Gli spazi aziendali per attivare le soft skills
L’organizzazione degli spazi aziendali può favorire oppure ostacolare la quantità e la qualità delle relazioni e al tempo stesso, di conseguenza, la qualità del lavoro. Ciò vale dalle linee di fabbrica alle sale riunioni, dagli uffici ai luoghi di passaggio e di incontro.
I casi che qui prendiamo in esame mostrano che, quando si riflette sull’organizzazione dello spazio, si sta ragionando su una delle condizioni “materiali” per l’attivazione e l’esercizio delle soft skill. Ciò accade perché le relazioni, non essendo fenomeni “immateriali” ed essendo sempre contestualizzate, risentono dei contesti: perciò a volte, in questo campo, anche lo spazio in cui le relazioni avvengono può fare la differenza.
Sommario
L’ergonomia di una cabina di pilotaggio
Lo spazio del team: un caso da Fiat
Uffici “open space”: pro e contro
Inventare spazi misti e modificabili
Spazi per vagare e divagare
Western Electric e Olivetti: lezioni da passato
Ambienti cognitivi
L’ergonomia di una cabina di pilotaggio
Vedremo molti esempi di come l’organizzazione degli spazi possa influire sulla qualità del lavoro, ma è interessante iniziare con un caso estremo, che riguarda non tanto le relazioni tra le persone, quanto l’esecuzione precisa e corretta dei compiti.
Il caso è quello del bombardiere Boeing B-17, noto anche come “fortezza volante”, che nel corso degli anni Quaranta fu coinvolto in fase d’atterraggio in una serie di incidenti difficili da spiegare. Dalle indagini attivate dall’aeronautica militare degli Stati Uniti risultò che il problema era dovuto al design della cabina di pilotaggio, dove le leve di controllo dei flap delle ali erano identiche a quelle che controllavano il carrello.
In condizioni normali ciò non provocava problemi, ma in situazioni di stress il pilota poteva facilmente confondersi, facendo rientrare il carrello anziché agire sulle ali.
Alphonse Chapanis, lo studioso che si occupò del caso e propose una soluzione, rendendo meno ambiguo lo spazio della cabina, è stato ricordato nel necrologio del New York Times (nel 2002) come uno dei padri dell’ergonomia.
Lo spazio del team: un caso da Fiat
Il modello WCM (World Class Manufacturing), sistema di produzione ispirato alla lean di Toyota e adottato negli stabilimenti Fiat Chrysler Automobiles in tutto il mondo, dà (tra le altre cose) molta importanza alla sicurezza e all’ordine delle postazioni di lavoro, partendo dal modo in cui il team lo vive e lo giudica.
Docente di Organization Theory and Design
al Politecnico di Milano
Raccontando una serie di visite alle nuove fabbriche di automobili italiane, tra il 2010 e il 2016, da Mirafiori a Melfi, Luciano Pero (docente di Organization Theory and Design al Politecnico di Milano) ha messo in evidenza la crescente centralità dei team, guidati da team leader le cui competenze relazionali sono importanti quanto quelle tecniche (il contributo di Luciano Pero a cui faccio riferimento è contenuto nel volume curato da Cipriani, Gramolati e Mari, Il lavoro 4.0. La quarta rivoluzione industriale e le trasformazioni delle attività lavorative, Firenze University Press 2018).
Si rileva che il miglioramento delle postazioni di lavoro porta ad avere meno contrattempi e un coordinamento più efficace delle squadre. I suggerimenti del personale impiegato alle linee produttive sono fortemente incoraggiati e arrivano talvolta a toccare aspetti (problemi e modifiche migliorative) che i progettisti, a tavolino, non avevano previsto.
L’esperienza dei team e le esigenze di ergonomia che essi manifestano vengono prese in considerazione anche durante la progettazione delle automobili: nel caso dello stabilimento di Melfi, ad esempio, dove si producono Jeep Renegade e 500X, i team leader hanno affiancato a Torino i progettisti, per confrontarsi sul disegno dell’insieme e sulla facilità di montaggio delle parti, con possibilità di suggerire modifiche e variazioni. Le modifiche così ottenute rispetto alle idee iniziali si contano a centinaia e permettono di agevolare il lavoro, anticipando e riducendo i potenziali motivi di errore (e quindi, a cascata, possibili tensioni e conflitti tra operatori e coordinatori).
