo della Comunicazione Aziendale in Italia) ha ribadito la centralità dell’attenzione dedicata a creare le condizioni per la condivisione della cultura aziendale e per generare entusiasmo e “ingaggio” (engagement) nei lavoratori. Ebbene, la capacità di dare feedback positivi risulta essere un ingrediente chiave per alimentare l’engagement, assieme alla capacità di tenere buoni rapporti conversazionali con tutti.
A scanso di equivoci è bene sottolineare che il “coinvolgimento” non ha a che fare soltanto con lo stato d’animo e il benessere dei singoli lavoratori e che non è un valore astratto e intangibile, poiché ha effetti visibili sulla vita aziendale. Da un lato, molte ricerche hanno mostrato che gli stati d’animo di chi lavora influenzano le prestazioni, nel bene o nel male, e che gli stati d’animo positivi sostengono la collaborazione e la correttezza dei rapporti, con effetti evidenti sulla qualità delle prestazioni.
Dall’altro lato altre ricerche hanno evidenziato i costi nascosti del basso “coinvolgimento”.
Facendo una meta-analisi su molte ricerche dedicate all’argomento (arrivando così a considerare un insieme di quasi 200 organizzazioni), nel 2012 gli studiosi di Gallup hanno elencato i seguenti effetti ricorrenti dell’engagement: dove i lavoratori si sentono più coinvolti ci sono meno assenteismo, meno turnover, meno perdite/contrazioni di produzione, meno difetti nei prodotti, meno incidenti e meno danni accidentali; sono maggiori al contempo la produttività, la profittabilità e i giudizi positivi dei clienti.
Un articolo di Emma Seppälä e Kim Cameron, pubblicato sulla Harvard Business Review con titolo «Proof That Positive Work Cultures Are More Productive» (dicembre 2015), richiama l’attenzione su un altro aspetto della questione: la forte pressione sulla performance si rivela spesso controproducente, perché se l’engagement può essere nel breve termine indotto anche in ambienti altamente competitivi e con una “cultura della paura”, in cui tutti si sentono costantemente sotto pressione (modello “testa bassa e lavorare!”), a lungo andare si pagano i costi nascosti legati a stress, malattie, incidenti, spinta a cambiare lavoro, demotivazione e disimpegno (alla disaffezione, per così dire, nei confronti dell’ambiente di lavoro e dei colleghi con cui ci si sente in competizione).
Riportando uno studio della Queens School of Business e della compagnia di ricerca e consulenza Gallup, l’articolo richiama l’attenzione sui seguenti dati:
- dove i lavoratori non sono coinvolti si hanno +37% di assenteismo , +49% di incidenti e +60% di errori e difetti di produzione (rispetto alle aziende in cui i lavoratori sono coinvolti);
- nelle aziende i cui l avoratori risultano non coinvolti si rilevano mediamente , rispetto a quelle in cui i lavoratori risultano coinvolti, -16% di profittabilità , -18% di produttività , -37% di crescita nel tempo .
Qui si inizia a toccare con mano il valore associabile al buon allenamento delle soft skills, perché sono proprio queste competenze soft ad alimentare la buona comunicazione che risulta essere un ingrediente essenziale del coinvolgimento nel lavoro.
Dati e suggerimenti da una ricerca Gallup
Un’indagine condotta dalla compagnia Gallup tra il 2000 e il 2015 ha rilevato che negli Stati Uniti soltanto un terzo dei lavoratori risulta entusiasta e coinvolto nel proprio lavoro. Allargando lo sguardo al resto del mondo, la percentuale dei lavoratori coinvolti scende al 13%. Ciò significa che la maggioranza dei lavoratori risulta piuttosto indifferente nei confronti di quel che fa e non sente un legame profondo con l’organizzazione di cui fa parte. Tale condizione di indifferenza, riprendendo un aggettivo utilizzato nel report (sleepwalking), può trasformare il lavoratore in una sorta di “sonnambulo”, cioè – fuor di metafora – in una persona che agisce senza essere pienamente presente in quel che fa.
