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Come fare la riunione aziendale perfetta

Dovrebbero essere il momento cruciale per coltivare le soft skill in azienda. In realtà vengono vissute con difficoltà, vengono percepite come perdita di tempo e intralcio al lavoro. Ecco un ricco vademecum per impostare con efficacia la propria riunione in azienda.

Lettura 15 min.

Le riunioni giocano un ruolo cruciale nella vita di un’azienda, perché in linea di principio dovrebbero essere il momento in cui i diversi attori organizzativi si incontrano per condi­videre e coordinare punti di vista, priorità, dubbi e strategie sul da farsi. Eppure, tra i diversi momenti che scandiscono la vita aziendale, le riunioni sono diventate un argo­mento quasi proverbiale per le difficoltà che si incontrano nel gestirle e nel farle funzionare bene. Guardando alla letteratura sul tema e ad esperienze formative condotte in aziende di diversi settori, l’articolo propone un vade­mecum pratico per fare il punto sulla situazione della propria azienda e, se necessario, per migliorarla.

Sommario

La “Meeting Madness”
Problemi tipici
Darsi uno o più schemi di gioco
Cambiare metodo coinvolgendo tutti
La convocazione
Lo spazio
Il tempo
Condurre e coordinare
L’interazione
Autovalutazione e vantaggi marginali
Dopo la riunione

La “Meeting Madness”

Un articolo pubblicato sulla Harvard Business Review nell’estate del 2017 ha l’elo­quen­te titolo “Stop the Meeting Madness”. In che senso può esserci una “follia” della riu­nione?

Basandosi su decine di interviste a dirigenti attivi in diversi settori (high tech, retail, farmaceutica ecc.), gli autori evidenziano che una percentuale significativa del campione si sente schiacciata e soffocata dalle riunioni, a prescindere dal tipo (formale o infor­male, tradizionale o “agile”, faccia a faccia o virtuale): più precisamente, il 65% dei senior manager inter­vi­stati percepisce le riunioni come un intralcio al lavoro, il 71% sostiene di fare riunioni impro­duttive e inefficienti, il 64% ritiene che ostacolino la concentrazione e il pensare “in profondità”, mentre il 62% sottolinea che spesso non aiutano a fare squadra (anzi hanno effetti controproducenti sul lavoro di squadra, quando diven­tano incu­­batori di con­flitti e di esperienze di mancato ascolto).

La pazzia a cui fa riferimento il titolo dell’articolo consiste nel fatto che spesso si continua a fare riunioni vissute in questo modo, anche se ci si accorge che vanno male, con l’ag­gra­vante che il tempo mediamente dedicato alle riunioni nelle aziende è più che raddop­piato rispetto agli anni Sessanta.

Il soggetto in riunione descritto dall’articolo dell’Harvard Business Review potrebbe essere rappresentato con un’immagine tratta da un celebre mito greco, Sisifo, il quale con grande fatica continua a spingere un masso verso l’alto, anche se il masso continuamente gli ricade addosso. Sentirsi “travolti” o “soffocati” dalle riunioni può condurre a un’impressione ana­loga di fatica inutile. Sisifo, però, continuava a ripetere lo stesso movimento per una condanna di Zeus; nel caso delle riunioni, si continua a sbagliare condannati dalla diffusa tendenza a dare per sco­ntate le soft skill e dalla sottovalutazione dell’importanza di alle­narle.

Problemi tipici

Prima di analizzare le variabili in gioco per migliorare la qualità delle riunioni è importante soffermarsi su alcuni problemi tipici.
In un libro dedicato al Gioco di squadra (Milano 2003) Gian Piero Quaglino e Claudio Cortese, da psicologi e formatori aziendali, aiutano a farsi un’idea al riguardo, perché passano in rasse­gna una vasta casistica di riunioni inquadrandole in tipi come i seguenti:

  • c’è la riunione “senza meta”, nella quale, a un certo punto, si ha la sensazione di non capire perché la si sta facendo e dove si sta andando, perché si divaga o si vaga a vuoto attorno ai problemi;
  • c’è la riunione a cui si partecipa “con un solo orecchio”, dove circolano formazioni incomplete e si passa il tempo a pensare quel che si dovrà fare dopo;
  • c’è la “riunione-mercato”, dove ci si parla addosso sen­za rispettare le regole più elementari dello scambio comunicativo;
  • c’è la riunione in cui si ha l’impressione di essere “in un sommer­gibile”, perché lo spazio è inospitale dal punto di vista dell’ergonomia degli spazi, del clima e della luminosità degli ambienti e così via;
  • c’è la riunione “in lotta contro il tem­po”, perché l’inizio e la fine sono aleatori e alcuni punti all’or­dine del giorno (di solito i pri­mi) ricevono un’atten­zione ingiustificamente spropor­zionata rispetto ad altri; c’è poi, a fare da contral­tare;
  • la riunione “notarile”, in cui l’esigenza di darsi delle regole viene interpretata in modo eccessivamente rigido, imbalsamando le inte­razioni tra i partecipanti.