Sui documenti ufficiali si parla di Work Place Integration (WPI), per indicare la progettazione congiunta prodotto/processo in fase di industrializzazione, partendo dalle postazioni di lavoro, studiate a loro volta nei minimi dettagli ascoltando le indicazioni di chi lavora e con simulazioni in realtà virtuale. Tutto ciò ha portato, ad esempio, all’introduzione di posizioni di lavoro adattative, automaticamente regolabili in base alle caratteristiche antropometriche dell’operatore.
L’attenzione al contributo che le persone possono dare al miglioramento continuo delle proprie postazioni ha avuto peraltro delle ricadute positive sul loro coinvolgimento e sul loro senso di appartenenza.
Uffici “open space”: pro e contro
In un precedente articolo di Skille abbiamo evidenziato l’importanza di curare il setting delle riunioni, che può favorirne oppure ostacolarne il buon andamento.
Ciò che vale per le stanze delle riunioni vale più in generale per tutte le postazioni di lavoro. Oltre all’ergonomia relativa ai movimenti e alle posture c’è quella che si potrebbe definire ergonomia delle relazioni. Un tema classico in questo caso è quello degli uffici: quali differenze ci sono tra gli uffici tradizionali e le varianti “open space”? Come cambia la qualità del lavoro e delle interazioni passando da un modello all’altro?
La questione è controversa. C’è chi ha investito molto sul modello open space: lo ha fatto notoriamente Facebook, che nel 2015 ha aperto a Menlo Park il più grande al mondo, su un’estensione di circa quattro ettari. Lo hanno fatto, da anni, in tanti: dalle piccole aziende agli spazi di coworking, per arrivare fino a Google e Apple. In queste due ultime società, tuttavia, il modello open space non è apprezzato da tutti: tra il 2015 e il 2017 sono stati pubblicati articoli sul Washington Post e The Wall Street Journal che raccontano di come quello spazio possa risultare “opprimente”, con il suo rumore di fondo e la frequenza di interruzioni e motivi di distrazioni a cui espone.
Non mancano ovviamente gli studi che sottolineano i benefici di questo modello: favorirebbe le interazioni tra le persone, le relazioni faccia a faccia, e contribuirebbe a generare nei lavoratori la percezione di far parte di un’azienda “innovativa”, “trasparente” e “collaborativa”. C’è però, dall’altro lato, chi sottolinea che la frequenza delle interazioni “faccia a faccia” può interrompere i flussi creativi possibili in spazi più “protetti” ed ostacolare la concentrazione.
C’è ancora di più. Un recente studio pubblicato nel luglio 2018 da due ricercatori di Harvard Business School e Harvard University, Ethan Bernstein e Stephen Turban, suggerisce la conclusione controintuitiva secondo cui l’adozione di uffici open space può portare a una riduzione delle interazioni faccia a faccia, anche del 70% rispetto agli uffici tradizionali, e a un contemporaneo incremento della comunicazione elettronica con email e instant messaging.
Lo studio, intitolato The impact of the open space on human collaboration, è scaricabile in PDF da qui.
Ciò che è certo, insomma, è che, cambiando l’organizzazione spaziale (disposizione di muri, porte, arredamenti ecc.), cambiano effettivamente i patterns (modelli) delle interazioni tra i lavoratori. Ciò, però, accade in modo non banale né lineare: la semplice apertura di uno spazio non assicura la “vibrante collaborazione faccia a faccia” che ci si aspetterebbe.
D’altra parte, per sostenere la buona attivazione delle soft skill (come la collaborazione, l’ascolto attivo, la creatività di gruppo e così via), gli spazi studiati da giganti come Google e Facebook sono molto diversificati.
Per farsene un’idea approssimativa, non mancano in rete i video che permettono di fare limitati tour virtuali. Come questo:
Oppure come questo:
Inventare spazi misti e modificabili
Tra i sostenitori delle disposizioni open space si ricorda talvolta luogo mitico, il Building 20, una struttura temporanea in cui durante la seconda guerra mondiale furono riuniti vari dipartimenti del Massachusetts Institute of Technology. Fu un periodo di grande creatività e di innovazioni, a cui verosimilmente contribuì anche la nuova distribuzione spaziale ravvicinata dei dipartimenti (fisica nucleare, linguistica, elettronica ecc.), che favoriva incontri e scambi in precedenza impossibili tra figure di altissimo livello.
Ecco una mappa del Building 20, con le sue ali.