Come contrastare questa tendenza? Una successiva ricerca di Gallup intitolata State of the American Manager (Analytics and Advice for Leaders), che puoi leggere qui , ha evidenziato che i manager possono incidere molto sul coinvolgimento dei dipendenti , creando ambienti (contesti e relazioni) che li facciano sentire a proprio agio, riconosciuti e rispettati.
Mettendo ordine in quarant’anni di ricerche, si nota che gli accorgimenti consigliabili non sono particolarmente complessi e che riguardano, in primis, la buona comunicazione quotidiana tra manager e lavoratori. Evidentemente, però, la buona comunicazione è cosa tutt’altro che facile e scontata.
Scendendo più nel dettaglio, risulta che concentrarsi sui punti di forza (strenghts) dei dipendenti è un approccio più efficace che concentrarsi sui loro punti deboli.
I numeri alla base di questa indicazione sono i seguenti: risulta coinvolto il 67% dei dipendenti che riconosce ai propri capi la capacità di focalizzare l’attenzione sui punti di forza e sulle caratteristiche positive, mentre risulta coinvolto soltanto il 31% di quelli i cui capi preferiscono concentrarsi sui punti deboli.
L’analisi distingue coloro che hanno un talento elevato nel management delle persone da coloro il cui talento è limitato e rileva le seguenti attitudini:
La maggior parte dei migliori manager fa leva sui punti di forza e sulle caratteristiche positive dei propri dipendenti o, comunque, dà enfasi in modo equilibrato ai punti forti e a quelli deboli.
Passando ai dipendenti, si nota invece che quelli più coinvolti hanno manager cordiali e aperti, disponibili ad ascoltarli anche su temi non legati al lavoro e capaci di concentrarsi in modo prevalente sui punti di forza.
Si noti: nelle immagini sottostanti, la definizione “Disimpegnato attivamente” si riferisce a coloro che sono a tal punto non coinvolti, da far circolare malumore e risentimento, da “mettersi di traverso” o da “mettere i bastoni fra le ruote” quando possibile.
Soffermandosi ancora sull’importanza dei feedback positivi, il report sottolinea che il modello “Zitto e lavora!” non funziona ed è controproducente rispetto all’intenzione di sostenere i lavoratori nel loro sviluppo personale e nella loro capacità di collaborare per migliorarsi.
Rientrano allora nelle caratteristiche del buon manager la capacità di motivare in modo efficace ogni singolo dipendente, l’assertività accompagnata dalla disponibilità al dialogo e dalla costruzione di relazioni basate sulla fiducia, sulla trasparenza e sulla cultura della responsabilità.
L’importanza del riconoscimento secondo una ricerca IBM
La prima indicazione pratica che si può trarre da quanto esposto fin qui è sintetizzabile con il titolo di un articolo di Christine Porath (Harvard Business Review, 25/10/2016): «Dai alla tua squadra feedback positivi più efficaci!» (Give Your Team More-Effective Positive Feedback).
L’articolo prende in considerazione anche i risultati di una ricerca dello Smarter Workforce Institute di IBM, che riprende indagini condotte in organizzazioni diverse per settori e dimensioni, ubicate in 26 paesi.
Dal report ( che puoi leggere qui ) si ricavano due indicazioni importanti, a supporto ed integrazione di quanto già detto:
- il livello di coinvolgimento/impegno dei dipendenti che si sentono riconosciuti è triplo rispetto a quello di chi non si sente riconosciuto;
- i team capaci di elevate performance condividono feedback positivi fino a sei volte di più della media; viceversa, i team a bassa performance condividono feedback negativi circa il doppio della media.
La ricerca IBM si concentra sul riconoscimento, prendendolo in considerazione come elemento centrale per sostenere la motivazione dei lavoratori, al pari della paga e della sicurezza sul lavoro.
Altri dati permettono di mettere in relazione il riconoscimento con il grado di coinvolgimento ( engagement ):
Si tenga presente che le due posizioni considerate nel grafico (non riceve e riceve riconoscimento) corrispondono rispettivamente alle due seguenti condizioni: si considera che non riceva riconoscimento chi si è detto in disaccordo o in forte disaccordo con l’affermazione «Ricevo riconoscimenti quando faccio un buon lavoro»; si considera che riceva riconoscimento chi si è detto invece d’accordo o del tutto d’accordo con la stessa affermazione.
