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I giovani scelgono l’azienda, le imprese devono imparare a farsi trovare

Articolo. La ricerca di un posto di lavoro oggi inizia in quasi otto volte su dieci dalla verifica della reputazione dell’azienda e dell’imprenditore: attrezzarsi per comunicare e offrire la migliore immagine di sè è il primo passo per farsi conoscere, attrarre e conquistare i migliori

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La reputazione di un’azienda: primo criterio di scelta

Si parla sempre più oramai, con il dilagare dei social media e nel mare magnum dell’informazione specializzata e non, di Employer Branding. Secondo uno studio di LinkedIn il 75% dei potenziali candidati effettua ricerche sulla reputazione dell’azienda prima di presentarsi per una posizione, e quasi il 70% dei candidati non accetterebbe un’offerta da un datore di lavoro con una cattiva reputazione (fonte LinkedIn). La ridondanza di informazioni su qualsiasi argomento rinvenibili oramai dappertutto nel web - e qui andrebbe aperta una seria e profonda riflessione su quanto sia effettivamente facile trovare informazioni attendibili online – fa sì che nessun candidato di talento (in possesso quindi di un certo potere contrattuale) sia più disposto ad accettare la prima offerta di lavoro che gli venga proposta, soprattutto se l’azienda disposta ad assumerlo non abbia una immagine pubblica, una “reputazione” – quindi una employer branding awareness – accattivante e migliore di quella delle altre aziende concorrenti.

Universum Global, società svedese leader nell’Employer Branding, ogni anno redige statistiche sui brand più prestigiosi sotto questo punto di vista; Universum raccoglie informazioni da parte di studenti e professionisti per suggerire alle imprese come attrarre e trattenere talenti che meglio si adattino alla loro cultura aziendale e al loro scopo. In Italia nel 2018 l’azienda più desiderata dai potenziali candidati nel panorama lavorativo italiano, dopo le onnipresenti Google e Apple, è stataFerrero.

In un mondo oramai iper connesso, dove scegliamo un hotel o un ristorante solo in base alle valutazioni che ne offre il web, strumento che ha dilatato in modo estremo il concetto di concorrenza, portando realtà distanti centinaia di chilometri a combattere adesso per la medesima clientela sul medesimo mercato, anche le aziende devono attrezzarsi al meglio per offrire ai propri potenziali clienti la migliore immagine di sé stesse.
E se un tempo le aziende potevano permettersi di non andare tanto per il sottile nel portare avanti le proprie politiche di recruiting, certe di avere il coltello dalla parte del manico e di essere loro a determinare i prezzi di mercato, leader in genere ognuna del proprio piccolo segmento di territorio, adesso non è più così. L’abbattimento delle frontiere, il mercato unico, la conoscenza sempre più diffusa di una seconda lingua, la disseminazione estrema di ogni tipo di informazione, il drastico abbassamento dei costi del trasporto aereo, hanno reso sempre più padroni del proprio destino i giovani che si affacciano sul mercato del lavoro, o almeno quei giovani in possesso delle competenze tecnologiche che le aziende si affannano a cercare, senza trovarle o con poca voglia di costruirle, al proprio interno.
E così il giovane tecnico specializzato bergamasco che si affaccia sul mondo del lavoro oggi non avrà alcuna difficoltà a confrontare l’offerta ricevuta da un’azienda seppur prestigiosa del territorio con quella di un’altra azienda operante in Svizzera o in Germania o in altra parte dell’Europa, se non del mondo intero.

La costruzione dell’immagine aziendale

L’Employer Branding è l’insieme di tutte quelle azioni che un’azienda mette in atto al fine di costruire un’immagine aziendale che sia assolutamente coerente ed in linea con i propri valori, la propria mission, la propria identità; ciò con l’obiettivo di essere percepita dal mercato esterno come luogo di lavoro ideale, attrarre e fidelizzare i dipendenti di talento.

L’espressione employer branding (letteralmente “creare il marchio del datore di lavoro”) è stata coniata negli anni 90 come variante del più tradizionale customer branding, locuzione che si riferisce all’insieme di valori che l’azienda riesce ad associare al proprio marchio nella percezione del consumatore, attraverso la pubblicità e altri strumenti di comunicazione. Con l’employer branding l’impresa definisce, ma soprattutto comunica, ai potenziali prossimi collaboratori, quali siano le caratteristiche che rendono unico e peculiare quel posto di lavoro (fonte Wikipedia).

 

Si tratta in fondo di recuperare vecchi ma sempre validi concetti di marketing, che tutte le aziende usano da anni nei confronti del proprio target di potenziali clienti, declinandoli stavolta in una logica che metta al centro l’azienda stessa, la propria immagine, la propria “reputazione” pubblica.