Si ritiene che l’edificio abbia favorito la collaborazione e la creatività collettiva, permettendo alle persone di incontrarsi e sostare nell’atrio, nei lunghi corridoi o sulle scale di legno. Analizzando la struttura, si può dire però che non si trattava propriamente di una situazione di uffici open space: al contrario c’erano spazi di lavoro tradizionali, distribuiti lungo grandi corridoi che permettevano incontri casuali.
In un libro intitolato Deep Work. Rules for Focused Success in a Distracted World (2016), dedicato al lavoro “profondo” e ad alta intensità (non superficiale, fatto con la massima concentrazione), Cal Newport ricorda ulteriori dettagli: l’edificio, pensato come sistemazione provvisoria e di emergenza, aveva pesanti difetti di ventilazione, risultava troppo caldo d’estate e troppo freddo d’inverno, aveva corridoi bui e molti altri inconvenienti, ma proprio per la natura “provvisoria” dell’edificio e per il basso valore economico dell’insieme gli spazi risultavano ridefinibili e modificabili in base alle esigenze di chi li occupava. Per l’installazione del primo orologio atomico furono addirittura sfondati due piani, senza farsi troppi problemi.
Dall’esperienza si possono ricavare alcune indicazioni: l’alternativa secca tra uffici chiusi (tradizionali) e aperti (open space) è troppo limitante, perché impedisce di sperimentare il valore di spazi misti
L’alternativa secca tra uffici chiusi (tradizionali) e aperti (open space) è troppo limitante, perché impedisce di sperimentare il valore di spazi misti (con varie combinazioni tra l’aperto e il chiuso), in cui la possibilità di sottrarsi a ogni rumore di fondo e a ogni distrazione coesista con la possibilità di incontrare facilmente persone che lavorano in settori differenti e con diverse priorità. Si dovrebbe lasciare la possibilità ai singoli e ai gruppi di modificare lo spazio circostante, per quanto possibile, in base alle esigenze e all’esperienza, evitando che la disposizione scelta in un dato momento resti fissa anche quando risulta scomoda o controproducente per la qualità del lavoro individuale e delle relazioni.
Il concetto di “spazio misto” può essere interpretato in tanti modi. Ci limitiamo qui a citarne uno del professore di architettura David Dewane, che tiene conto dell’idea di “deep work” richiamata sopra. Si tratta di un ambiente di lavoro denominato “Eudaimonia Machine”, ovvero “Macchina della Felicità”, che prevede – in un edificio rettangolare – la sequenza di cinque spazi diversi: un atrio-galleria d’ingresso, un salone per la socializzazione (con una struttura che può ricordare quella di un bar), una biblioteca che può fare anche da archivio, uno spazio dedicato a sale riunioni e uffici condivisi e lo spazio per il “lavoro profondo” denominato “The Chamber”, la “camera”.
Questi nomi, di per sé, non dicono molto, ma fanno capire che la struttura è rivolta al tipo di lavoro che si può fare in un ufficio. Scendendo nel dettaglio, l’idea principale è quella di mettere a disposizione dei lavoratori, tenendoli separati, sia gli spazi per la socializzazione, sia quelli per il lavoro intensivo e concentrato, lontano dalle interruzioni e dagli incontri casuali.
Ogni spazio ha le sue caratteristiche e le sue regole. Ad esempio, l’atrio-galleria potrebbe mettere in mostra qualcosa che ricordi i migliori lavori realizzati dagli impiegati, i casi memorabili, qualcosa che possa “ispirare” chi osserva e funzionare per così dire da stimolo. La stanza successiva da attraversare bilancia la “pressione” esercitata dall’atrio con uno spazio di socializzazione ideato per allentare le tensioni e per conversare e divagare. Il messaggio implicito è che la socializzazione fa parte del lavoro e la qualità dei momenti di socializzazione può riflettersi sulla qualità del lavoro e del vissuto aziendale.
Spazi per lavorare vagando e divagando
Durante gli studi nel corso di laurea in Sistemi e progetti di comunicazione un mio laureando iniziò a lavorare negli uffici marketing londinesi di uno dei grandi Web Services Providers mondiali e mi raccontò di una cosa che lo aveva colpito, pensando per contrasto all’immagine tradizionale del lavoro d’ufficio: aveva dei compiti precisi da svolgere e delle scadenze da rispettare, ma era libero di muoversi. Se lo spazio dell’ufficio risultava troppo opprimente e chiuso per alimentare le intuizioni creative, poteva andarsene in giro per Londra in cerca d’ispirazione.