Un dirigente mi ha regalato un’altra immagine molto efficace, usando la metafora della “pentola che brontola e ribolle” per descrivere le riunioni dove ognuno arriva con il suo “pezzettino di problema”, pensando solo a quello e aspettandosi che sia risolto, senza avere presenti le priorità degli altri e quelle complessive. In tal caso, spesso, capita che le persone si sovrastino senza ascoltarsi.

Queste considerazioni preliminari servono a fissare due premesse:

  • prima di immaginare interventi migliorativi per le riunioni della propria azienda occorre dedicare del tempo capire quali sono i problemi tipici e le difficoltà ricorrenti da affrontare;
  • per capire quali sono i problemi da affrontare – se nella propria azienda ci siano più riunioni “senza meta”, “in lotta contro il tempo”, come una “pentola che brontola” e così via – occorre ascoltare ciò che al riguardo hanno da dire tutti i protagonisti delle riunioni su cui si vuole intervenire, favorendo un confronto franco sulla “diagnosi”.

Volendo iniziare con una descrizione ironica della situazione, potete guardare il video TED, sottotitolato in italiano, di un information security manager, David Grady, visualizzato più di 2 milioni di volte sul sito TED e più di 200.000 volte su YouTube. Il titolo è: Come salvare il mondo, o almeno voi stessi, dalle riunioni improduttive.
Ci sono delle battute su alcuni errori nella conduzione delle riunioni, qualche risata in eccesso a fare da sottofondo e, soprattutto, una conclusione troppo semplicistica (vedremo poi perché). Eccolo:

Darsi uno o più schemi di gioco

Perché la conclusione del video è troppo semplicistica? Perché avere un obiettivo e un programma chiaro è soltanto il primo passo. Perché non bastano le buone intenzioni di una o alcune persone per migliorare le riunioni: bisogna darsi un metodo, tenere ben pre­senti tutte le variabili influenti sul lavoro di gruppo e avere un buon allenamento delle soft skill.

Non è detto che in un’azienda tutte le riunioni vadano nello stesso modo. Può darsi che alcune vadano piuttosto male e che altre vadano bene.

Quando le cose stanno così è importante evitare di prendere la parte per il tutto: il fatto che alcune riunioni vadano bene può diventare un alibi inconsapevole per non affrontare il problema delle riunioni che vanno male, perché tutto sommato si ritiene di essere capaci di fare andare bene le riunioni. Il rischio, così, è che si lasci al caso quel che accadrà ogni volta.

Come sottolineano Quaglino e Cortese, quando non c’è un metodo si finisce con il gestire le riunioni con l’improvvisazione, con l’imposizione “dall’alto” di modelli d’interazione che danno l’impressione ai partecipanti di essere semplici esecutori, oppure in base alla sola abitudine, facendo come si è sempre fatto, anche in situazioni nuove e continuando ad applicare gli stessi metodi anche quando è chiaro che non sempre funzio­nano.

Riflettere sul metodo è come riflettere sugli “schemi” da adottare in uno sport di squadra: come abbiamo visto in un post dedicato alla condivisione e allo spirito di squadra, sono proprio gli schemi condivisi, grazie ai vincoli reciproci che istituiscono, a trasfor­mare un gruppo in una squadra.

Come acca­de nello sport, non c’è lo schema che va bene in ogni circo­stanza. Si possono (e a volte si devono) immaginare metodi di tipo diverso per riunioni diverse.

Un conto è fare una riunione d’emergenza per affrontare un problema impre­visto e urgente, un altro conto è progettare con sufficiente anticipo una riunione per discutere problemi di routine e pren­dere delle decisioni; un altro conto ancora è dedicare del tempo a riunioni per mettere a punto e condividere la vision e la mission aziendali.