Il mancato riconoscimento si accompagna inoltre all’intenzione di cambiare lavoro.
Sottolineando a più riprese l’importanza del riconoscimento, il report consiglia ai manager di ricorrere ad una comunicazione multi-canale per il riconoscimento, perché il ricorso a diversi canali incrementa il livello di riconoscimento percepito.
Oltre al riconoscimento in real time (di persona o con sistemi aziendali di instant messaging, ad esempio), si consiglia pertanto di non trascurare il riconoscimento espresso online (meeting e webinar), con teleconferenze e videoconferenze, attraverso sistemi di file sharing (wiki, social network) e così via. In sintesi, in una cultura del riconoscimento la pratica deve essere costante e capillare.
Ma l’engagement si può misurare?
Abbiamo fatto riferimento a studi che distinguono lavoratori più e meno coinvolti e occorre chiedersi, a questo punto, se il coinvolgimento sia misurabile.
Senza entrare qui nel vasto campo della misurazione di stati e atteggiamenti psicologici, ci limitiamo a segnalare due sequenze di frasi stimolo a cui hanno fatto ricorso le ricerche citate sopra e in seguito, accompagnate da 4 possibili risposte.
Nel primo caso, il grado di engagement si ricava dal punteggio complessivo ricavabile dalla seguente tabella, tenendo conto che:
- 0 = totalmente in disaccordo
- 1 = poco d’accordo
- 2 = molto d’accordo
- 3 = totalmente d’accordo
Nel secondo caso le alternative sono le seguenti:
- 0 = mai o raramente
- 1 = qualche volta
- 2 = abitualmente
- 3 = sempre o quasi sempre
Gli item delle tabelle proposte, come è facile notare, fanno riferimento ad atteggiamenti tipicamente associati al coinvolgimento dei lavoratori.
Il Project Aristotle di Google e la formula segreta delle squadre migliori
Passiamo ad un argomento in parte collegato e in parte distinto dai precedenti, facendoci due domande: cosa fa funzionare una squadra? quali sono i fattori che influiscono in modo positivo sulle sue performance e quanto hanno a che fare con la comunicazione positiva e con il coinvolgimento dei singoli?
Avere team capaci di affrontare brillantemente sfide di vario tipo è ovviamente cruciale: perciò, quando a Google si sono posti il problema di individuare le caratteristiche distintive delle squadre con le performance migliori, la ricerca è stata fatta in grande stile.
Cinque anni di studi, 180 team analizzati, più di 250 caratteristiche prese in considerazione: questi i numeri del Project Aristotle, intitolato al filosofo che tra i primi seppe riflettere sulle proprietà emergenti dei sistemi, intuendo che il tutto può essere più della somma delle parti. Premesse ed esiti della ricerca sono discussi brillantemente in un articolo del New York Times che puoi leggere qui .
I ricercatori hanno iniziato passando in rassegna mezzo secolo di studi sul lavoro di squadra e hanno considerato le variabili più diverse, dalla frequenza con cui i componenti mangiavano insieme alle caratteristiche dei manager (preparazione, età, esperienza ecc.). Sono stati messi alla prova anche i luoghi comuni: se sia meglio formare squadre di soli introversi, o mixando introversi ed estroversi; se le squadre migliori siano composte dai singoli ritenuti migliori e più performanti; se rendano di più le squadre i cui componenti sono amici anche fuori dal lavoro; se la comunanza di hobbies e interessi sia importante oppure no.
Osservando i diagrammi risultanti dalla combinazione di decine di fattori come i precedenti, risultava pressoché impossibile trovare patterns significativi: tra i team capaci delle migliori performance in diversi compiti ce n’erano alcuni composti da amici e altri composti da perfetti estranei, alcuni guidati da manager “forti” e altri caratterizzati da strutture gerarchiche relativamente deboli.
Si verificò perfino il caso di squadre che, a considerare le caratteristiche individuali dei membri, apparivano come “fotocopie” ma che, dal punto di vista delle performance, risultavano molto differenti.
