Da Great Resignation a “Great Choice”
Alla fine si ritorna e si riparte da lì: il mismatch, il disallineamento fra domanda e offerta di lavoro e le difficoltà di reperimento (a maggio le imprese cercano ancora 460mila profili con difficoltà di trovarli salita al 40%) scontano sempre le stesse variabili di partenza: s alari troppo bassi ed eccessivo uso di contratti a termine. Due giovani su tre (il 65%) indicano il primo come ostacolo reale a entrare nel mondo del lavoro (il 73% tra gli over 50, il 61% tra gli under 30). Quasi la metà, il 49% (il 56% tra gli over 50, il 44% tra gli under 30), invece dice che è anche per via della precarietà del lavoro offerto.
C’è però un 35% (41% tra gli over 50, 29% tra gli under 30) che ritiene che le persone non sappiano adattarsi e rinuncino per cercare il lavoro ideale.
Questa è la prima fotografia degli due report «FragiIItalia» di Ipsos e dell’Area studi Legacoop e dell’Osservatorio HR del Polimi. Ma salario e incertezza sono solo i primi due bisogni “igienici” che possono rendere, più o meno, attrattivo un posto di lavoro. Ma tutti gli osservatori e gli analisti, guardando alle Direzioni HR delle imprese, non hanno dubbi: si tratta di una nuova occasione per le imprese, se sono capaci e pronti potranno trasformare il fenomeno delle grandi dimissioni da Great Resignation a “Great Choice”. Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano analizza questo fenomeno che riguarda direttamente le persone, ma ribaltando il punto di vista, guardandola cioé con lo sguardo dell’impresa. Ecco in che modo.
«Non chiamatele grandi dimissioni, ma grandi scelte. Questa crisi sul mercato del lavoro è innanzitutto una crisi di attrattività e di engagement - spiega Corso -. Le imprese tradizionali italiane faticano ad attrarre e trattenere talenti, rispetto ad aziende di altri Paesi, ma anche a startup che pure raramente offrono condizioni di sicurezza ed equilibrio vita e lavoro migliori. Le retribuzioni e le prospettive di carriera c’entrano, ma non sono davvero il centro del problema. A pesare - sottolinea ancora Corso - c’è una gran voglia di coinvolgimento decisionale, di autonomia, di senso della propria vita, di benessere e spazio per le proprie passioni».
Intanto, il grande fenomeno delle dimissioni incombe, non più solo sugli Usa, ma ormai anche da noi, Europa e Italia, sta tracciando il perimetro di ciò che sempre più per le diverse dinamiche e caratteristiche, sono i «nuovi mondi del lavoro», con i quali bisogna fare i conti e dove oltre la metà degli occupati (53%) sta già cercando una nuova sistemazione, il 29% lo sta facendo attivamente, ma che sale al 38% nella fascia fra i 25-34 anni.
Group Ceo di Randstad
Il nuovo rapporto Randstad Workmonitor sul primo semestre 2022 rilancia così come preoccupante anche per l’Italia il fenomeno della great resignation (le grandi dimissioni), termometro principe di un forte malessere fra i lavoratori del post-Covid. Fenomeno con una portata finora forse sottovalutata, visto che l’Italia è balzata al terzo posto nel mondo in questa classifica: oggi per un lavoratore che si dimette, altri nove sono pronti a farlo.
«Si denuncia un disallineamento diffuso – spiega Marco Ceresa, Group Ceo di Randstad – soprattutto sui valori di riferimento, con una richiesta di maggiore flessibilità, orari e smart working, e la frustrazione per un mancato sviluppo professionale». Così, se il Workmonitor indica che quasi uno su due è già in atto per cambiare impresa, un ulteriore 24% dei dipendenti «lo farà a breve», con un’incidenza più alta sempre tra le fasce giovanili.
Sempre meno persone si sentono coinvolte
Responsabile scientifico dell’Osservatorio HR Innovation Practice
«Le dimissioni in Italia sono lo specchio di due fenomeni correlati – spiega Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio HR Innovation Practice -: il crescente malessere dei lavoratori, spesso non adeguatamente identificato dalle organizzazioni, e la volontà di dare un nuovo significato al lavoro, per cui molte persone oggi cambiano anche a condizioni economiche inferiori, per seguire passioni e interessi personali o conseguire maggiore flessibilità. Di minor rilievo, rispetto a quanto documentato in altri Paesi come gli Usa, è invece il desiderio di abbandonare del tutto il mondo del lavoro, indicato in Italia come ragione di possibili dimissioni solo dal 6% dei lavoratori. In questo quadro che sta mettendo in crisi il mercato del lavoro e i tradizionali modelli organizzativi è fondamentale il ruolo della Direzione HR, a cui si richiede una funzione guida per portare l’organizzazione a un modello di lavoro “sostenibile”, che metta al centro il benessere dei lavoratori, il loro coinvolgimento e la loro impiegabilità».
