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Come fare squadra per creare spirito d’azienda

Dossier. Tutti vorrebbero lavorare in un’azienda dove ognuno si impegna a fare bene il proprio lavoro dando la giusta considerazione al lavoro degli altri. Eppure non è così facile. Perché? Come riconoscere e affrontare gli ostacoli alla condivisione?

Lettura 16 min.

Più condivisione.
Idee e ostacoli di cui tener conto per affrontare un bisogno ricorrente

Gli studi sul clima aziendale e sulla convivenza organizzativa dimostrano che la qualità della condivisione è legata alla qualità del lavoro e che può fare la differenza anche sul piano della performance, proprio come in ambito sportivo il cosiddetto spirito di squadra può fare la differenza tra due gruppi con caratteristiche tecniche individuali simili.

Certo, tutti vorrebbero lavorare in un’azienda dove è forte il senso della condivisione, cioè dove ognuno si impegna a fare bene il proprio lavoro dando la giusta attenzione e considerazione al lavoro degli altri. Eppure condividere non è facile. Perché? Come riconoscere e affrontare gli ostacoli alla condivisione?

Sommario

Frasi tipiche sulla carenza di condivisione
Perché la questione è importante…
… e perché è facile sottovalutarla
Lo spirito di squadra
Studiare l’effetto Troxler in azienda
Pratiche per allargare la visuale
Un rituale quotidiano per la condivisione: stand-up meeting
La lezione delle organizzazioni ad altissimo rischio
Dal micro al macro: condividere metafore
Come remare nella stessa barca
Difficoltà e ostacoli persistenti

Frasi tipiche sulla carenza di condivisione

Supponiamo che qualcuno ci racconti di un’ipotetica azienda in cui ogni lavoratore pensa a fare bene il suo lavoro e non si preoccupa d’altro. Potrebbe trattarsi di un’azienda in cui le cose funzionano, perché in effetti è importante che ognuno faccia bene il proprio lavoro. Non è detto, però, che tutto vada al meglio.

Potrebbero infatti verificarsi alcuni degli episodi segnalati dalle seguenti frasi, registrate in aziende reali operanti in settori diversi:

1 - «In generale, quando faccio il mio lavoro non riesco a essere focalizzato sul lavoro degli altri»

2 - «Mi impegno, faccio il mio, ma non ottengo il giusto riconoscimento»

3 - «A volte uno tenta di fare il suo, ma è difficile quando c’è incertezza sulla linea da tenere»

4 - «Ci sono persone che vogliono fare le cose da sole e non coinvolgono i colleghi come dovrebbero»

5 - «Ognuno vede se stesso e basta»

6 - «Ognuno guarda il suo obiettivo e basta»

7 - «C’è così tanto da fare che ognuno pensa solo a se stesso, a proteggere se stesso»

In un’economia sempre più esigente dal punto di vista dei ritmi e dell’attenzione ai particolari può valere la testimonianza di un lavoratore di un’azienda metalmeccanica: «Il non vedere le esigenze degli altri deriva a volte dal “devo fare”».
In altri termini: concentrandosi sul proprio fare capita che si perda la visione d’insieme.

Così, anche senza volerlo, si sottovalutano i problemi e le aspettative dei colleghi, di chi precede e segue in un ciclo produttivo.

Quando la dinamica coinvolge livelli gerarchici differenti, si può avere la sensazione riassunta da questa battuta: «Chi ha potere tende a sottovalutare i problemi degli altri e gli altri di conseguenza lo vedono come un ostacolo: il problema più grave è che non ci si rende conto di questa situazione».

Tutte queste frasi – che forse suoneranno familiari a molti fra imprenditori e manager, dirigenti – ruotano attorno al tema della condivisione e, più precisamente, al problema della mancata o dell’insufficiente condivisione all’interno di un’organizzazione.

Come rilevare se il problema esiste? E come affrontarlo?

Perché la questione è importante…

Prima di affrontare queste due domande, è il caso di soffermarsi brevemente sull’importanza della condivisione all’interno delle organizzazioni. Essendo ovviamente impossibile riassumere gli studi principali sull’argomento, mi limito a segnalare due spunti per la riflessione.

