Il valore delle imprese inclusive
La capacità di inclusione è un fattore competitivo. Le imprese più inclusive “ispirano più fiducia”, migliorano con gradi significativi il loro livello organizzativo. Registrano vantaggi nei processi di internazionalizzazione e nelle strategie commerciali. Riescono a crescere di dimensione sia dentro al controllo di società più grandi o parte di multinazionali, sia restando nel proprio ambito di autonomia . Due ricerche – una di Symbola e di Unioncamere, l’altra di Ipsos - hanno di nuovo sottolineato quanto le «imprese coesive siano fortemente caratterizzate da un forte capitale sociale positivo: investono nella qualificazione del personale e sul welfare per le famiglie» per citare solo due aspetti.
Ma c’è anche un’ulteriore dimensione su cui puntano, e ancora poco presa in considerazione: condividono i loro progetti «con istituzioni sociali, partecipano alle associazioni di categoria, sostengono associazioni di volontariato per iniziative di sviluppo territoriale, ambientale, sociale. Hanno intensi rapporti con scuole e università per ricerca, formazione, alternanza scuola-lavoro».
Tutte dimensioni che rimettono e rilanciano al centro dell’attenzione e delle analisi due facce della stessa medaglia, non proprio nuove: i giovani e il mercato del lavoro. O, sarebbe meglio dire - come viene definito dall’ultima ricerca Adapt-Unipolis - il rapporto fra giovani e non-mercato del lavoro . La novità di queste ricerche, invece, è la capacità di andare più a fondo e rilanciare il valore di tutte quelle forme di esperienza lavorativa o di condizione occupazionale che intercettano «il rapporto tra persona e società con particolare riferimento all’impiego delle proprie attitudini, capacità, competenze, tratti di personalità per intervenire nella realtà».
Per esempio, il volontariato. Oggi in media almeno 6 giovani fra i 15 e i 29 anni svolgono un’attività di volontariato. Il 63,4% dei giovani lo fa in Lombardia e il dato rilevante è che l’89,6% di questi giovani ritiene che «il volontariato sia un’occasione per sviluppare competenze di vario tipo , soprattutto una capacità di pianificare e organizzare, e di grande flessibilità»
L’indagine Unipolis-Adpat va ancora più a fondo.
È evidente, primo dato, che la sfera di prime esperienze lavorativa che intercettano i giovani è molto più ampia di quella a cui si è tradizionalmente ancorati quando si pensa a un rapporto di lavoro giovanile, anche se prima esperienza. Dentro a questa gamma di esperienze, secondo dato, non rientrano o non coincidono necessariamente con il lavoro tout court, ma «intercetta anche altre forme nel corso delle quali vengono comunque costruite le condizioni per una positiva partecipazione al mondo del lavoro in età adulta».
Professionalità, abilità, competenze di partenza, ma sviluppo ed esercizio di queste abilità possono essere espresse o coltivate dai giovani anche in contesti diversi da quello professionale e, allo stesso modo se adeguatamente valorizzate e tutelate «possono rappresentare “ponti” verso l’integrazione lavorativa e sociale e la realizzazione personale».
Le diverse forme di volontariato, dentro a una cornice di espressione di competenze e abilità personali, oggi rappresenta e si impone come una delle tante valide forme di transizione di un giovane verso il lavoro e il mondo dell’impresa. Lo dicono gli stessi giovani, al fine della loro esperienza. Quel periodo e le competenze sviluppate o acquisite vengono percepite come utili per il percorso di studio per il 43% di loro, per la ricerca di un’occupazione (nel 34% dei casi) e per affinare attitudini per lo svolgimento di un lavoro per quasi tre giovani su dieci . Non è un caso se il Pnrr (il Piano nazionale di ripresa e resilienza), alla missione 5 «Inclusione e Coesione» prevede di potenziare il servizio civile universale «stabilizzando i posti annui disponibili», e di aumentare gli interventi sulle politiche attive del lavoro e sulla formazione a vantaggio delle nuove generazioni.
Una forma di crescita professionale
Strumenti in più di formazione e di transizione scuola-lavoro. Dopo i lavori stagionali, i contratti a termine, le forme di collaborazione continuative, i contratti a tempo determinato e quelli a chiamata, passando dai contratti di ingresso come l’apprendistato e i tirocini, fino a vere e proprie forme di lavoro nero, e che spesso fanno del mercato del lavoro una vera e propria zona grigia dell’occupazione giovanile - ne abbiamo parlato in questo approfondimento - , anche i rapporti e le tante espressioni di volontariato vengono riconosciute come occasioni di «sviluppo di competenze trasversali spendibili dai giovani sul mercato del lavoro e con ricadute dirette sulla crescita dell’occupabilità».
