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Filiere industriali, dalla pandemia uno shock che può far bene

bianca. Il lockdown ha costretto molte società a diversificare i fornitori. Nel Rapporto sui distretti di Intesa Sanpaolo l’analisi di come si stanno ridisegnando le geografie produttive italiane.

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Un sistema integrato

Durante la pandemia il sistema industriale italiano ha sofferto duramente, ma già dallo scorso autunno ha iniziato a riprendersi e, specialmente nelle aree più industrializzate del paese, ha mostrato una capacità di resilienza superiore alle previsioni.

Una ragione di tale forza risiede nella sua forte integrazione, ossia nel fatto che i territori produttivi italiani presentano un’elevata varietà di imprese, che tendono a generare delle filiere efficienti e versatili. La gravissima crisi che ha bloccato per mesi moltissime fabbriche, oltre ai danni pesanti che ha provocato, ha indirettamente dato una spinta decisiva ad un’ulteriore diversificazione e, in prospettiva, alla riqualificazione del tessuto produttivo nazionale.

È uno dei molti spunti che emergono dal corposo Rapporto annuale sui distretti industriali italiani predisposto dalla direzione studi e ricerche di Intesa Sanpaolo. Si tratta di uno studio che permette di fotografare la situazione reale delle imprese, anche grazie alla ricca anagrafe del primo gruppo bancario italiano, che conta oltre 175.000 aziende, delle quali gli analisti possono studiare le dinamiche vive, partendo non solo dai bilanci ma anche dai milioni di transazioni che esse generano. Il rapporto di quest’anno si concentra sulla reazione alla pandemia da parte dei distretti e più in generale delle filiere di fornitura per coglierne i fattori di forza e le criticità da superare nei prossimi mesi. A questo tema è dedicato un intero capitolo, tra i più approfonditi dello studio, che si incarica di misurare gli “effetti della pandemia sulle catene di fornitura nazionali”. Gli analisti fotografano innanzitutto la situazione precedente al contagio, raffigurando l’andamento delle relazioni di approvvigionamento dal 2016 al 2019, per poi concentrarsi sui fenomeni generatisi nel 2020, l’anno che più ha colpito il nostro paese, validandoli anche con i risultati dell’indagine periodica che Intesa Sanpaolo svolge sulla sua estesa rete commerciale.

Il Rapporto sui distretti di Intesa Sanpaolo permette di fotografare la situazione reale delle imprese, anche grazie all’anagrafe di 175.000 aziende che la banca possiede

Un assetto che era già in movimento

Si scopre che le imprese italiane si sono presentate alla crisi pandemica del 2020 con un assetto che era già in movimento, seppure in misura non marcata. Le società italiane hanno rapporti consolidati con alcuni fornitori “strategici” che dal 2016 al 2019 hanno assorbito in media l’82% degli acquisti (tab.1), ma la percentuale è scesa nel triennio dall’81% al 78%, segno del fatto che le aziende avevano iniziato a differenziare anche gli approvvigionamenti essenziali.

 

Il dato è stato più accentuato per le voci che riguardano le tecnologie digitali e la ricerca e lo sviluppo (tab.2), il cui peso assoluto è cresciuto, determinando la necessità di trovare anche nuovi interlocutori, in grado di rimanere al passo della velocità di evoluzione di quel tipo di prodotti e servizi.

 

Il risultato è stato un leggero ampliamento del numero totale dei fornitori da parte delle singole aziende, che è passato da una media di 17 a testa nel 2016 a 18 nel 2019, ma con numeri anche dieci volte superiori nelle grandi società rispetto alle piccole.

La crescita dei nuovi fornitori nel lockdown

L’irrompere del Coronavirus lo si legge proprio partendo dall’allargamento del numero dei fornitori, che nel 2020 è salito mediamente per ciascuna azienda di 3,6 unità (tab.3), con un picco di 4,4 per il settore agro-alimentare.