Primo spunto. Fin dagli anni Cinquanta, in un celebre libro tradotto in italiano col titolo «Psicologia per manager», Harold J. Leavitt sottolineava la crescente importanza dell’arte della condivisione nelle industrie moderne, sempre più complicate sia socialmente che tecnologicamente, e sempre più caratterizzate dall’interdipendenza delle funzioni.

In condizioni di forte interdipendenza tra funzioni, tutti hanno bisogno di tutti e «fare bene il proprio lavoro» richiede che ci si curi del fatto che anche gli altri possano fare bene il proprio, creando le condizioni per una reciproca considerazione.

Ciò vale a maggior ragione nell’industria contemporanea, stando a quanto suggeriscono gli studi sulle prime sperimentazioni nel campo dell’Industria 4.0, che segnalano la centralità di aspetti come i seguenti:

  • partecipazione creativa dei lavoratori
  • condivisione di responsabilità e di poteri
  • progettazione partecipata
  • capacità di condividere e comunicare la conoscenza
  • centralità del lavoro di squadra e dei team “interdisciplinari”
  • intensificazione della componente cognitiva del lavoro

Secondo spunto. Nel campo della psicologia del lavoro, la qualità della condivisione è sistematicamente citata come ingrediente essenziale da chi si occupa delle condizioni per una buona convivenza organizzativa e per un buon clima aziendale.
Un tema che abbiamo approfondito anche in una precedente puntata di Skille dedicata proprio al metodo e a quali contenuti fare riferimento per costruire un buon clima in azienda.

 

… e perché è facile sottovalutarla

Un primo ostacolo nell’affrontare il problema della carente condivisione, nonostante la sua importanza, deriva dal fatto che è molto facile sottovalutarlo.

In parte ciò accade perché la parola “condivisione” risulta più sfuggente di altre ad essa collegate, come cooperazione e partecipazione. Inoltre viene naturale pensare che in un’azienda che funziona il problema della condivisione sia, per così dire, già risolto: infatti, se un’azienda funziona, un minimo di condivisione (quanto basta) deve pur esserci.

La condivisione non deve essere data per scontata. Così si rischia di sottovalutare il problema, spesso perché spinti dal fatto che le cose comunque funzionano

Il punto, però, è che la condivisione non si può valutare con l’alternativa secca “tutto” o “niente”: dandola per scontata, si rischia di non tenere in considerazione il grado e la qualità della condivisione effettiva, o come essa cambia nel tempo sotto la pressione degli eventi e con l’introduzione di innovazioni tecnologiche.

Accade qualcosa di analogo con il camminare e il correre: se non c’è una patologia o una difficoltà temporanea che lo impedisce, diamo per scontato che una persona sappia camminare e correre: però è chiaro che c’è una grande differenza tra una persona allenata a fare le due cose con intensità e su terreni diversi e una persona che le fa senza essere allenata.
Vale la stessa cosa per la condivisione: si può darla per scontata, oppure la si può prendere in considerazione come una competenza che merita di essere allenata.

Lo spirito di squadra

Non è scontato che una squadra giochi con spirito di squadra. Come lo spirito di squadra, la condivisione è qualcosa di difficilmente definibile, che va al di là delle capacità tecniche dei singoli e può fare la differenza dal punto di vista della performance. È qualcosa di impalpabile (non si può dire “dov’è”) e al tempo stesso di evidente e di corposo, perché risalta in tutte le azioni.

Si può essere gruppo in tanti modi, ma non basta un gruppo per avere una squadra che lavora bene insieme. La differenza sta nel modo in cui si sta insieme, condividendo l’impegno e aiutandosi.

Sviluppando l’analogia con il gioco di squadra nello sport, condividere significa muoversi tenendo conto dei movimenti dei compagni, della loro posizione, del loro stato (umore, salute…) e soprattutto dei loro limiti, dandosi da fare per compensarli, contando sul fatto che qualcuno compenserà i nostri e che, lavorando insieme e aiutandosi, quei limiti potranno essere ridotti, migliorando il risultato d’insieme.

A proposito della condivisione necessaria all’essere squadra, guardiamo questi due video, e ascoltiamo le considerazioni esemplari di due famosi allenatori di pallavolo, Julio Velasco

e quindi ecco le parole di Mauro Berruto

Studiare l’effetto Troxler in azienda

Iniziamo con un primo esempio di allenamento, utile per esercitarsi a parlare delle circostanze della carente condivisione, tentando di afferrare la natura del problema. Le domande dirette sui singoli episodi aziendali, in questo caso, possono essere controproducenti: si alzano inevitabilmente delle difese e si rischia di cadere nella ricerca delle colpe e dei colpevoli. Bisogna trovare strade alternative.