Non sembravano decisive, nel fare la differenza, né la sola preparazione tecnica dei componenti dei gruppi, né le tecnologie a disposizione, né la presenza di manager più esperti o la predisposizione di incentivi.
Un passo avanti decisivo venne dal considerare le norme di gruppo (group norms) e gli standard comportamentali, che possono orientare le relazioni agendo anche su un piano implicito e non consapevole.
Un esempio di norma di gruppo è la convinzione tacita e condivisa per cui “è sempre meglio evitare il disaccordo che aprire dei conflitti”. Se un gruppo si attiene a questa norma può andare incontro al fenomeno noto come “groupthink”, il “pensiero di gruppo” in cui si privilegia un consenso basato sulla negazione e sulla rimozione dei possibili motivi di discussione e di confronto critico.
Osservando le interazioni nei team, ci si accorse che c’erano casi in cui i componenti conversavano sovrapponendosi e interrompendosi con frequenza e altri nei quali la conversazione appariva meglio gestita nella dinamica degli interventi e nella qualità dell’ascolto reciproco. Sul tema si potranno rivedere le indicazioni proposte nell’articolo dedicato alla buona gestione delle riunioni .
Nella ricerca condotta da Google, in ultima analisi, per dar conto della differenza tra le squadre più e meno performanti si è rivelato decisivo il concetto di “psychological safety” o “sicurezza psicologica”.
Di cosa si tratta? Usando le parole di una docente di riferimento in questo campo, Amy Edmondson (Harvard Business School) la “sicurezza psicologica” è legata alla “credenza condivisa dai membri del gruppo che nel gruppo ci si possono assumere in sicurezza dei rischi sul piano interpersonale”.
In parole più dirette: ogni membro si sente sicuro nel dire ciò che pensa, perché la squadra non lo metterà in imbarazzo, né rigetterà né punirà qualcuno per il fatto di avere espresso un’opinione. Dove c’è questa “sicurezza psicologica” ci si può contraddire e correggere a vicenda , si può comunicare e meta-comunicare (comunicare sul modo in cui si sta comunicando) in un clima di reciproca fiducia.
Per sostare ancora su questo tema, si può vedere questo TED TALK di Amy Edmondson, intitolato Come trasformare un gruppo in una squadra:
Tra parentesi, se si considera l’importanza che il concetto di “psychological safety” assume in una ricerca complessa e ambiziosa come quella condotta da Google, si dovrà riconoscere la necessità di disporre di buoni concetti per interpretare i fenomeni: i concetti di cui disponiamo delineano i limiti di ciò che riusciamo a leggere nella realtà che ci circonda. Dotarsi di buoni concetti è come dotarsi di occhiali con lenti capaci di mettere in evidenza aspetti e sfumature della pratica che altrimenti sfuggirebbero.
Il Project Aristotle individuò altri due fattori cruciali per il buon funzionamento di un team:
- la chiarezza della sua struttura e quella sugli obiettivi e sulle strategie ;
- la sensazione condivisa tra i membri di fare un lavoro significativo , con un impatto significativo sulla comunità circostante e sul mondo (e questo ci riporta, in qualche modo, all’apologo da cui siamo partiti).
La sensibilità sociale come ingrediente dell’intelligenza collettiva
Il Project Aristotle di Google interseca un altro tema molto studiato: l’intelligenza collettiva, cioè quell’ intelligenza emergente dall’interazione di un gruppo di individui che non è calcolabile come pura sommatoria delle intelligenze individuali.
Una ricerca pubblicata su “Science” sottolinea che l’intelligenza collettiva è una proprietà del gruppo e non degli individui che lo compongono (articolo Evidence for a Collective Intelligence Factor in the Performance of Human Groups, 29 ottobre 2010).
Qui puoi trovare il pdf con l’articolo completo direttamente dal sito di uno degli autori.
Il punto cruciale, dal punto di vista dell’argomento che stiamo affrontando qui, è la sottolineatura di un fatto: l’abilità di un gruppo nell’affrontare problemi complessi non è correlata alla sua coesione, né all’intelligenza media dei componenti o ai valori massimi dell’intelligenza dei singoli rilevati all’interno di un gruppo (sorvoliamo qui sulle posizioni critiche nei confronti dei tentativi di “misurare” l’intelligenza umana).