Il Pnrr darà un impulso in questa direzione, e lo riconosce al pari dell’apprendistato duale (formazione scolastica e pratica nei luoghi di lavoro), come strumento in grado di aumentare l’occupabilità giovanile e di ampliare la disponibilità delle soft skill. Del resto, da qualche decennio a questa parte, alcuni teorici del volontariato hanno cominciato a sostenere che «questo sia più di una semplice leisure activity, ma una vera e propria forma di unpaid work, come tirocini o praticantati. E che sarebbe il momento «di riconoscergli una dignità paragonabile al lavoro retribuito».
I dati della ricerca Adapt-Unipolis dimostrano non solo tutta questa potenzialità. Ma anche quanto questa esperienza sia una forma di investimento nella crescita professionale di un giovane. Il potenziale del volontariato, secondo l’analisi della ricerca, si manifesterebbe nella possibilità di sviluppare alcune delle competenze più richieste oggi dai recruiter e dagli HR aziendali, le cosiddette soft skills,abilità trasversali come le capacità comunicative e relazionali, così come capacità di problem solving e gestione della complessità. Non solo: si vivono situazioni che consentono di implementare una rete di conoscenze professionali e contatti diffusi sul territorio poi utili in vista di un futuro inserimento lavorativo.
Secondo questi ultimi dati disponibili, infatti, a sei mesi dalla fine del servizio civile o dell’attività di volontariato svolto con Garanzia Giovani, un giovane risulta occupato (33,5%), di cui il 22,5% nel posto dove ha prestato servizio. Che si è dunque dimostrato fondamentale per aumentarne l’occupabilità.
Elevata anche la soddisfazione tra i giovani per l’esperienza svolta: il 94,7% degli intervistati rifarebbe il servizio civile, e l’81% ritiene di aver acquisito competenze utili per il mondo del lavoro.
Ancora. Oltre ad aver acquisito una capacità di pianificare e organizzare (54,94%), flessibilità-adattabilità (54,72%), la ricerca ha evidenziato che le attività di volontariato hanno sviluppato una maggiore capacità comunicativa (43,13%), una resistenza allo stress (41,63%), capacità di problem solving (39,91%), fiducia in se stessi (38,20%), capacità di lavorare in team (30,69%), empatia (30,47%). Tutti i giovani hanno poi dichiarato che le competenze acquisite durante le esperienze di volontariato si sono rivelate utili per il proprio percorso di studio (43,33%), nella ricerca di un’occupazione (34%), e nello svolgimento dell’attuale lavoro (23,26%).
Imprese, le criticità e il mercato del lavoro
Abilità e nuove capacità che altri giovani hanno dichiarato di aver acquisito nella stessa misura, ma attraverso altre esperienze di lavoro.
Non mancano criticità lungo questa dimensione della potenziale transizione verso il lavoro. E più volte emerse. Dalla ricerca coordinata dalla docente Lilli Casano, ricercatrice in Diritto del lavoro all’università varesina dell’Insubria (“Scuola-Università e mercato del lavoro: la transizione che non c’è”), se il volontariato è sempre più spesso visto anche come occasione per accrescere le proprie competenze di base e trasversali e per allargare il proprio network professionale, dall’altra ha sicuramente anche un valore economico e profili giuridici ben precisi, che vanno dal diritto al rimborso spese e l’obbligo di tutele assicurative. Garanzie che, invece, la ricerca sottolinea come del tutto o in parte disattese «con contestuali rischi di comportamenti abusivi da parte delle organizzazioni dove i giovani svolgono l’attività, compiti e funzioni molte volte equivalenti a quelle di competenza di operatori regolarmente assunti o contrattualizzati».
Ecco perché, l’ultimo passaggio della ricerca Adapt-Unipolis, il capitolo dedicato al volontariato si concentra sulla difficoltà di «tradurre e valorizzare quanto acquisito sul proprio curriculum del giovane» per dare maggiore spendibilità nel mondo del lavoro e con le imprese all’esperienza del volontariato giovanile. Uno delle soluzioni indicate guarda così a un sistema che possa individuare e certificare le competenze sviluppate. « La certificazione delle competenze sarebbe uno strumento fondamentale per dare valore professionale alle esperienze maturate nelle attività fuori mercato (volontariato, associazionismo, cura). In Italia, ad oggi, non esiste ancora una procedura definitiva e gestita a livello nazionale per quanto riguarda la validazione delle competenze maturate a livello non formale ed informale. Esiste però – spiega la relazione finale del rapporto - una serie di pratiche pubbliche ed istituzionali atte a riconoscere le competenze maturate in questi contesti, che però sono limitate a livello territoriale (regionale o locale), e pratiche di valorizzazione non istituzionali, di settore, aziendali o addirittura legati ai servizi per l’impiego, che quindi peccano di ristrettezza e di spendibilità nel più ampio mercato del lavoro nazionale».