Significa concentrarsi sulle strategie di employer branding, di attrattività, di retention (la capacità di trattenere in azienda non solo i migliori e i talenti), anche perché la ricerca dell’Osservatorio del Politecnico indica chiaramente che nel 39% dei casi le dimissioni sono associate a una forte caduta della capacità delle imprese di attrarre candidati e giovani talenti.
Presidente di Legacoop
E qui torna «la ricerca di nuovi obiettivi, meditati durante la pandemia. Una trasformazione – spiega Ceresa - che riguarda soprattutto i giovani, che oggi dichiarano apertamente di dare priorità alla loro felicità piuttosto che al lavoro». Occupazione che continua a essere una forte preoccupazione per i giovani, che chiedono al primo posto stabilità e sicurezza. «Ma emergono attese per un lavoro di qualità, che lasci spazio alla vita personale e alla famiglia – spiega Mauro Lusetti, presidente di Legacoop – e che si adatti alle nuove possibilità offerte dalle tecnologie».
In cima a tutto quindi c’è domanda di flessibilità. E nell’era dello smart working, la flessibilità è certo migliorata, ma non come dovrebbe spiegano i dati del Workmonitor di Randstad. Il 76% dei lavoratori auspica flessibilità di orario, il 70% di luogo. Ma le aziende la offrono solo nel 50% dei casi per l’orario e nel 40% per il luogo. E così quasi tre dipendenti su dieci se ne vanno (il 27%, ma che sale al 49% tra i 18-24 anni). Il tempo libero è destinato in maggioranza alla famiglia (66%), poi per prendersi cura di sé (49% fisicamente, 19% salute mentale), per coltivare passioni (44%), viaggiare (34%), pensare al proprio sviluppo personale (24%), socializzare (12%). Più nel dettaglio ancora: il tempo libero è destinato in maggioranza alla famiglia (nel 66% dei casi), poi - in base alla ricerca Workmonitor di Randstad, a prendersi cura di sé (49% fisicamente, 19% salute mentale), coltivare passioni (44%), viaggiare (34%), pensare al proprio sviluppo personale (24%), socializzare (12%). Poi vengono le attività di welfare familiare (26%) o comunitario (13%).
Valori e ambizioni professionali corrono allo stesso modo, e pesano moltissimo nelle scelta di andarsene proprio perché entrambe sono spesso frustrate. La formazione continua per il 70% è rilevante, ma solo per il 65% il lavoro attuale offre le giuste opportunità di formazione: competenze utili a consolidare il ruolo attuale (nel 58%), sviluppare di competenze tecniche (53%), formazione digitale (44%), sviluppo soft skill (40%).
Percorsi personali e il ruolo del lavoro
Tra i diversi aspetti di questa rivoluzione, emerge innanzitutto l’incapacità del lavoro di soddisfare pienamente la realizzazione personale, in particolare tra i giovani. Per due terzi degli italiani (77%) «il lavoro è importante nella vita», ma meno della metà (49%) lo ritiene realmente in grado di offrire uno scopo. E per il 60% la vita personale e più importante di quella lavorativa. Oltre metà (53%) dichiara addirittura che se i soldi non fossero un problema sceglierebbe di «non lavorare affatto».
Il cambio di prospettiva riguarda soprattutto la generazione Z ( i nati fra il 1995 e il 2010, giovani quindi con meno di 25-27 anni). Oltre un terzo dei dipendenti (ben il 36%) ha già abbandonato un lavoro perché non si adattava alla propria vita privata, la percentuale sale al 51% tra i 18-34 anni. Il 38% degli italiani lascerebbe il lavoro se questo gli impedisse di godersi la vita, ma è pronto a farlo più di metà dei lavoratori dai 18 fino a 25 anni. Addirittura, il 23% dei dipendenti preferirebbe essere disoccupato che infelice sul lavoro, ma nella fascia 25-34 anni l’incidenza sale al 34%.