La città diventava così l’ambiente di lavoro, una colossale estensione dello spazio troppo circoscritto dell’ufficio. Di questa possibilità di lavoro in movimento e a distanza si dovrà tenere sempre più conto in futuro, nell’epoca dell’iperconnessione e dell’Internet of Things, quando il significato stesso del concetto di telelavoro diventerà probabilmente molto più ampio e variegato di quanto è stato fino ad oggi.
C’è un dubbio sottile che a volte si intreccia ad esempi come questi. E trova espressione, ad esempio, in un video TED di Jason Fried, co-fondatore di un’azienda informatica che produce strumenti web-based per migliorare la produttività. Ascoltiamolo:
Nel video Jason Fried, da una decina d’anni, rivolge alle persone la stessa domanda: «Dove andate quando dovete lavorare su qualcosa?».
Le risposte raccolte suggeriscono che spesso trovarsi “a lavoro” non significa trovarsi nel luogo ideale per il lavoro. Nel video non mancano le prese di posizione ad effetto, ma sommarie (come quando si lascia intendere che le riunioni sono in generale una perdita di tempo, che la comunicazione via email e con messaggistica istantanea è da privilegiare rispetto a quella faccia a faccia e che bisognerebbe sperimentare delle giornate o dei pomeriggi senza parlare tra colleghi…).
Anche attraverso posizioni provocatorie e discutibili, il video richiama ancora una volta l’attenzione sul fatto che organizzazione dello spazio del lavoro, relazioni con i colleghi e qualità del lavoro sono collegati.
Ci sono studi di architettura che ne tengono conto, aggiornando le proprie idee con gli studi scientifici condotti in questo campo. Tali studi possono offrire o confermare spunti per chi progetta nuovi spazi. Ad esempio, uno studio ripreso da un articolo dell’Architectural Digest (nel 2017, intitolato Confirmed: Good Workplace Design Fosters Innovation) evidenzia i desideri ricorrenti, pensando a un luogo di lavoro ideale, di luce naturale, spazi di lavoro facilmente riconfigurabili, spazi dedicati al relax, alla socializzazione e al benessere.
Sembra in linea con queste indicazioni la sede centrale di Samsung nel Nord America, di cui è possibile farsi un’idea con una breve visita virtuale:
Tra gli assunti dello studio di architettura che l’ha progettata (NBBJ, www.nbbj.com) c’è l’idea che stare seduti più di 20 minuti intontisce e rende meno lucidi. Da qui l’idea di predisporre ampie terrazze facilmente accessibili, per camminare ed eventualmente sostare all’aperto, ma anche per favorire gli incontri casuali (di cui, come abbiamo visto, si parlava ricordando il Building 20). La caffetteria è separata dalla zona uffici, per indurre i lavoratori a camminare un po’ (si sta parlando, in questo caso, di knowledge workers).
La visita virtuale alla sede Samsung permette di notare l’investimento in strutture open space, mentre un’esplorazione più paziente tra articoli e documenti online porta a scoprire elementi d’arredamento più insoliti, come i nap pod, baccelli in cui è possibile schiacciare un pisolino. Un portavoce della sede Samsung ha dichiarato che si voleva realizzare un ambiente di lavoro in cui ci fosse più “vibrazione” di quanta ce ne sia in una startup.
Nonostante non sia difficile riconoscere l’esistenza di un nesso tra organizzazione degli spazi e qualità del lavoro e delle relazioni tra colleghi, un articolo della Harvard Business Review del 2014 rileva che sono ancora poche le aziende che si interrogano seriamente su come il design degli spazi possa incidere sulla performance (si tratta dell’articolo Workspaces That Move People, di B. Waber, J. Mgnolfi, G. Lindsay).
Gli autori dell’articolo considerano in modo diretto la connessione tra spazi, interazioni e comunicazione tra colleghi, rendendo così ancor più chiaro il nesso tra gestione dello spazio e occasioni per attivare le soft skill. Le conclusioni generali a cui arriva lo studio sono riassumibili così: gli incontri casuali e faccia a faccia tra knowledge workers, dentro o fuori l’organizzazione, migliorano le performance.