L’intelligenza collettiva sarebbe invece correlata in modo significativo a tre condizioni:
- la sensibilità sociale (social sensitivity) dei componenti del gruppo, per la cui “misura” gli autori fanno riferimento ad un test denominato “Reading the Mind in the Eyes”;
- la distribuzione equa dei turni nel prendere parola (cioè, l’intelligenza collettiva del gruppo è minore dove la conversazione è dominata da poche persone);
- la presenza di donne nei gruppi.
Il primo punto merita un breve approfondimento. Il test citato prevede la compilazione di item come il seguente, con il compito: Per ogni espressione, scegli l’aggettivo che descrive meglio ciò che la persona sta pensando o provando:
Un test così strutturato non coglie tutte le dimensioni di quella competenza complessa e sfuggente a cui ci si riferisce con espressioni come “intelligenza emotiva” o “intelligenza sociale”, ma il riferimento alla social sensitivity permette comunque una generalizzazione significativa: l’intelligenza collettiva di un gruppo si attiva ed emerge meglio quando i suoi membri sono particolarmente sensibili a ciò che gli altri provano e abili nel decifrarne i sentimenti.
Mettendo insieme le indicazioni di questa ricerca e del Project Aristotle si è autorizzati a pensare che un gruppo possa esprimersi al meglio, diventando squadra, se gli individui che lo compongono sono capaci di risuonare con i sentimenti altrui , creando per sé e per gli altri condizioni favorevoli ad interagire ed esprimersi in condizioni di sicurezza psicologica.
Il modello “bastone e carota” non funziona
Una buona intelligenza emotiva e sociale è importante per l’esercizio della leadership.
La si può considerare un ingrediente fondamentale della caratteristica che in un recente articolo pubblicato su “Personale & Lavoro” (Scegliere un manager, gennaio 2019), Ezio Ghigo e Giorgio Gatti hanno denominato “umanità”, intendendola come “la capacità di incorporare nelle proprie decisioni le conseguenze che le proprie azioni hanno sugli altri” (riprendendo una definizione dell’economista Carlo Cottarelli).
Daniel Goleman, che sull’intelligenza emotiva è l’autorità più nota a livello internazionale, ne ha tratto alcune conseguenze chiare: per ottenere il meglio dalle persone occorre essere esigenti mantenendo un clima e un umore positivo ( positive mood ).
In modo ancora più diretto: «Il vecchio approccio bastone-e-carota, da solo, è insensato dal punto di vista delle neuroscienze» (così si legge nell’articolo di D. Goleman e R.E. Boyatzis, Social Intelligence and the Biology of Leadership, Harvard Business Review, settembre 2018).
Per chi volesse approfondire questo aspetto, ecco un video in cui Daniel Goleman illustra la sua teoria dell’intelligenza sociale applicata alla leadership e al miglioramento delle performance aziendali:
Tra le storie esemplari raccontate da Goleman spicca quella di un ospedale universitario di Boston da cui provenivano i due candidati a CEO dell’organizzazione a cui facevano capo anche altri istituti. I due candidati erano studiosi preparati, competenti ed esigenti: uno dei due era molto focalizzato sul compito, impersonale nelle relazioni, perfezionista, e rendeva i suoi collaboratori tesi, “on edge”, espressione che può voler dire anche “mettere a disagio”; l’altro era esigente ma cordiale, leggero e “giocoso” nei rapporti, capace di generare attorno a sé un umore positivo.
Si osservò che nel dipartimento del secondo le persone interagivano in modo più facile, con minori tensioni, si sorridevano di più e collaboravano meglio. Ciò portò a riconoscergli una capacità di leadership più efficace , perché sostenuta da un’intelligenza sociale più ricca , e fu proprio per questa caratteristica che fu preferito al primo per il ruolo di CEO.
Secondo Goleman ciò è giustificato dal fatto che il compito emotivo (emotional task) è primario per chi deve guidare gli altri, poiché le emozioni incidono sul modo in cui si fanno le cose e perché si diffondono tra le persone.
