Grandi dimissioni, che da fenomeno volontario di abbandono del posto di lavoro si sta trasformando in nuovo del mercato del lavoro: ma ci si chiede anche che fine hanno fatto coloro che si sono dimessi? Dagli Usa, paese da cui tutto il fenomeno è partito, sembra che ora si stia assistendo al trend contrario: si sta registrando una sorta di “pentimento” per aver lasciato il vecchio posto di lavoro. In un articolo di Forbes, che riporta un sondaggio di Joblist , sottolinea ironicamente che non sempre la «strada nuova risulta migliore della vecchia». Sono stati migliaia infatti gli americani che in pochi mesi sono fuggiti dalle loro aziende. Ma ora stanno iniziando a guardarsi indietro e a considerare se effettivamente sia stata la mossa giusta.
Secondo il sondaggio sulla situazione del mercato del lavoro diffuso da Joblist e realizzato negli ultimi tre mesi su un campione di 15.000 persone in cerca di occupazione, un lavoratore su quattro (26%) che ha lasciato il posto di lavoro afferma infatti di essere dispiaciuto della decisione. Perché il pentimento? Il motivo più frequentemente indicato, il 40% delle volte, è che «si sono licenziati senza avere una soluzione professionale su cui ripiegare e hanno trovato più difficoltà del previsto nel trovare una nuova occupazione».
L’America, almeno in questo, non è l’Italia. Una motivazione e un esito esattamente contrari a quanto invece sta succedendo nel nostro paese. L’analisi che ne fa Francesco Armillei, economista, in un articolo per il sito lavoce.info, rileva che le dimissioni di massa dalle nostre aziende hanno dato un impulso importante – quasi inaspettatto - al nostro mercato del lavoro. Tanto che forse più che «great resignation» si potrebbe parlare di «great reshuffle», cioè di «grande rimescolamento con spostamenti di lavoratori alla ricerca di nuove e diverse posizioni dopo le dimissioni». Ricerca che va sempre a buon frutto: un posto di lavoro lo si trova.
Dalle Grandi Dimissioni al Grande Rimescolamento
Il fenomeno era stato evidenziato anche dall’Inps, la settimana scorsa nella sua relazione annuale, evidenziando i dati sulle comunicazioni obbligatorie: i lavoratori che avevano rassegnato volontariamente le dimissioni avevano trovato un nuovo posto «più rapidamente e più frequentemente» e si spostano in un settore o in una professione diversi da quelli di provenienza. Insomma, da Grandi Dimissioni al nuovo fenomeno di un Grande Rimescolamento, senza però arrivare a parlare, avverte Armillei nella sua analisi, di una “rivoluzione” sul fronte del mercato del lavoro.
Un nuovo e maggiore dinamismo del mercato del lavoro, questo magari sì. Anche se ci si riferisce al mercato di oggi. Sul mercato di domani le nubi grigie (forse anche nere) continuano a essere una minaccia. Competenze che sempre più mancano e imprese che cercano profili e che ormai in quasi cinque ricerche su dieci non trovano. Poi c’è il mismatch che allarga sempre più la sua distanza fra preparazione professionale in uscita e il fabbisogno reale delle aziende, a sottolineare quanto ancora i due mondi (sistema scuola, istituzioni formative e imprese non riescano a proprio a connettersi).
Il vasto sistema e intero mondo delle competenze professionali, tecniche, trasversali (le soft skill) stanno affrontando un nuovo momento di grandi domande. Tutto sembrerebbe finito quasi nuovamente sotto attacco, tanti i cambiamenti annunciati a brevissimo e tanti i rischi di disallineare sempre più mercato del lavoro e sistema delle imprese.
Lavoro e competenze, nuovo patto in Europa
I segnali e le prove reali di questa nuova trasformazione sono in arrivato da diversi fronti. L’ultimo, ma solo in ordine di tempo, è arrivato ieri dall’Europa. Con il sostegno della Commissione Ue, associazioni, imprese, organizzazioni, sindacati, università, erogatori di formazione e federazioni nazionali dell’Europa hanno sottoscritto un nuovo partenariato per le competenze nell’ecosistema digitale. Questo nuovo patto ha un solo obiettivo urgente, il miglioramento delle competenze e la riqualificazione professionale dei lavoratori in modo da attirare un maggior numero di persone verso l’industria digitale. Che annaspa, sotto questo profilo.