Per lavorare sul metodo è dunque importante riflettere sui principali tipi di riunione nella propria azienda, realizzando una mappa dei tipi e individuando punti di forza e punti deboli del metodo adottato nei diversi casi (se ce n’è uno iden­tificabile).

Realizzando la mappa, si tengano presenti gli incroci tra i se­guenti compiti tipica­mente affrontati dai gruppi in riunione:

  • Passaggio di informazioni => per creare rappresentazioni condivise di un certo as­pet­to della realtà
  • Discussione => per fare emergere e confrontare convinzioni, aspettative, ipotesi di lavoro ecc.
  • Sviluppo e creazione di idee => per andare alla ricerca di pensieri innovativi, esplo­rando l’impensato grazie all’in­telligenza collettiva di cui il gruppo è capace
  • Soluzione di problemi => per trovare modi sensati di superare ostacoli e difficoltà di varia natura
  • Presa di decisioni => per scegliere in modo consapevole e motivato tra alternative
  • Monitoraggio di processi => per verificarne l’andamento integrando punti di vista differenti

Cambiare metodo coinvolgendo tutti

È il caso di ribadire la prima indicazione pratica di questo articolo: per capire come vanno le riunioni nella propria azienda e quali sono i margini di miglioramento è impor­tante far sì che i protagonisti delle riunioni si esprimano al riguardo.

Si potrebbe chiedere ai singoli: “Secondo te, come vanno le nostre riunioni?”.
L’interro­gazione diretta, però, potrebbe non funzionare, per il ben noto principio della desi­dera­bilità della risposta: se a chiedermi come vanno le cose è un mio superiore, parte in cau­sa nelle riunioni che mi chiede di giudicare, tenderò a rispondere quel che secondo me il superiore si aspetta di sentire o, comunque, tenderò a sfumare le critiche che potrebbero mettere me o lei/lui in cattiva luce.

Il processo di diagnosi è quindi molto delicato: perciò, per avviarlo, può essere utile un consu­lente esterno attento alla complessità del problema (in inglese si trova a volte l’espres­sione “neutral facilitator”), oppure – cosa meno immediata – la creazione di un clima relazionale in cui si percepisca la possibilità di essere franchi e un’alta disponibilità ad ascoltare.

Quando le criticità e i motivi d’insoddisfazione sono stati espressi, un altro passo impor­tante è discuterli insieme, chiedendo ai gruppi di affrontarli facendo ipotesi di miglio­ra­mento.
Insomma, per migliorare le riunioni è utile fare delle riunioni sulle riunioni: può sembrare un circolo vizioso, ma ridisegnare i propri confini è la mossa necessaria per ogni apprendimento e per ogni evoluzione.

La riunione su come si fanno le riunioni può diventare una buona occasione per allenare soft skills decisive, in primis quelle rela­tive alla comunicazione, all’ascolto attivo, al coordinamento di gruppo, alla buona gestione del con­flitto e al problem solving collaborativo.

Chi avesse la sensazione che fare questa operazione sia una perdita di tempo, è invitato a riflettere sul fatto che l’obiettivo, al contrario, è quello di ridurre/eliminare le perdite di tem­po dovute a riunioni fatte senza un metodo adeguato.
Se le cose funzionano, inoltre, ci si possono aspettare altri esiti significativi sullo spirito di squadra: uno studio condotto presso l’University of North Carolina, ad esempio, sottolinea che in un’azienda il giudizio del dipendente sull’efficacia e sulla qualità delle riunioni è fortemente correlato con la soddi­sfazione o insoddisfazione per il proprio ambiente lavoro in generale.
In altre parole, le riunioni fatte male peggiorano la percezione del luogo di lavoro e compromettono la qualità della comu­nicazione e della collaborazione, che invece le riunioni, proprio in quanto ri-unioni, dovrebbero soste­nere.