Una piccola nota al riguardo. Le emozioni si diffondono tra le persone perché il sistema limbico, alla cui attività esse sono legate, è un circuito aperto, a differenza di altri sistemi, come quello circolatorio, che sono chiusi e autoregolati: mentre ciò che accade nel sistema circolatorio di chi mi sta accanto non incide su quel che accade nel mio, il mio sistema limbico è invece aperto agli influssi esterni.
Gli studi analizzati da Goleman mostrano l’esistenza di una regolazione limbica interpersonale che può arrivare a modificare nelle persone coinvolte i livelli ormonali, le funzioni cardiovascolari, i ritmi sonno-veglia e l’attività del sistema immunitario (così Daniel Goleman, Essere leader, Milano 2018, p. 22).
Si può allenare l’intelligenza emotiva , considerata abitualmente tra le social skills? Secondo Goleman sì, anche se bisogna tenere conto del cosiddetto “ effetto luna di miele ”, quello per cui i programmi di training hanno per la maggior parte un impatto a breve termine . Non si può cambiare tutto subito, con ricette veloci. Occorrono costanza e continuità nella formazione e, secondo Goleman, affinché sia duraturo è cruciale che nell’apprendimento sia coinvolto anche il sistema limbico (Essere leader, cit., pp. 169 sgg.).
Torniamo all’immagine evocata sopra, della coppia bastone e carota. Nel libro di Paul L. Marciano dedicato all’argomento (Carrots and Sticks Don’t Work. Build a Culture of Employee Engagement with the Principles of Respect, New York 2010), assume grande centralità il tema del rispetto.
L’autore mette a punto un RESPECT™ Model con principi e indicazioni utili a sostenere l’engagement dei lavoratori. Ne traiamo alcune parole chiave da considerare prioritarie, per chi volesse fare il punto sui margini di miglioramento della propria azienda in tema di coinvolgimento dei lavoratori:
- Riconoscimento: fare in modo che i lavoratori si sentano riconosciuti e apprezzati
- Empowerment: sostenere lo sviluppo personale con risorse adeguate, supervisori e formazione
- Feedback efficace: fare in modo che i feedback positivi e negativi siano ben equilibrati ed effettivamente orientati a supportare le persone nel loro sviluppo
- Diventare partner: fare in modo che i lavoratori si sentano partner del business, comprendendone il disegno d’insieme e collaborando quando possibile alla presa di decisioni che li riguardano
- Chiarezza: assicurarsi che obiettivi e priorità siano chiari, per prevenire la circolazione di aspettative scollegate dalla realtà
- Considerazione: prendersi cura delle persone e cercare di capire le loro opinioni e preoccupazioni personali (anche extralavorative)
- Fiducia: creare un clima di fiducia reciproca e di sicurezza psicologica (vedi la ricerca citata di Google).
Perché ci si dovrebbe preoccupare di questi aspetti?
Ecco un elenco incalzante di argomenti tratti dal testo di Marciano: perché un dipendente coinvolto porta nuove idee, lavora con più passione ed entusiasmo, prende l’iniziativa, cerca attivamente di migliorare sé e gli altri, va oltre gli obiettivi e le aspettative, è curioso e interessato, incoraggia e supporta i colleghi, è positivo, è più pronto a superare gli ostacoli restando concentrato sugli obiettivi e, in sintesi, si dedica all’organizzazione, con riconoscenza e rispetto, sentendosi riconosciuto e rispettato.
Come diminuisce l’engagement?
Se ci sono comportamenti che aumentano il coinvolgimento dei dipendenti, ce ne sono altre che possono diminuirlo. Segue un elenco, tratto dallo stesso libro.