Lo dicono, ed ecco un altro segnale, i risultati dell’ultimo Osservatorio Stem “Rethink Ste(A)m education – A sustainable future through scientific, tech and humanistic skills” (allegato a questo articolo) reso pubblico dalla Fondazione Deloitte in cui si lancia rafforzato l’ulteriore allarme sui ritardi del nostro Paese nelle competenze oggi forse più urgenti, le cosiddette materie Stem (science, technology, engineering and mathematics): solo il 24,5% degli studenti e il 15% delle studentesse, fotografa lo studio, si laurea in discipline scientifico-tecnologiche.E così il 44% delle imprese ha difficoltà a trovare candidati. Nel rileggere questi dati e nel vedere l’emergenza che ci sta dietro a questi risultati, qualcuno ha addirittura iniziato a parlare del bisogno di un nuovo “Stemanesimo”, neologismo quanto meno perfettamente in linea con il perimetro della nuova “emergenza”. Ma non basta ancora come allarme.
Competenze di oggi, obsolete già nel 2025
Proprio l’Onu, nel celebrare lo scorso 15 luglio, la Giornata mondiale delle competenze dei giovani, ha voluto alzare l’attenzione sull’importanza strategica dell’istruzione e della formazione sottolineando che «entro il 2025 il 40% delle competenze e delle core skill di oggi sarà obsoleto e sarà sostituito da nuove competenze». Per questo il lifelong learnig secondo il report delle Nazioni Unite è fondamentale per stare al passo con la velocità dei cambiamenti dell’industria introdotti dalle innovazioni tecnologiche e scientifiche. «Saranno proprio queste competenze nuove – rimarca il report Onu – le leve per far ripartire anche il futuro dei giovani. Le skill rivestiranno un’importanza strategica per l’occupazione».
Il mondo dell’impresa e del lavoro però evolvono velocemente, il fabbisogno di profili professionali Stem aumenta a un ritmo anche più elevato. La risposta a questa domanda manca quasi del tutto: in Italia il 44% delle imprese ha difficoltà a trovare candidati con formazione Stem. Non è un problema solo italiano: i laureati Stem, emerge dall’Osservatorio Fondazione Deloitte, continuano a essere meno del 30% nei paesi europei (Italia, Spagna, Malta, Grecia, UK, Francia e Germania), e in Italia solo il 24,5% dei laureati è Stem, ancora meno fra le donne, ferme al 15%.
Presidente Fondazione Deloitte
«Il mondo del lavoro sta cambiando in fretta e le competenze Stem saranno cruciali per le nuove generazioni - spiega Guido Borsani, presidente di Fondazione Deloitte -. Nonostante questo trend sia chiarissimo, è ancora limitato il numero di giovani, e soprattutto di ragazze, che sceglie un percorso di studi Stem. Continuiamo a vederlo a distanza di due anni dal primo Osservatorio, ancora oggi in cui abbiamo allargato il campo di osservazione ad altri Paesi europei».
L’indagine scatta la fotografia sul ritardo nella formazione. Ma sottolinea anche come, di fronte a una domanda di competenze tecnico-scientifiche che cresce, l’educazione terziaria tecnico-scientifica è ancora scelta da una minoranza degli studenti, italiani ed europei. Solo il 26% del totale dei laureati e circa il 15% delle donne possiede un titolo di studio di questo tipo. Una tendenza rimasta inalterata negli ultimi 5 anni, in cui solo la Germania spicca per una più elevata percentuale di laureati Stem: quattro laureati tedeschi e due laureate tedesche su dieci hanno un titolo di studio tecnico-scientifico.