 

La media è trainata dalle grandi imprese che hanno un valore di 12,9 nuovi fornitori ciascuna. Un dato che è ancor più evidente se si considera la percentuale delle società che hanno attivato nuovi fornitori nel 2020: per le grandi imprese siamo al 98%, contro un 61% delle micro. La grande impresa si è dimostrata perciò il soggetto leader anche nelle dinamiche di rinnovamento delle catene produttive.

Entrando nel merito della tipologia produttiva (tab.4), si vede che la maggior differenza tra i settori è tra i beni intermedi (77% delle aziende) e il sistema moda (70%), mentre gli altri comparti stanno al di sopra del 73% di società che hanno attivato nuovi fornitori nel 2020.

 

Il Rapporto di Intesa Sanpaolo scende molto nel dettaglio riguardo ai beni e servizi acquistati nel 2020 in ciascun settore, classificandoli per il peso degli importi e del numero delle operazioni a seconda della distanza dall’impresa acquirente (entro i 50 km, tra i 50 e i 100 km, oltre i 100 km).

Riassumiamo. La filiera agro-alimentare si rivolge prevalentemente a grossisti che per metà si trovano oltre i 100 km. Ma vi è una differenza significativa tra le aziende che fanno parte di distretti specializzati e le altre: nelle prime si attivano nuovi fornitori più vicini che nelle seconde.

Il sistema casa, dal quale viene poi estratto il distretto del mobile, tende ad rimodulare filiere più ravvicinate, soprattutto per la materia prima (mobili, prodotti in legno, ferramenta), ma anche i trattamenti, i lavori di meccanica e i macchinari.

I nuovi fornitori attivati nel settore dei beni intermedi si concentrano soprattutto nell’energia per le aziende distrettuali e nei grossisti di prodotti chimici per le altre imprese.

Nella metalmeccanica si sono aggiunti nuovi acquisti di macchinari da produttori o grossisti o lavorazioni meccaniche, con una prevalenza relativa dei fornitori più vicini.

Il sistema moda ha dovuto sopperire alle chiusure imposte alle produzioni interne alla filiera: soprattutto per l’abbigliamento. Questo è un settore dove si nota di più la differenza tra imprese che appartengono a distretti specializzati e le altre: le prime hanno cercato nuovi fornitori più vicini.

La distanza è un fattore che distingue anche le dimensioni delle aziende: le più grandi tendono a cercare nuovi approvvigionamenti più lontano.

La distanza è un fattore che distingue anche le dimensioni delle aziende: le più grandi tendono a cercare nuovi approvvigionamenti più lontano.

Si è rinunciato a fornitori strategici meno rilevanti

Esaminate le nuove tipologie di acquisti ci chiediamo per converso: a quali fornitori “strategici” hanno rinunciato le imprese durante la pandemia? La risposta varia innanzitutto a seconda delle dimensioni: le società più piccole hanno interrotto acquisti essenziali per importi percentualmente più rilevanti, rispetto alle maggiori, e il fenomeno si è avvertito di più nei distretti.

Se poi si considera la totalità delle aziende per settore (tab.5), si vede che poco meno della metà ha dovuto rinunciare ad almeno un fornitore strategico, con una cifra leggermente inferiore (44%) nell’agro-alimentare.

 

Leggendo i dati in profondità si vede però che la stragrande maggioranza delle aziende (73,5%) i fornitori a cui hanno dovuto rinunciare avevano un peso intermini di transazioni inferiore al 10% del totale movimentato, il che significa che si è trattato di rapporti meno rilevanti di quelli che si sono mantenuti attivi. Lo si evince anche dal numero medio dei fornitori strategici abbandonati (tab.6): 1,8. Una cifra molto inferiore a quella media dei nuovi fornitori (tab.3): 3,6.

 

Il che significa che le imprese, durante la pandemia, hanno rivisto, ma non stravolto le politiche di approvvigionamento, con una tendenza evidente ad ampliare il numero dei fornitori e a sostituirli in acquisti meno rilevanti per il core business.

Le imprese, durante la pandemia, hanno rivisto, ma non stravolto le politiche di approvvigionamento

Il Rapporto di Intesa Sanpaolo fornisce anche in questo caso una classifica dettagliata della tipologia di acquisti da fornitori strategici che le società non hanno attivato: si tratta per quasi tutti i settori di servizi impiegati nel processo produttivo o a supporto della distribuzione e del packaging.