Fattori che diminuiscono l’engagement dei dipendenti:
- i manager si prendono i meriti per il lavoro altrui
- le aspettative sono irrealistiche
- mancano coaching , feedback efficaci e supporto
- chi dovrebbe essere punto di riferimento come leader appare incompetente e non sa guadagnarsi il rispetto dei lavoratori
- costante sottovalutazione per chi si impegna nel lavoro
- non vengono fatti apprezzamenti per il lavoro ben fatto
- mancanza di tatto e di espressioni di ordinaria cordialità (salutare, ringraziare…)
- mancanza di supporto da parte dei manager
- avere la percezione che il proprio lavoro non aggiunge o produce valore
- vedere manager non coinvolti
- i supervisori, anche quando chiedono le opinioni dei dipendenti, li fanno sentire stupidi
- i supervisori non tengono conto dei consigli ricevuti
- il capo non chiede mai un parere
- si fanno critiche non costruttive
- non avere idea degli obiettivi dell’organizzazione
- non sentirsi rispettati
- non sentirsi riconosciuti per il proprio impegno
- dover superare degli ostacoli per avere quel che è necessario (e che dovrebbe essere scontato) per lavorare bene
Data la centralità del riconoscimento nel modello che stiamo considerando, può essere utile condividere qui una tabella per l’auto-valutazione simile a quelle precedenti sul coinvolgimento. Utilizziamo i seguenti quattro valori:
- 0 = mai o raramente
- 1 = qualche volta
- 2 = abitualmente
- 3 = sempre o quasi sempre
Chi si trovasse, sommando i punti, sotto il valore 7/8, ha l’occasione di sperimentare direttamente cosa succede se, con costanza, prova a spingersi al di sopra di quei valori, tendendo almeno al 10. Si tratta, in primis, di valutare se e come cambia il clima delle relazioni e la disponibilità di tutti ad impegnarsi per l’impresa.
Resistenze tipiche contro la prassi del riconoscimento
Un’ultima avvertenza tratta dal libro di Marciano. Ci sono alcune resistenze ed obiezioni tipiche nel mettere in atto la prassi del riconoscimento, che trovano espressione in frasi come le seguenti: “Ringraziare e fare complimenti non è nel mio stile/carattere”; “Se qualcuno fa il suo lavoro, non bisogna ringraziarlo: è il suo lavoro”, “Nemmeno io vengo riconosciuto o ricevo complimenti e ringraziamenti dai miei superiori: perché dovrei farlo con i miei collaboratori?”; “Le persone con cui lavoro non fanno cose così particolari da meritare complimenti o ringraziamenti”.
Per ognuna di queste obiezioni Marciano invita a considerare il rovescio della medaglia:
Spinte gentili per aumentare l’engagement dei lavoratori
Non si può ottenere il coinvolgimento delle persone semplicemente dicendo loro: “Siate coinvolti!”. Il verbo “coinvolgere” non sopporta l’imperativo.
Ampliando il significato del concetto di “spinta gentile” (nudge) su cui ha lavorato il Premio Nobel per l’Economia Richard Thaler, possiamo dire che il coinvolgimento si alimenta di spinte gentili che dal management possono propagarsi a tutti e tra tutti i dipendenti di un’azienda.
Raccogliamo da varie fonti alcuni esempi di spinte gentili promettenti.
James Harter e May Adkins, in un articolo intitolato What Great Managers Do To Engage Employees (Harvard Business Review, 2 aprile 2015) insistono in particolare su tre punti:
- favorire una comunicazione ricca e attraverso più canali tra manager e dipendenti (faccia a faccia, in riunione, via telefono, email ecc.), facendo in modo che i dipendenti si sentano “sicuri” nel comunicare e nel condividere informazioni, nell’esprimere dubbi ecc.
- mantenere la chiarezza su aspettative, priorità e responsabilità (facendo percepire ai dipendenti il disegno d’insieme dell’azienda, per quanto possibile: il senso del lavoro, di quel che si sta facendo, della direzione presa ecc.)
- concentrarsi più sui punti di forza che sui punti deboli dei dipendenti : non si tratta di eliminare i feedback negativi, ma di bilanciarli con feedback positivi facendo leva sui punti di forza per affrontare i punti deboli, in un clima positivo e favorevole all’empowerment individuale.