Faccio qui riferimento a un’esperienza condotta in un’azienda metalmeccanica con oltre 100 dipendenti, Record SpA, attiva in provincia di Bergamo, tra i principali fornitori di minuterie metalliche di precisione in vari settori. Nel quadro di un ciclo di incontri per l’allenamento intensivo delle soft skills, ho proposto a tutti i lavoratori l’illusione ottica nota come effetto-Troxler. Di cosa si tratta?
Guardiamo l’ immagine qui sotto, tenendo entrambi gli occhi aperti e concentrando lo sguardo sulla croce centrale:

 

Posizionando l’immagine a una certa distanza dagli occhi (eventualmente stampata, nel caso l’effetto non si verifichi guardandola allo schermo), a un certo punto i cerchi grigi attorno alla croce sfumano e scompaiono, nonostante gli occhi siano entrambi aperti.
L’effetto non dura a lungo, ma è significativo.

Quando ho chiesto ai lavoratori di Record, dopo un’opportuna introduzione al tema, se in un’azienda qualsiasi potesse verificarsi qualcosa di analogo all’effetto Troxler, gli esempi sono stati molti, più di quelli che mi aspettavo.

Condivido qui parte della tabella che abbiamo realizzato insieme:

 

Come si intuisce, l’effetto Troxler permette di riconoscere e comparare molte difficoltà che si manifestano sul piano della condivisione e permette al tempo stesso di individuarne una struttura comune, che non dipende dalle buone o dalle cattive intenzioni dei singoli.
Ciò è importante per affrontare e discutere eventuali problemi di condivisione, uscendo dal circolo vizioso della ricerca dei colpevoli e dall’idea che alla base delle difficoltà debbano esserci per forza delle cattive intenzioni.

La carenza di condivisione può derivare dal fatto che tutti tendiamo a perdere di vista il “contorno”, ciò che sta ai margini del nostro campo visivo, tanto più quanto più ci concentriamo intensamente su un compito.

Pratiche per allargare la visuale

Si potrebbe incontrare a questo punto un motivo di perplessità: davvero una conoscenza in più – come l’esistenza di un effetto Troxler – può aiutare ad allenare una competenza complessa come quella della condivisione?

In parte dipende da come si lavora sull’effetto Troxler, ma non c’è da stupirsi troppo di questa possibilità, perché le conoscenze sono un ingrediente chiave delle competenze, assieme alle abilità e agli atteggiamenti. Se non arriva come un contenuto calato dall’alto, una conoscenza in più può diventare una chiave di lettura per leggere le situazioni e il saper fare o agire bene nelle circostanze più diverse dipende anche dalle chiavi di lettura di cui si dispone, per leggerle ed interpretarle.

Ora, in Record, tutti i lavoratori sanno cos’è l’effetto Troxler e condividono le chiavi di lettura che essi stessi hanno messo a punto insieme.

Ma è possibile allora attenuare l’effetto Toxler in azienda? Concentrarsi cioè anche sugli aspetti che ci circondano e che vanno oltre al nostro lavoro?

Disponendo della tavola dell’effetto Troxler come riferimento, la domanda “come possiamo migliorare la condivisione?” può essere tradotta in una domanda di questo tipo: “come possiamo attenuare l’effetto Troxler in azienda?”.

Questa riformulazione aiuta a considerare i due lati del problema, le competenze delle persone e le condizioni favorevoli al loro esercizio: occorre allenare la “coda dell’occhio” di tutti, ma anche creare le condizioni affinché la coda dell’occhio possa attivarsi.
Il primo aspetto riguarda direttamente l’allenamento delle soft skills, mentre il secondo può riguardare l’impostazione e le “regole del gioco” con cui si fanno le cose.