I contorni di criticità di questa fotografia sono diversi. E il perimetro del problema quando si tocca il tema dell’orientamento, si allarga fino a comprendere fra gli ostacoli nel percorso verso le Stem, i gradi di istruzione inferiore della scuola, limiti che poi si riflettono anche nel passaggio dalla scuola superiore all’università. Tale transizione è considerata «difficile» da almeno il 30% dei giovani: il 41,6% degli studenti e il 40,9% dei Neet (giovani che non trovano lavoro né lo cercano attivamente), infatti, lamentano la mancanza di adeguate figure di riferimento per l’orientamento su quale indirizzo di studi o di lavoro scegliere.
Giovani senza orientamento alla scelta
E così si torna al punto più controverso, in cui molti ragazzi rimangono intrappolati da stereotipi proprio per mancanza di modelli reali a cui ispirarsi e su cui riflettere: in assenza di una “guida”, infatti, i giovani scelgono soprattutto in base alle indicazioni dei familiari, che spesso, però, si basano sull’esperienza di conoscenti o parenti e non su una oggettiva informazione relativa al mercato del lavoro o sul possibile contributo che potrebbero dare alla società.
Primo bias a frenare il tutto è che le materie Stem sono più difficili e richiedono più tempo e risorse economiche. Ma poi anche l’idea che siano materie non adatte a tutti e, in particolare non certo alle ragazze. La ricerca evidenzia chiaramente l’origine di questo stereotipo, prima causa che alimenta un gender gap duro da abbattere: il 50% delle studentesse riconosce la presenza di stereotipi di genere che disincentivano le donne verso studi Stem, mentre si scende al 24% se gli intervistati sono maschi. Con questa altra anomalia messa in evidenza dall’Osservatorio. In tutti i paesi le donne rappresentano dal 50% al 60% del totale dei laureati in generale. Ma mentre nelle università si rileva una presenza sempre maggiore di donne laureate, le facoltà Stem rimangono a prevalenza maschile.
Intanto accelerano e a grandi passi le transizioni digitali ed energetiche. Il rischio è che l’assenza di “candidati Stem” possa compromettere lo sviluppo di soluzioni adeguate a sostenere questi passaggi epocali per l’industria, ma anche sociale ed economica. Così il 55% delle imprese ha già avuto difficoltà a trovare candidati giusti per ricoprire posizioni Ict. E il 44% delle aziende italiane per reperire profili professionali Stem.
Un vuoto a cui si tenta di ricorrere ai ripari anche in ambito europeo. Il patto per le competenze ha un obiettivo già fissato, uno dei tre obiettivi sociali dell’Ue fissati nel pilastro europeo dei diritti sociali: entro il 2030 almeno il 60% dei lavoratori europei partecipi ogni anno ad attività di formazione.
L’appello dell’Europa, più formazione digitale
L’iniziativa europea quindi prende in considerazione i lavoratori, la sfera delle imprese e dell’economia. Ma anche i semplici cittadini – è l’appello della Commissione Ue – sono chiamati ad acquisire le necessarie competenze digitali, anche in partenariato con le imprese, per contribuire agli obiettivi delle transizioni digitale e verde dell’economia europea.
L’auspicio europeo è che da qui ci si possa «ispirare nell’ecosistema digitale o in qualsiasi altro ecosistema industriale per trasformare le opportunità digitali in modelli imprenditoriali di successo a beneficio sia dei cittadini sia delle imprese - ha sottolineato Nicolas Schmit, commissario per il Lavoro e i diritti sociali -. Il patto vuole infatti rafforzare le competenze digitali dei lavoratori europei, consentendo loro di navigare in un mercato del lavoro in continua evoluzione».
Solo per completezza di cronaca va segnalato che questo nuovo patto rientra fra gli impegni assunti in altri ecosistemi industriali, e fa parte del patto per le competenze, una delle iniziative dell’agenda per le competenze per l’Europa. Il nuovo partenariato collaborerà poi strettamente con altri partenariati esistenti in altri settori in cui le competenze digitali svolgono un ruolo cruciale. Punterà a sinergie e collaborazione con altre iniziative esistenti (come la coalizione per le competenze e le occupazioni digitali o la rete dei poli europei dell’innovazione digitale) per utilizzare le migliori pratiche e gli orientamenti esistenti come fonte di ispirazione per il partenariato.