Peter R. Garber ha dedicato un libro a descrivere attività per sostenere il coinvolgimento dei dipendenti, precisando che è bene avere presente che esistono anche delle “no engagement zones”, cioè delle aree dell’attività in cui non tutti possono essere coinvolti. Stabilito il confine tra queste aree e gli altri ambiti, ecco alcune idee (da Peter R. Garber, 50 Activities for Employee Engagement, HRD Press, Amherst 2007):
- permettere ai dipendenti di essere più presenti nei processi decisionali
- dare spazi di autonomia (self-direction)
- ascoltare le idee di tutti e implementare le migliori
- discutere con regolarità gli obiettivi dei dipendenti
- dare riconoscimento con regolarità tanto per i piccoli quanto per i grandi risultati
- fare in modo che il management sia accessibile e visibile
- curare la formazione e la condivisione di strumenti che mettano in condizione di lavorare meglio
- promuovere misure di coaching efficace
- supportare la comunità e l’ambiente di riferimento dei dipendenti
- alimentare la fiducia reciproca tra dipendenti, management e organizzazione
- condividere in modo visibile le grandi idee e le belle notizie (ad esempio su una parete dedicata o con altri mezzi e più canali)
- istituire momenti dedicati ai feedback
L’ipotesi dei testi che abbiamo considerato è che, attivandosi in questa direzione, inizino a circolare in azienda in modo più fluido e pervasivo il rispetto, la fiducia e la gratitudine reciproca, creando per così dire un’atmosfera più favorevole alla collaborazione. Tutto ciò dovrebbe incidere sul coinvolgimento dei dipendenti e, a cascata, sulle performance aziendali. In tutti i casi, l’esempio che viene dal top e dal middle management appare cruciale per sostenere il processo.
Dare feedback per riceverli
Chi ha responsabilità manageriali dovrebbe considerare anche un’altra implicazione positiva di quel che abbiamo visto. Il senso di sicurezza psicologica dei dipendenti, oltre a migliorare le performance del lavoro di squadra, fa da antidoto alla cosiddetta sindrome della reticenza, così descritta dal già citato Daniel Goleman: essa indica “il vuoto di informazioni che si crea attorno a un leader quanto i suoi collaboratori evitano di comunicargli informazioni importanti (e in genere spiacevoli)” (Essere leader, cit., p. 47).
Sintetizzando il tutto con una delle 15 regole per costruire relazioni efficaci sul lavoro di Todd Davis (Get Better, Milano 2018): bisogna permettere agli altri di dire la verità, ciò che pensano, per uscire dalla propria “stanza”, dallo spazio atono in cui rischia di confinarsi chi non alimenta un’atmosfera di comunicazione positiva attorno a sé.
Checklist
Comunicate nella maniera corretta in azienda e ai vostri dipendenti? Verifica se la tua strategia può essere migliorata
Chiedetevi: quanto sono coinvolti i dipendenti della mia azienda? Ci sono differenze significative tra aree/reparti diversi?
In azienda circolano più feedback positivi o feedback negativi? Da dove iniziare per fare in modo che i primi prevalgano sui secondi?
Nel lavoro di squadra il clima e le dinamiche abituali permettono a tutti di provare la sicurezza psicologica (psychological safety) necessaria a rendere al meglio?
Utilizzando i diversi elenchi proposti nell’articolo, individuare potenziali lacune nello status quo aziendale e potenziali punti di partenza per migliorare.
Considerando il ruolo cruciale dell’esempio del management (top e middle) nel determinare condizioni favorevoli al coinvolgimento, pensare ad un lavoro di formazione sulle soft skills o di coaching mirato, diffidando dagli approcci che promettono “tutto subito”.
- Come comunicare con i dipendenti
- La comunicazione positiva per aumentare motivazione ed engagement
- Sommario
- L’apologo della cattedrale
- I complimenti dei capi e il valore dei feedback positivi
- Dati e suggerimenti da una ricerca Gallup
- L’importanza del riconoscimento secondo una ricerca IBM
- Il Project Aristotle di Google e la formula segreta delle squadre migliori
- La sensibilità sociale come ingrediente dell’intelligenza collettiva
- Il modello “bastone e carota” non funziona
- Come diminuisce l’engagement?
- Resistenze tipiche contro la prassi del riconoscimento
- Spinte gentili per aumentare l’engagement dei lavoratori
- Dare feedback per riceverli