Ecco alcuni esempi sui due fronti.
A - Allenamento delle soft skills. Investire su una formazione diffusa che permetta di:

  • Allenare la capacità di ascolto e di comunicazione tra ruoli, funzioni e reparti diversi
  • Allenare il problem solving di gruppo (anche attraverso simulazioni) su questioni ambigue e incerte
  • Allenare la creatività di gruppo e il team working (studiando le dinamiche che portano il gruppo ad essere vincolo oppure risorsa per tutti)
  • Allenare l’adattabilità ad interagire in contesti nuovi
  • Approfondire le dinamiche e migliorare la gestione dei conflitti
  • Scoprire e condividere chiavi di lettura per gestire le più tipiche difficoltà della condivisione
  • Esercitare la capacità di negoziare

B - Regole e iniziative che creano le condizioni per una migliore condivisione.
Ad esempio:

  • Proporre occasioni di incontro e di formazione che favoriscano il confronto tra punti di vista diversi sull’azienda, sulle sue sfide e sui suoi problemi
  • Ripensare spazi e tempi comuni in modo da migliorarne la vivibilità e la godibilità dello “stare insieme” (anche nei momenti di pausa)
  • Lavorare sul “metodo” delle riunioni, imparando dagli errori e cercando i margini di miglioramento, ed eventualmente sperimentare nuove tipologie di riunione
  • Dotarsi di dispositivi che permettano la circolazione delle idee all’interno dell’azienda e l’effettiva presa in considerazione di suggerimenti e lamentele
  • Job rotation (strategia adottata soprattutto nelle grandi imprese, con l’obiettivo di permettere ai dipendenti di farsi una visione il più possibile ampia e globale delle diverse fasi del processo produttivo aziendale e, di conseguenza, delle difficoltà e dei problemi caratteristici lungo il percorso, dal rapporto iniziale a quello finale con i clienti).

Un rituale quotidiano per la condivisione: stand-up meeting (la riunione)

Viene citato di solito tra i rituali ritenuti cruciali dai team di progettazione di Google:
ogni mattina ad un orario fisso (ad esempio alle 9 oppure alle 9,30), tutti coloro che lavorano allo stesso progetto si ritrovano per una rapida riunione di aggiornamentosui punti essenziali del lavoro di ciascuno.

La riunione deve essere fatta in un luogo diverso dalle postazioni di lavoro dei singoli partecipanti e restando in piedi. Quest’ultimo accorgimento serve come antidoto alla tendenza a prendersela comoda, a indugiare o divagare.
Adottando una parola chiave del rugby, si parla anche di daily scrum o “mischia quotidiana”, per dare l’idea di una squadra i cui elementi si impegnano a spingere tutti nella stessa direzione, coordinando al meglio gli sforzi.

Ecco, rappresentati nel grafico, i punti essenziali dell’idea di riunione efficace:

Questo tipo di incontro è adottato soprattutto nel settore informatico e in quello automobilistico. Si potrebbe pensare che incontri di questo tipo, così brevi, siano superflui o incidano poco; in ogni caso, può essere interessante provare, perché la ritualità dell’iniziativa genera una consuetudine ad allargare lo sguardo dalla propria “croce” (il + al centro dell’effetto Troxler) alla “croce” degli altri.

La lezione delle organizzazioni ad altissimo rischio

Il modello dello stand-up meeting richiede di evitare le divagazioni. Sarebbe un errore, però, generalizzare questo principio, perché a volte la condivisione ha bisogno di passare attraverso incontri e conversazioni che non hanno una relazione diretta con il lavoro da fare.

In tale direzione forniscono un esempio eloquente (e poco noto) Karl Weick e Kathleen Sutcliffe, analizzando organizzazioni in cui l’alta affidabilità è cruciale (high reliability organizations, HRO), come le navi portaerei, le squadre antincendio o le centrali nucleari.

I due studiosi, che si sono occupati delle migliori tecniche per la gestione dell’inatteso, hanno sottolineato l’importanza di dedicare del tempo a riunioni su scenari simulati, anche altamente improbabili.

Perché in un’azienda si dovrebbe dedicare del tempo a discutere il da farsi in scenari altamente improbabili, che forse non si verificheranno mai? Non sarebbe una perdita di tempo?
Karl Weick

Secondo l’analisi di Weick e Sutcliffe, no: costringendo a pensare l’improbabile, tali riunioni fanno emergere dei punti ciechi organizzativi e danno l’opportunità di intuire nuove strategie di condivisione.