Tra i casi considerati, quello dell’azienda norvegese di telecomunicazioni Telenor: il Ceo ritiene che alcuni importanti cambiamenti organizzativi dell’azienda, nonché la sua espansione sul mercato internazionale, siano stati favoriti dalla pratica dell’hot desking (postazioni di lavoro non fisse, non assegnate) e dall’adozione di spazi di lavoro facilmente riconfigurabili, in base agli obiettivi e all’evoluzione dei team.
Nel caso di una compagnia farmaceutica si è notato che l’aumento delle interazioni tra colleghi determinava un aumento delle vendite.
Per favorire l’aumento delle interazioni, in un caso è bastato passare dall’avere una macchina per il caffè ogni 6 dipendenti all’avere una nuova e grande caffetteria ogni 120 dipendenti.
La varietà degli approcci e delle sperimentazioni, di cui abbiamo dato brevemente conto in questo articolo, fanno pensare che non esista una ricetta valida per tutti e che, proprio per questo, è importante dedicare del tempo a esplorare le possibilità di miglioramento della propria azienda in questo ambito particolare, coinvolgendo anche i lavoratori.
Raccogliere suggerimenti e attivare conversazioni sul tema può essere cruciale per migliorare la vivibilità degli spazi, per ridurre gli sprechi, per aumentare il comfort nei diversi spazi, sia di lavoro, sia di transito e socializzazione (spogliatoi, mense, pause all’aperto e così via). Tutto il vissuto di questi spazi contribuisce alla qualità percepita del luogo di lavoro, ad “allentare” le tensioni e ad attivare positivamente le relazioni.
Western Electric e Olivetti: lezioni dal passato
Abbiamo citato molti casi recenti, ma l’attenzione al nesso tra qualità del lavoro, qualità degli ambienti di lavoro e qualità delle relazioni non è certo una novità. Tutti questi elementi, ad esempio, sono intrecciati nelle celebri ricerche di Elton Mayo presso gli stabilimenti Hawthorne della Western Electric, condotte tra gli anni Venti e Trenta del secolo scorso.
Si trattava, inizialmente, di studiare gli effetti di una migliore illuminazione del posto di lavoro sulla performance dei lavoratori. Si scoprì, strada facendo, che la produttività aumentava anche in ragione della maggiore considerazione riservata al personale coinvolto nella sperimentazione. Si andava così oltre la logica tayloristica, secondo la quale l’unico vincolo di cui tener conto per la produttività del lavoro umano è la resistenza fisica allo sforzo prolungato. L’introduzione di una e in seguito di due pause durante i turni, il pasto offerto durante le pause e l’uscita dal lavoro anticipata di mezz’ora migliorarono la produttività.
Un effetto analogo era determinato dall’attenzione ricevuta, dalla possibilità di esprimersi e dalla sensazione di essere ascoltati, da postazioni disposte in modo da favorire il senso dell’appartenenza a un gruppo.
Da ciò conseguì una predisposizione più positiva al lavoro e una disciplina efficace perché “autoimposta” dal consolidamento delle relazioni umane all’interno della fabbrica.
Un’altra storia da ricordare è quella della fabbrica “a misura d’uomo” sognata da Adriano Olivetti, che inaugurando nel 1953 lo stabilimento di Pozzuoli dichiarava: “Così, di fronte al golfo più singolare del mondo, questa fabbrica si è elevata, nell’idea dell’architetto, in rispetto della bellezza dei luoghi e affinché la bellezza fosse di conforto nel lavoro di ogni giorno. Abbiamo voluto anche che la natura accompagnasse la vita della fabbrica. La natura rischiava di essere ripudiata da un edificio troppo grande, nel quale le chiuse muraglie, l’aria condizionata, la luce artificiale, avrebbero tentato di trasformare giorno per giorno l’uomo in un essere diverso da quello che vi era entrato, pur pieno di speranza.
La fabbrica fu quindi concepita alla misura dell’uomo perché questi trovasse nel suo ordinato posto di lavoro uno strumento di riscatto e non un congegno di sofferenza.
Per questo abbiamo voluto le finestre basse e i cortili aperti e gli alberi nel giardino ad escludere definitivamente l’idea di una costrizione e di una chiusura ostile […]”.
La citazione meritava di essere ripresa per intero, perché è interessante tenerla presente anche quando si considerano iniziative recenti di colossi come Amazon, Apple e Google e, più precisamente, la foresta pluviale all’interno del quartier generale Amazon Le Sfere a Seattle, il disco dell’Apple Park di Cupertino, con novemila alberi al suo interno, e un nuovo campus di Google, che dovrebbe avere tetti verdi e terrazze che si congiungono al terreno.