Il Covid ha rafforzato il “localismo” delle filiere

A questo punto è interessante leggere le conclusioni del capitolo considerato nel Rapporto, alla luce di un’analisi, pubblicata su lavoce.info di Valeria Gattai, professore di economia applicata all’università Bicocca di Milano. L’articolo parte dall’esame dei risultati di una recente ricerca condotta su un campione di oltre 200 imprese manifatturiere lombarde che ha indagato le dinamiche dei rapporti di fornitura in un’ottica più generale rispetto al Rapporto di Intesa, collocandolo in una prospettiva storica: nell’economia mondiale, fino agli anni Novanta i confini degli approvvigionamenti erano prevalentemente locali, mentre a partire dagli anni Duemila, sono diventati globali.

In Italia invece, rivela la ricerca della Bicocca, «i produttori di beni finali preferiscono utilizzare input (prodotti e servizi, ndr) locali anziché importati». Solo le imprese più produttive si rivolgono all’estero. Per tale ragione il lockdown che ha bloccato le aziende italiane lo scorso anno ha colpito duramente il sistema industriale nazionale, perché sono venuti a mancare fornitori essenziali delle filiere. Ma contemporaneamente la consuetudine dei rapporti ha generato un supporto nei confronti di questi ultimi ritenuto dagli intervistati utile per far fronte alla pandemia.

La crisi ha perciò rafforzato la localizzazione nazionale delle catene.

Lo conferma anche il Rapporto di Intesa Sanpaolo che registra due fenomeni apparentemente contraddittori: la ricerca di fornitori locali, piuttosto che internazionali, e un leggero allungamento della loro distanza dal cliente, con una media che passa da 154 a 157 km tra il 2020 e il 2019 .

 

Come si spiegano questi dati? «Nella prima parte del 2020 – ci dice Fabrizio Guelpa, responsabile Industry & Banking della direzione studi e ricerche di Intesa Sanpaolo, tra i coordinatori del Rapporto- per diverse settimane molte economie mondiali si sono quasi fermate, creando colli di bottiglia e difficoltà negli approvvigionamenti che sono tuttora in corso. Le imprese italiane hanno così adottato un mix articolato di strategie: per questo motivo le evidenze di breve periodo possono essere contrastanti. Da una indagine condotta tra ottobre e dicembre su circa 3.100 gestori di Intesa Sanpaolo emerge che nel tessuto produttivo italiano tende a prevalere la revisione delle politiche di approvvigionamento a favore di fornitori della regione o nazionali. Seguono per importanza la diversificazione o l’ampliamento dei mercati di approvvigionamento e il potenziamento del magazzino».

Uno studio dell’Università Bicocca sostiene che in futuro le catene di fornitura saranno più locali e meno globali

Ciò significa che sta cambiando la geografia del sistema industriale italiano? L’indagine della Bicocca ha chiesto agli imprenditori intervistati quale sarà la loro strategia di approvvigionamento in futuro. La risposta è stata che se modifiche dovranno esserci saranno a totale beneficio degli acquisti in Italia.

 

Al punto che Gattai conclude: «Le catene del valore sopravvivranno alla pandemia, ma saranno meno globali».

L’innovazione deve diventare strategica

Il Rapporto di Intesa Sanpaolo è più prudente: ritiene che si debba attendere l’evoluzione dei prossimi mesi e osservare le dinamiche nelle relazioni tra imprese nei prossimi anni per capire se quanto si è verificato nel 2020 è stato un fenomeno temporaneo oppure se sia stato l’inizio di una riorganizzazione della struttura produttiva a vantaggio del sistema italiano.

Il punto non è tanto la geografia, quanto se la scossa inferta dal Covid abbia attivato nell’insieme delle imprese processi strutturali di ammodernamento. «Diversificare i propri fornitori –sostiene Guelpa- consente di ridurre il rischio e il grado di dipendenza. L’importante è che queste forniture diventino strategiche, attivando ad esempio vere e proprie partnership nei processi di innovazione».