Nel libro tradotto in italiano con il titolo «Governare l’inatteso», l’incendio della riserva di Cerro Grande nel New Mexico nel 2000 (quando un “incendio programmato” per un’area di 120 ettari sfuggì al controllo e crebbe fino a provocare danni per un miliardo di dollari), il disastro del Challenger nel 1986 e quello dello space-shuttle Columbia nel 2003 sono citati come esempi di incapacità nel management dell’inatteso: nel primo caso furono trascurati dei segnali deboli che avrebbero dovuto indurre a comportamenti molto diversi da quelli effettivamente tenuti dai protagonisti; nel secondo caso, si normalizzò l’inatteso facendolo rientrare tra i rischi accettabili, mentre nel terzo caso non furono rispettate le competenze per rispettare una concezione rigida della gerarchia.

I suggerimenti ricavabili dalle analisi sulle organizzazioni ad alta affidabilità sono riassumibili nel seguente elenco, in cui tutto ruota, in ultima analisi, attorno alla condivisione:

  • disporre di una mappa dei talenti e delle abilità di ciascun membro dell’organizzazione
  • rispettare le competenze e parlarne (aggiornarle, condividerle…)
  • parlare dei problemi e degli errori e di come si potevano prevenire
  • accettare l’ambiguità
  • ampliare i repertori delle risposte possibili e l’attenzione al feedback
  • non interpretare rigidamente le gerarchie, rendendo condiviso il potere di segnalazione e di parola, con un modello di decision making “distribuito” e non concentrato al vertice
  • favorire e preferire la comunicazione ricca (a partire da quella faccia a faccia)
  • esercitare l’immaginazione, dedicando riunioni ad immaginare scenari e costruire ipotesi.

Dal micro al macro: condividere metafore

Uno stand-up meeting permette un aggiornamento quotidiano sui lavori in corso di un team, che possono anche essere una parte molto piccola degli impegni di un’azienda. A volte, però, è necessario lavorare sulla condivisione globale, relativa non ad un singolo progetto ma alla visione d’insieme dell’azienda.
In questo caso la prospettiva diventa così ampia da poter sembrare astratta o distaccata dalla realtà. Eppure, questo è il piano in cui si elaborano e si condividono, ad esempio, mission e vision di un’azienda. Cambiare prospettiva su questo piano può avere ricadute pratiche importanti.

Sempre su questo piano si incontrano questioni ancor più sottili, relative ad esempio alle metafore con cui si interpretano le organizzazioni. Fortunatamente c’è un bestseller internazionale della letteratura organizzativa ad affrontare questo tema così apparentemente evanescente: si tratta del libro di Gareth Morgan tradotto in italiano con il titolo «Images». Le metafore dell’organizzazione.

L’autore distingue otto diverse metafore dell’organizzazione:

  • 1. Macchina
  • 2. Organismo
  • 3. Cervello
  • 4. Sistema culturale
  • 5. Sistema politico
  • 6. Prigione psichica
  • 7. Flusso e divenire
  • 8. Strumento di potere

Senza scendere nei dettagli sul significato delle singole metafore, ciò che Gareth Morgan sostiene è che ogni metafora coglie aspetti importanti della realtà organizzativa e ne trascura altri.

Saper transitare tra le metafore aiuta a capirsi, mentre due persone che riflettono sulla stessa organizzazione adottando implicitamente metafore diverse (come quella della macchina e quella dell’organismo), potrebbero non capirsi su alcuni punti: ciò che è prioritario da un punto di vista potrebbe infatti essere secondario o inconsistente dall’altro.

La situazione diventa comprensibile in questo modo. È come se due persone parlassero della celebre figura bistabile di Jastrow, riportata qui sotto, senza sapere che l’una la vede soltanto come coniglio e l’altra la vede soltanto come anatra. A un certo punto, finirebbero per non capirsi più o per pensare che il proprio interlocutore non capisce nulla.

 

Da quanto detto consegue che saper maneggiare le metafore con cui si interpreta un’organizzazione può essere molto importante.

Come remare nella stessa barca

Una metafora può diventare anche la base per un dispositivo formativo, se si riesce a farla diventare uno “strumento per pensare”, ossia – riprendendo un’immagine del filosofo Daniel Dennett – una pompa dell’intuizione (intuition pump), cioè un dispositivo in grado di generare intuizioni (a raffica).