È importante che l’immagine percepita dell’azienda sia il più possibile differenziata da quella delle altre aziende concorrenti sul medesimo mercato dei “talenti”, che abbia cioè dei “plus” che siano facilmente percepibili e ovviamente congrui e attrattivi per il target di riferimento (i già menzionati “talenti”).

Nella tabella qui sotto si possono vedere le tendenze nei prossimi anni e come efficaci politiche di employer branding potranno avere un fortissimo impatto sulle strategie di recruiting e retention da parte delle aziende.

 

E poiché la reputazione che ogni azienda possiede è fatta principalmente dell’immagine che di essa hanno sia i propri dipendenti che il mercato esterno, è chiaro che una efficace strategia di employer branding debba necessariamente partire dai dipendenti, i quali sono il principale cliente interno di ogni azienda e che come ogni cliente vanno posti al centro di ogni intervento organizzativo.

«I clienti non vengono per primi, I dipendenti vengono per primi Se ti prendi cura dei tuoi dipendenti essi si prenderanno cura dei tuoi clienti»
(Richard Branson, fondatore di Virgin Group)

Ovviamente un simile assunto porta a ridefinire totalmente l’importanza del ruolo della funzione delle risorse umane ed i confini stessi della propria attività: il direttore Risorse Umane si sposta sempre più dal “semplice” esercizio della responsabilità nel cercare nuove risorse, assumere e gestire al meglio il team aziendale, alla ben più complessa e strategica attività di promuovere al meglio il valore del proprio brand aziendale, curando in particolar modo la “customer experience” dei clienti più importanti di ogni azienda, ossia i propri dipendenti.

Ma se è vero che CEO e Direzione Risorse Umane siano in linea di massima i responsabili dell’implementazione di una efficace azione di employer branding, è altrettanto vero che senza la collaborazione totale e la piena disponibilità dell’intero management aziendale nessun intervento potrà avere successo. Se si vuole evitare che tutte le azioni intraprese per valorizzare l’immagine aziendale si traducano in un bluff e si ritorcano contro è assolutamente importante e fondamentale che tutta la struttura organizzativa sia coesa e orientata verso l’identico obiettivo.

Quando si crea la felice combinazione di una intera organizzazione orientata verso il medesimo obiettivo si parla solitamente di “commitment organizzativo”. In estrema sintesi possiamo definire il commitment organizzativo in termini di totale adesione e accettazione – da parte di ciascun lavoratore all’interno dell’azienda - dei valori e dei fini dell’organizzazione, massima disponibilità a sostenere sforzi considerevoli per l’organizzazione, forte desiderio di rimanere all’interno dell’organizzazione.

La necessità di coinvolgere il management

Ecco quindi perché è necessario che l’intero management sia adeguatamente coinvolto e reso protagonista: una parte sostanziale di una campagna di successo di employer branding presuppone infatti una gestione delle risorse umane illuminata, trasparente, meritocratica nel senso più nobile del termine, attenta alle esigenze di ogni singolo lavoratore e capace di armonizzarle con i bisogni e le prerogative dell’organizzazione.

Solo passando da queste necessarie priorità l’azienda potrà definirsi ed essere percepita all’interno ed all’esterno dei propri confini come “Employer of Choice” ossia come luogo di lavoro ideale per gli attuali dipendenti e per i potenziali candidati. Il raggiungimento di questo risultato si può considerare come l’obiettivo più importante in una strategia di employer branding.

 

Qui sotto la tabella creata da Tim Baker, consulente internazionale e autore del libro Attracting and Retaining Talent, becoming an Employer of Choice, che fotografa perfettamente come una organizzazione di lavoro dovrebbe interfacciarsi con il proprio personale

Sulla colonna di sinistra vengono indicati i principali valori condivisi dall’organizzazione; nella colonna centrale si indicano i comportamenti e gli atteggiamenti “virtuosi” del personale dipendente; nella colonna di destra infine sono elencati i comportamenti del datore di lavoro che generano maggiormente attrazione e coinvolgimento, in una parola “commitment”.

Una volta coinvolti pienamente e impregnati dei valori culturali aziendali saranno gli stessi dipendenti a promuovere il nostro marchio (brand ambassadors): sfruttando al meglio i loro social network e gli interessi personali l’azienda potrà espandere la propria rete social e stabilire la propria credibilità sul mercato.
Quando questo “arsenale” interno viene utilizzato al meglio è molto più facile attrarre potenziali candidati e influenzarli con il potere del proprio marchio.