In Olivetti e attorno c’era anche altro: c’erano i campi da tennis e bocce, le sale lettura, le biblioteche e gli eventi teatrali e culturali, le mense dipinte con colori che dovevano aiutare l’allentamento delle tensioni accumulate alle postazioni di lavoro (e con pause pranzo di circa due ore). L’attenzione allo spazio e quello alle relazioni andavano insomma di pari passo.
Ambienti cognitivi
Che significato hanno i poster, le installazioni e le fotografie che si trovano in un’azienda? Rappresentano prodotti, persone o idee, o tutto questo insieme?
Qualunque cosa rappresentino, le immagini e gli oggetti visibili in uno spazio di lavoro contribuiscono a formare l’ambiente cognitivo condiviso dei lavoratori.
Abbiamo già visto come il modello “Eudaimonia Machine” preveda, per l’atrio-galleria, l’esposizione di alcuni tra i migliori lavori dei dipendenti dell’azienda.
In altri casi si possono trovare frasi, motti generali o frasi dei fondatori, del CEO o di altri dirigenti: nel caso di Facebook, ad esempio, in una stanza si può trovare il poster con il motto “Eventually everything connects” e in un’altra, come racconta un lavoratore, si può trovare tradotta in un poster, di pomeriggio, una frase che Mark Zuckerberg ha detto di mattina.
Parole, immagini e oggetti contribuiscono a creare un ambiente cognitivo: parole e brevi frasi, ad esempio, possono agire come “memi” all’interno della cultura organizzativa aziendale, cioè unità di significato capaci di passare da una bocca all’altra, da una mente all’altra, contribuendo a mantenere vive nella memoria alcune immagini e storie condivise.
L’ambiente in cui si lavora funziona come una sorta di deposito materiale di segni, i quali informano e sostengono la dimensione “immateriale” di una cultura organizzativa.
Può essere molto interessante (come l’esperienza mi suggerisce) esporre idee e messaggi prodotti dagli stessi lavoratori, estrapolati da conversazioni animate e ricche di intuizioni e di scambi sul senso del proprio lavoro, sulle sfide superate e su quelle non superate, ma comunque utili in termini di apprendimento. Così nel corridoio di una fabbrica i dipendenti possono trovare incorniciati alcuni oggetti a cui hanno lavorato e frasi che li commentano: “un confronto ben riuscito”, “ognuno spieghi e metta sul tavolo la sua idea su come risolvere il problema”, “la forza del lavoro insieme” e “quando la collaborazione porta buoni frutti” (frasi associate ad un oggetto brevettato) e così via.
Anche le imprese non riuscite al primo colpo possono portare con sé insegnamenti degni di essere conservati e raccontati, tra colleghi che li hanno vissuti ma anche ai nuovi arrivati: perciò in un quadro si legge un incoraggiante: “Sarà per la prossima volta”, in relazione a un materiale molto difficile da lavorare, che ha richiesto di attivare nuovi ragionamenti sia sui macchinari, sia sul metodo di lavoro.
Il quadro – da solo e in relazione agli altri – ricorda che per tutti ci sono sempre delle sfide ancora aperte, da affrontare al meglio collaborando.
Checklist
Ecco come individuare gli spazi giusti per lavorare nella tua azienda
Come sono percepiti gli spazi di lavoro dai lavoratori? Ci sono suggerimenti su possibili miglioramenti? Esiste un metodo per raccogliere costantemente idee e suggerimenti al riguardo?
Gli ambienti di lavoro sono modificabili in base agli obiettivi e ai team di lavoro? Sono “personalizzabili”?
Ci sono spazi la cui gestione genera conflitti? (ad esempio, postazioni utilizzate da più dipendenti, difficili da riordinare?)
Che rapporto c’è, in azienda, tra gli spazi di lavoro e gli spazi di socializzazione? Ci sono spazi che permettono il “deep work”? E spazi che permettono incontri casuali tra specialisti in campi differenti?
Gli elementi che contribuiscono all’ambiente cognitivo (poster, parole e frasi esposte come slogan, immagini, oggetti…) sono in sintonia con la cultura organizzativa che si vuole promuovere? Quanto parlano ai lavoratori? Quanto parlano dei lavoratori? Quanto parlano delle sfide passate e future dell’organizzazione?
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