È quel che accade quando propongo il lavoro sulla metafora della navigazione.

Si tratta di una metafora ben radicata nel linguaggio comune: pensando anche ad un’azienda, ad esempio, possiamo dire che siamo sulla stessa barca, che a volte si ha l’impressione di remare tutti nella stessa direzione «e a volte no»; che talvolta si ha il vento favorevole e si va a gonfie vele e talvolta il vento contrario; che ci sono scogli o secche da evitare; che ci sono falle da riparare per non rischiare di naufragare e che si spera di andare in porto con un progetto.

Proponendo ai dipendenti di un’azienda l’immagine di una nave come la seguente (un vascello da guerra degli inizi del XVIII secolo), si può chiedere di “giocare con la metafora”, trasformandola in uno specchio attraverso cui guardare in modo insolito alla propria organizzazione, ai suoi ruoli, al senso delle metafore marinare citate in precedenza.

 

Maneggiando la metafora con cura, si possono fare scoperte interessanti.

Ci si può così accorgere del fatto che a certi ruoli dell’azienda reale vengono fatti corrispondere con largo consenso determinati ruoli sull’imbarcazione, mentre altri risultano difficili da collocare o si rivelano critici, in quanto suggeriscono associazioni anche molto contrastanti.

Ad esempio, un ruolo in cui il lavoro manuale è tanto pesante quanto il lavoro cognitivo è stato associato frequentemente sia alla figura del mozzo, sia a quella dell’addetto ai cannoni.
Le implicazioni però, nei due casi, sono profondamente diverse: cambia il riconoscimento implicito dell’impegno cognitivo e dell’importanza di quel ruolo per il buon esito della navigazione comune. Quando queste dissonanze sulle metafore emergono si hanno inedite opportunità per ridefinire e condividere a fondo il senso del lavoro e dell’organizzazione, partendo dai “punti ciechi” evidenziati dagli stessi lavoratori.

Qui la condivisione passa attraverso la sintonizzazione della visione e dell’interpretazione che si dà dell’importanza dei diversi ruoli.

Si trova così una via d’accesso alla messa a punto della cultura d’impresa, tema centrale negli studi di un autore classico come Edgar Schein (Culture d’impresa), che ne ha mostrato l’importanza partendo da storie di imprese come Atari, Apple, IBM e Procter & Gamble.

Schema dei tre livelli/ingredienti della cultura d’impresa in Schein:

  • Primo livello: Artefatti. Strutture e processi organizzativi visibili. Nota bene: anche se sono visibili, possono essere difficili da decifrare
  • Secondo livello: Valori dichiarati. Strategie, obiettivi, filosofie, giustificazioni dichiarate
  • Terzo livello: Assunti taciti condivisi. Convinzioni inconsce e date per scontate, percezioni, pensieri di base, sentimenti (che sono la fonte di valori e azioni).

Si può notare qui che lavorare sulla carente condivisione significa lavorare, ad esempio, sulla mancata condivisione dei valori dichiarati, o sull’incoerenza tra la condivisione (apparente) dei valori dichiarati e le azioni effettive; inoltre, non è detto che gli assunti taciti dei dipendenti siano condivisi e, quando ciò non accade, le incomprensioni, gli incidenti e le occasioni di rancore sono dietro l’angolo.

Un’immagine ricorrente (guarda caso, una metafora) per riferirsi alla “sintonizzazione” della cultura aziendale è quella della prova d’orchestra: come mostra Karl Weick, è in quel lavoro di prova e riflessione sul modo migliore di suonare insieme che si possono mettere a punto la forza da mettere nell’esecuzione, la tolleranza degli errori, l’attenzione condivisa alle note e un buon modo per conciliare le note anomale, lasciando in sospeso i giudizi e valutando retrospettivamente la qualità del lavoro.

Difficoltà e ostacoli persistenti

In un’azienda la qualità della condivisione dipende da tutti, ma i ruoli dirigenziali e manageriali hanno un peso decisivo nel promuovere una cultura della condivisione e nell’offrire modelli di comportamento esemplari.

Questo compito può richiedere un lavoro su di sé, sul proprio modo di interpretare il potere e le relazioni d’autorità, sul modo in cui si fa leva sulle proprie e sulle altrui emozioni per ottenere dei risultati.