Nel Rapporto in effetti si sottolinea come gli investimenti in Ict e ricerca e sviluppo, pur cresciuti dal 2016, sono ancora insufficienti. «Il manifatturiero italiano –spiega l’analista- è ben posizionato rispetto ai competitor europei in termini digitalizzazione dei processi produttivi grazie anche alla spinta ricevuta da iper e super ammortamento. Resta invece un ampio divario da colmare in termini di digitalizzazione delle vendite (e-commerce e siti web) e competenze digitali, soprattutto da parte delle imprese più piccole. Solo così si potranno cogliere appieno i benefici delle tecnologie digitali in termini di efficienza, ottimizzazione dei processi, riduzione degli scarti di lavorazione, conoscenza e vicinanza al mercato».

Si giunge perciò a uno dei temi chiave dello sviluppo industriale italiano. La digitalizzazione è diventata un fattore discriminante anche per la scelta dei fornitori. E qui, conclude Guelpa, «è necessario un cambio di passo degli investimenti nel digitale da parte delle pmi italiane. Le risorse finanziate dal Recovery Fund e stanziate dal Pnrr per digitalizzazione, innovazione e competitività del sistema produttivo potranno contribuire a eliminare alcuni freni all’investimento incontrati in passato. Anche gli interventi previsti in ambito di istruzione e formazione e, trasversalmente, rivolti ai giovani, costituiscono una buona opportunità per lo sviluppo di competenze digitali nel mercato del lavoro».

«È necessario un cambio di passo degli investimenti nel digitale da parte delle pmi italiane»
Fabrizio Guelpa

Responsabile Industry & Banking della Direzione Studi e Ricerche di Intesa Sanpaolo

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Bergamo ora può attrarre nuovi investimenti

Con Fabrizio Guelpa, responsabile Industry & Banking della Direzione Studi e Ricerche di Intesa Sanpaolo, tra i coordinatori del Rapporto sui distretti industriali, abbiamo fatto un approfondimento sulla provincia di Bergamo, tra le più colpite dal Covid nel primo lockdown del 2020.

Quanto ha inciso la pandemia sul sistema produttivo bergamasco?

Da un’indagine interna al Gruppo Intesa Sanpaolo condotta tra giugno e luglio con il coinvolgimento dei gestori della relazione commerciale con la clientela imprese, il tema delle interruzioni di fornitura risultava ancora presente nella provincia di Bergamo per un rispondente su cinque.Per cercare di verificare come ha risposto il tessuto produttivo abbiamo sviluppato delle analisi basate sui flussi di pagamento che le nostre imprese clienti realizzano attraverso la nostra rete commerciale: queste informazioni ci permettono di ricostruire le filiere di fornitura e la localizzazione dei fornitori. In particolare, per analizzare quanto avvenuto nel 2020 ci siamo concentrati sulle relazioni cliente-fornitore di nuova costituzione che non si erano realizzate nei quattro anni precedenti. È interessante osservare come per le imprese della provincia di Bergamo il tema della prossimità si mostri con una rilevanza più marcata rispetto alla media italiana: la metà delle transazioni di nuova costituzione in termini di importi sono infatti riconducibili a soggetti localizzati in un raggio di 50 chilometri, mentre questa percentuale a livello nazionale scende al 42%. I settori manifatturieri per i quali hanno prevalso le forniture di prossimità sono il tessile, i prodotti in metallo e la gomma-plastica.

C’è un ridisegno della “geografia” della vocazione territoriale del sistema produttivo bergamasco?

E’ presto per rispondere a questa domanda. Ci vorrà tempo per capire se lo shock pandemico modificherà in misura permanente la geografia industriale italiana. E’ però certo che si possono aprire interessanti opportunità per le nostre imprese e, più in particolare, per il tessuto produttivo bergamasco. Territori che come Bergamo hanno un’alta vocazione industriale possono attirare nuovi investimenti con l’obiettivo di evitare che in futuro si verifichino nuovi blocchi della produzione in Europa a causa della mancanza di semilavorati o beni intermedi provenienti dall’Asia.