Apprendistato, questo sconosciuto dalle imprese
Apprendistato, assente ingiustificato. È il quadro che emerge da una analisi di Adapt su circa 200 curriculum vitae di giovani universitari all’interno di una ricerca presentata con un approfondimento di Skille che mira ad evidenziare con quali forme contrattuali avviene l’incontro tra giovani e mondo del lavoro e quali sono le competenze da loro maturate per confrontarle con quelle più richieste dalle aziende.
Sorprendentemente, l’apprendistato non viene menzionato neanche una volta nei curriculum. Sono tanti i convegni dove questa forma contrattuale viene elogiata come la via prediletta per la formazione dei giovani in base alle esigenze del mercato, ma sono poche le imprese in Italia che nella realtà dei fatti ne fanno uso.
Secondo le ultime rilevazioni dell’Inapp, l’istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche, il numero degli apprendisti in Italia nell’ultimo decennio ha avuto un corso piuttosto altalenante, con riprese un po’ dopate dagli incentivi delle ultime riforme. Dopo un calo dei nuovi ingressi del 28,7% tra il 2010 e il 2015, le agevolazioni hanno permesso, rispetto agli anni precedenti, un aumento del 30% nel 2016 e del 22,8% nel 2017. A bocce ferme, nell’ultimo anno della rilevazione Inapp il numero complessivo degli apprendisti in Italia si è attestato intorno ai 429 mila, rappresentando il 13,9% sul totale degli occupati tra i 15 e i 29 anni.
Numeri ancora bassi per uno strumento che non ha soltanto la pretesa di facilitare l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, ma anche di ridurre significativamente il tanto lamentato mismatch delle competenze.
La difficoltà di reperimento delle figure professionali, che ormai in Italia riguarda il 30% dei casi (fonte Unioncamere), è infatti articolata nella mancanza di candidati (ne formiamo troppo pochi) e nella mancanza di persone sufficientemente preparate per sopperire alle richieste delle aziende (non li formiamo abbastanza). All’appello mancano figure dirigenziali ad elevata specializzazione, ma anche operai specializzati e figure tecniche, fondamentali per affrontare gli impatti della tecnologica sull’organizzazione del lavoro e la transizione ecologica. Tutti segni del fatto che, per affrontare la carestia di competenze, occorre cambiare rotta.
In Germania, quasi 2 milioni di giovani sono occupati con l’apprendistato duale, da noi detto «alla tedesca». Strumenti analoghi sono presenti anche nel nostro paese: l’apprendistato di primo livello per la qualifica e il diploma professionale, rivolto ai giovani tra i 15 e i 25 anni, e l’apprendistato di terzo livello di alta formazione e ricerca, per coloro che hanno tra 18 e 29 anni, entrambi finalizzati al conseguimento di un titolo di studio.
Tuttavia, nonostante prevedano la collaborazione tra scuola e azienda per un migliore allineamento formativo, questi livelli non vengono sfruttati a dovere. Secondo il Cedefop, a fronte dei numeri tedeschi, in Italia siamo ancora fermi all’ordine delle migliaia, con circa 11mila apprendisti di primo e terzo livello (al 2017). Infatti, nel 97% dei casi (416 mila apprendisti) da noi la scelta ricade sull’apprendistato professionalizzante di secondo livello (per i giovani tra 18 e 29 anni), il quale, pur garantendo un bacino che va dalle 40 alle 120 ore di formazione a seconda del titolo di studio posseduto dall’apprendista, viene spesso adoperato con il solo scopo di abbattere il costo del lavoro, facendo pensare che le imprese siano ben più attratte dal risparmio economico che dalla possibilità di formare un giovane a propria immagine e somiglianza.
Costruiamo in azienda il talento che occorre
Intanto, il mismatch rimane e la guerra dei talenti continua. A fronte di una richiesta sempre più elevata di personale qualificato, legata ad una offerta di candidati non in grado di soddisfare la domanda, e della difficoltà da parte degli istituti formativi a tenere il passo con le trasformazioni del mondo del lavoro, il paradigma non può più essere quello di cercare il talento o il giovane «fatto e finito», bisogna invece scommettere sugli strumenti che permettono di crescerlo in casa.
Occorre mettersi fianco a fianco, un po’ come si faceva nelle vecchie botteghe artigiane. Per questa ragione, un più convinto utilizzo dell’apprendistato duale (primo e terzo livello) permetterebbe alle aziende di assicurarsi giovani talenti prima ancora che abbiano concluso il loro percorso di studi, mettendosi a tavolino con l’istituto formativo e definendo un piano di formazione che lo studente (al tempo stesso lavoratore presso l’azienda) dovrà seguire sotto la guida dei propri tutor formativi. Un ottimo modo per scongiurare il rischio, che emerge lampante anche dalla ricerca di Adapt sugli esiti dell’alternanza formativa nei curriculum degli studenti, di un disallineamento eccessivo tra quanto il giovane vede nel suo percorso di studi e quanto ha la possibilità di svolgere nei contesti professionali.
Come ripreso da una ricerca dell’Università Bicocca in collaborazione con Regione Lombardia, dedicata all’apprendistato di primo livello nei percorsi «IeFP» (istruzione e formazione professionale), sono ancora poche le imprese con apprendisti per l’ottenimento di una qualifica e del diploma professionale, meno dell’1% del campione (circa 1.300 aziende su 137.000). E la maggior parte risulta essere grandi imprese, mettendo in evidenza la difficoltà delle Pmi a gestire e ad aprirsi a questo tipo di strumenti.
Anche se la provincia di Bergamo risulta essere tra quelle meglio collocate, soltanto il 19% circa delle aziende bergamasche, concentrate in gran parte nel settore della meccanica, impianti e costruzioni, ha al suo interno degli apprendisti, dietro a Milano con il 32% e davanti a Brescia con l’11%. Guardando al lato economico, oltre che il risparmio sul costo del lavoro, a convincere gli indecisi può esserci il fatto che, con il passare del tempo, le imprese che ospitano apprendisti vedono un aumento della produttività del lavoro, per via del recupero sui costi della formazione (tra l’altro finanziabili in molti casi con i fondi interprofessionali) e di una guadagnata autonomia da parte dell’apprendista, che finalmente può mettere al servizio dell’impresa le competenze che ha acquisto lungo il percorso.
A fronte degli importanti finanziamenti del Pnrr e della presenza degli strumenti di apprendimento duale che già sono in essere, occorre trovare il coraggio di mettere a sistema le buone pratiche per diffondere tra le imprese una “cultura dell’apprendistato”, che non sia portavoce del solo risparmio sul costo del lavoro e di un miglioramento degli indici di produttività, ma di una reale opportunità formativa sul lavoro che ancora oggi, guardando i CV dei giovani, sembra mancare. Convincere le imprese non sarà facile, ma forse sarà necessario. Rubando le parole al filosofo Jean-Jacque Rousseau, «state certi che un’ora di lavoro gli insegnerà più cose di quante ne terrebbe a mente dopo una giornata di spiegazioni teoriche».