Un quadro a cui si contrappongono le risposte delle imprese per «rendere felici» i dipendenti. Nell’ultimo anno solo il 19% ha ricevuto un aumento di stipendio (contro il 36% nella media globale), il 23% ha ricevuto una nuova opportunità di formazione o sviluppo (25% globale), il 22% ha visto un aumento della flessibilità di orario di lavoro (26% globale) e il 26% di luogo (28% globale). E appena il 15% ha riscontrato maggiori vantaggi (contro il 22% a livello globale).
Il mercato del lavoro e le competenze
Il mercato del lavoro è caratterizzato da una grande richiesta e, allo stesso tempo, da una grande scarsità di competenze in ambito digitale. Una posizione aperta su cinque - spiega il report dell’Osservatorio Polimi - riguarda proprio professionalità digitali e la quasi totalità delle imprese, il 96%, ha difficoltà ad attrarre e sviluppare le competenze necessarie per affrontare la trasformazione digitale. Anche la riqualificazione della forza lavoro si rivela molto complessa. Nell’arco di 1-2 anni il 9% dei dipendenti dovrà essere riallocato perché non ha più le competenze adeguate per svolgere il proprio lavoro, percentuale che supera il 15% in più di un’impresa su dieci.
Nonostante questo, i lavoratori hanno una percezione della propria impiegabilità nettamente più positiva rispetto a quella delle organizzazioni. Il 74% dei lavoratori non è preoccupato di rimanere inoccupato per via dell’evoluzione della propria professione. Probabilmente a causa di una scarsa consapevolezza di come evolverà il proprio lavoro e delle capacità che saranno richieste in futuro. Ma anche su questo tema le imprese si dimostrano ancora una volta miopi, e viene affrontato ancora in modo poco strategico: meno del 30% mappano le competenze presenti al proprio interno, e ancora meno quelle che cercano di analizzare in modo strutturato le competenze chiave nel prossimo futuro su cui poi definire concrete azioni di sviluppo.
Direttrice dell’Osservatorio HR Innovation Practice
«Per migliorare benessere ed engagement bisogna agire in maniera prioritaria su due leve – afferma Martina Mauri, direttrice dell’Osservatorio HR Innovation Practice -: Da una parte aumentare la flessibilità, intesa soprattutto come responsabilizzazione e autonomia della persona nella gestione delle proprie attività lavorative. Dall’altra creare un ambiente aperto e inclusivo, capace di valorizzare al meglio le competenze dei lavoratori, ma anche i loro interessi e passioni personali, a cui dare piena cittadinanza all’interno dei confini organizzativi».
Nell’ambito tech le figure più ricercate sono quelle specializzate in cybersecurity, a seguito della migrazione in digitale di molte attività precedentemente svolte in analogico e della necessità di potenziare la protezione di dati e dispositivi per la crescita degli attacchi informatici durante la pandemia. Seguono, in forte crescita, gli esperti di Big Data e Analytics, per la necessità delle aziende di utilizzare grandi moli di dati per la presa di decisioni.
Gli investimenti digitali nell’HR – Nel 2022 gli investimenti in digitale a supporto delle iniziative HR continuano a crescere (+5%). Il 55% delle organizzazioni dichiara un aumento degli investimenti, il 38% non registra nessuna variazione. I processi in cui si registra l’aumento maggiore sono la formazione, l’onboarding e l’attrazione di nuovi candidati.
La Direzione HR italiana è però ancora poco data driven: soltanto il 14% delle organizzazioni ha un approccio maturo alla gestione e all’utilizzo dei dati. Si tratta di realtà che analizzano i dati provenienti dai processi HR attraverso reportistica in real time o predittiva, hanno al loro interno figure che si occupano dell’analisi dei dati e li utilizzano per la presa di decisioni nella maggioranza dei processi.L’utilizzo della leva tecnologica e dei dati per la presa di decisioni è fondamentale per l’evoluzione della Direzione HR che deve portare l’organizzazione a un modello di lavoro “sostenibile”, che metta al centro il benessere dei lavoratori, l’engagement e l’impiegabilità.
Sono questi, infatti, gli aspetti chiave su cui deve basarsi il nuovo ruolo di connected people care, un approccio alla gestione del capitale umano sempre più orientato alle esigenze specifiche di ogni persona, «capace di far leva sull’utilizzo di nuovi canali di relazione e di strumenti che raccolgono ed elaborano una moltitudine di dati provenienti da diverse fonti».
Group Ceo Randstad