 

Il concetto di Employer of Choice (letteralmente datore di lavoro di riferimento), che abbiamo visto essere fondamentale per un’azienda che aspiri a diventare un punto di riferimento nei confronti dei propri potenziali candidati non può non accompagnarsi ad un altro concetto, che identifica un’altra parte fondamentale di una corretta strategia di employer branding, ossia il concetto di Employee Value Proposition (EVP).

«L’employee value proposition, (letteralmente proposta di valore per il dipendente) è la somma complessiva di tutto ciò che le persone vivono e ricevono nell’ambito del rapporto di lavoro con un’azienda: la soddisfazione intrinseca per il lavoro, l’ambiente, la leadership, i colleghi, la retribuzione e altro ancora. È quello che fa l’azienda per soddisfare i bisogni, le aspettative e anche i sogni dei collaboratori».
The War of Talent, Ed Michaels – Helen Handfield Jones – Beth Axelrod, 2001, Harvard Business School Press, Boston, Massachusetts

Siamo sempre dalle parti della tabella riportata nei punti precedenti: tanto l’azienda sarà capace di gestire al meglio il proprio team, motivandolo e coinvolgendolo nella propria strategia di employer branding, tanto più tale forma di ingaggio sarà determinante nella percezione che di essa si creerà nei propri dipendenti e nel proprio mercato di riferimento.

 

Una EVP efficace costituirà una potentissima leva di marketing interno ed esterno: secondo il Talent Trends Report di Linkedin del 2016 solo il 29% degli intervistati ha lasciato il lavoro a causa di compensi e benefit insoddisfacenti. Per il resto, potremmo dire, ci pensa una buona EVP a fare la differenza….

L’EVP corrisponde agli elementi tangibili e intangibili che costituiscono il vantaggio competitivo di un brand sul mercato. Sul mercato del lavoro l’EVP fa sì che si crei una identificazione tra i valori del candidato e i valori aziendali, in modo tale che il contributo del singolo non sia esclusivamente guidato da un rapporto opportunistico di lavoro VS retribuzione.
Secondo il Corporate Leadership Council, per assumere dipendenti, un’azienda con un’EVP ritenuta insufficiente deve proporre premi retributivi più alti del 21% rispetto alle organizzazioni con una proposta di valore allettante.
Nell’immagine qua sotto si può avere una immediata rappresentazione grafica di una corretta ed efficace azione di EVP (fonte TalentLYFT)

 

Strettamente correlato all’immagine di Employer of Choice è poi il concetto di Employer Identity. Con il termine di employer identity, il cui significato italiano è assai intuitivo e chiaro si abbraccia l’identità vera e propria di un’azienda, i suoi valori, la sua mission, tutti i fattori che ne costituiscono la natura fondamentale.
Tutti questi elementi devono rappresentare ciò che l’azienda intende comunicare al proprio target: di fatto la employer identity è l’immagine desiderata che l’azienda vuole trasmettere a tutti i propri stakeholder; essa si distingue dalla employer image, che consiste invece nell’identità percepita da parte del mercato esterno. Risulta quindi chiaro come una azione di employer branding sarà tanto più efficace quanto employer identity ed employer image saranno uguali e sovrapponibili.

Nel grafico che segue cerchiamo di rappresentare come un corretto processo di employer branding, una volta avviato, si trasformi in un flusso continuo che non può mai avere un termine e che deve essere sempre alimentato dai valori e dalla cultura aziendale. Una bella sfida, senza dubbio.

 

Checklist

Chiudiamo questa analisi del concetto e delle strategie di employer branding con qualche suggerimento pratico per impostare correttamente un percorso di employer branding.
Ma soprattutto cerchiamo di evitare l’errore più comune, ossia quello di credere che l’employer branding sia materia di esclusiva competenza della Direzione Risorse Umane e di pochi altri adepti devoti alle oscure divinità del marketing.
Nessuna vera azione volta al miglioramento dell’immagine e della reputazione aziendale sarà mai coronata dal successo se non veicolata e diffusa all’interno dell’intero corpo organizzativo, coinvolgendo tutti i dipendenti e, soprattutto, rendendoli attori essi stessi e primi “brand ambassadors”.

  1. Investire sulla formazione continua del proprio personale

  2. Ascoltare i propri dipendenti, conoscere il potenziale di ognuno di loro e assecondarne lo sviluppo

  3. Coinvolgere l’intera organizzazione con una campagna massiccia di informazione a tutti i livelli

  4. Creare un sistema di regole chiare, trasparenti, il più possibile condivise, dove tutto ciò che attiene alla gestione del team (dalla pianificazione delle carriere alle politiche retributive, dal sistema di valutazione della performance a quello retributivo) sia reso “pubblico” e documentabile