Viene chiamata in causa la capacità di trovare alternative efficaci al vecchio modello di derivazione militare incentrato sul binomio “comando-obbedienza”

Si tocca così un aspetto diverso da quelli considerati fin qui: oltre alle conoscenze che possono essere condivise e alle abilità che possono essere allenate, c’è il piano degli atteggiamenti e degli stili di comunicazione, più difficili da toccare e modificare perché radicati nelle storie personali (fin dall’infanzia) di ciascuno.

In questo campo i nodi diventano molto difficili da districare.
Un esempio: anni fa incontrai una squadra di basket che si aspettava, a inizio anno, di fare il salto di categoria; a metà stagione, però, la media era da retrocessione. Uno dei punti critici sembrava essere il cambio di allenatore a inizio stagione. Il nuovo allenatore aveva uno stile di comunicazione e un approccio all’allenamento molto diversi dal suo predecessore: alcune giocatrici si erano adeguate in fretta e trovavano stimolante il modello riassumibile nell’immagine classica “bastone/carota”, altre però (la maggioranza) non si erano adeguate e trovavano il nuovo approccio avvilente.

Sentivano di avere perso il senso del “divertimento” nel giocare

Non fu necessario molto tempo per fare emergere le lacerazioni che compromettevano la fiducia e lo spirito di squadra: i sentimenti associati alle sedute di allenamento erano fortemente contrastanti, mentre molte giocatrici non avevano più fiducia nelle possibilità della squadra di affermarsi e ritenevano che lo stile dell’allenatore suscitasse più competizione interna al gruppo che fiducia nell’insieme.

Che fare in questi casi?

Forse la maggioranza delle giocatrici si sbagliava, ma la loro percezione era reale e influiva sul loro rendimento e sulla loro capacità di sentirsi squadra. Come comunicare all’allenatore che parte del problema, forse, era nel suo stile di comunicazione e non nelle sue competenze tecniche, che non venivano messe in dubbio?

Quali margini di evoluzione potevano esserci?

Quando si lavora sulla condivisione è facile imbattersi in interrogativi come questi, che dimostrano – tra parentesi – che a volte aumentare la condivisione richiede di attraversare lo spazio del conflitto. Si capisce così che la condivisione è più difficile da trattare di quel che sembra: ciò nonostante, vale sempre la pena farlo, perché essa è cruciale per dare il meglio di sé.

Migliorare la condivisione richiede anche un lavoro su di sé (da parte di tutti) e una maggiore consapevolezza degli innumerevoli fattori che agiscono dietro la cultura personale e organizzativa.

Ecco, infine, un video esemplare sul fattore culturale della condivisione: il punto di vista di Jacqueline Oliveira, consulente per team interculturali in organizzazioni operanti in diversi settori (medico, automobilistico, intrattenimento, energetico, finanziario).

Checklist

Ecco allora alcune domande da farsi per iniziare a lavorare sulla condivisione nella propria azienda:

  1. Quanto i singoli ruoli sanno di ciò che fanno gli altri e dei loro problemi ricorrenti?

  2. Dove e come si manifesta principalmente l’effetto Troxler nella tua azienda? Quali sono le situazioni tipiche e ricorrenti? (Nota: a causa dell’effetto Troxler stesso, le risposte a questa domanda possono essere molto diverse a seconda del punto di vista di chi risponde!)

  3. Quali sono, nella tua azienda, le strategie che potrebbero essere citate come vie utili per ridurre l’effetto Troxler (dei singoli, delle diverse aree, tra livelli), a cui ogni organizzazione è esposta?

  4. Qual è il grado di efficacia percepito (medio) delle riunioni della tua azienda?

  5. Quanto tempo viene dedicato a migliorare il metodo delle riunioni e a sperimentare dei format/modi diversi di riunirsi?

  6. Quanto sono frequenti le occasioni per allenare le soft skills che alimentano la condivisione?

  7. Quanti sono i momenti formativi che danno la possibilità ad aree/livelli diversi di incontrarsi e di esercitarsi nel problem solving di gruppo?

  8. Negli ultimi sei mesi ci sono state iniziative/idee che potrebbero essere citate come “un passo avanti” nella condivisione dell’azienda?

  9. Quanto sono condivise le metafore sull’azienda che circolano in azienda?