La convocazione

Una buona riunione inizia prima di iniziare, nel momento in cui viene convocata.
Qualora non si tratti di un incontro improvviso per un’emergenza è importante curare la convocazione prestando attenzione ai seguenti punti:

  • Esistenza di un bisogno effettivo
  • Convocazione degli attori organizzativi effettivamente interessati
  • Verifica preliminare della disponibilità degli attori, utilizzando gli strumenti dispo­nibili (ad esempio, il calendario aziendale)
  • Indicazione chiara dell’obiettivo e dei punti all’ordine del giorno, con un preavviso che consenta agli interessati di arrivare preparati
  • Indicazione chiara della durata prevista
  • Indicazione della sede, verificando che sia libera, ben attrezzata e con il setting adeguato per iniziare l’incontro nel modo migliore

Qualora in azienda siano state introdotte distinzioni tra tipologie di riunione e tra i metodi da utilizzare nei diversi casi (ad esempio tra quelle relative a problemi interni di “routine” e quelle strategiche a medio o lungo termine), può essere utile segnalare fin dalla convo­cazione la tipologia della riunione, a parole o con un’icona: tale indicazione servirà ad evi­den­ziare ulteriormente l’esistenza di una cornice e di un metodo pensato per la cornice.

Lo spazio

È noto che l’atmosfera, la forma e l’organizzazione materiale degli ambienti ci condizio­nano, contribuendo a definire gli stati emotivi, l’attenzione e i movi­menti che possiamo compiere. Infatti scegliamo di andare in certi locali anziché in altri an­che per la loro atmo­sfera, e ci sono stanze in cui si riesce a riflettere meglio e altre in cui non è possibile farlo. In ambito aziendale un dibattito molto noto, a questo proposito, è quello sugli open-offices o uffici open-space: abbracciati con convinzione da Facebook, avrebbero creato problemi a Google ed Apple, come hanno evidenziato degli articoli pubblicati tra il 2015 e il 2017 su testate come The Wall Street Journal e The Washington Post.

La gestione dello spazio è cruciale anche nel caso della riunione. Quando si parla di spazio si pensa anzitutto al setting, cioè letteralmente alla “dispo­si­zione” in cui il gruppo opera. Tra gli elementi del setting risaltano i seguenti:

  • caratteristiche del luogo (luminosità, silenzio/rumorosità, ampiezza, colore delle pa­reti, odori, altri fattori di disturbo ecc.);
  • arredi (ergonomia di sedie e tavoli, mobili, immagini appese alle pareti ecc.);
  • strumenti non tecnici di lavoro (lavagna, block notes, post-it ecc.);
  • eventuali elementi aggiuntivi di comfort (da valutare con attenzione a seconda del tipo di riunione: ad esempio, in certi casi è utile avere a disposizione caffè, the, acqua, biscotti ecc.)

Il setting dovrebbe sostenere sia la dimensione pratico-razionale della riunione, che riguarda il fare insieme, sia la dimensione emotivo-simbolica, che riguarda lo stare insieme.

Facendo riferimento allo psicologo e psichiatra Daniel Stern nel rileggere alcune espe­rienze fatte nell’azienda di cui è consigliere delegato, Giuliana Beretta sostiene che la cura del setting favorisce l’attivazione del sistema motivazionale intersoggettivo, che regola la dicotomia tra appartenenza/isolamento (nel nostro caso ci si isola quando il setting, o la dinamica della relazione, spingono ad assentarsi da quel che accade lì): la possibilità di posizionamento in una zona intermedia tra i due poli, nella zona di benessere, dipende da molti fattori; dal setting, ma anche dal proprio ruolo nel gruppo, dagli altri presenti e dalla storia delle relazioni in essere fino a quel momento.

In questa prospettiva, gli elementi da inserire nel setting della riunione dipendono anche dalla storia dell’azienda e dalla sua cultura organizzativa. Ad esempio, in una grande sala riunioni dell’azienda bergamasca Record Spa, dopo aver lavorato sulla gestione del conflitti e delle riunioni analizzando in profondità, tra l’altro, alcune scene cruciali del film La parola ai giurati (12 angry men, 1957), si è ritenuto di appendere alla parete l’immagine in cui uno dei protagonisti alza la mano esprimendo un punto di vista alternativo al resto del gruppo, corredata dai commenti dei lavoratori.
L’ipotesi, già in parte verificata, è che tale immagine possa diventare un supporto utile, come promemoria cognitivo ed emotivo, per l’ascolto attivo delle posizioni divergenti, che le riunioni fanno fortunatamente emergere.

 

Il tempo

Un’altra variabile ovviamente cruciale per la buona riuscita delle riunioni è il tempo. Ecco alcu­ne difficoltà tipiche e degli accorgimenti che aiutano ad affrontarle:

Per chi volesse riflettere su questi e tanti altri punti in modo coinvolgente, si consiglia la visione del già citato La parola ai giurati, anche soltanto dei primi minuti, che qui evo­chiamo attraverso i commenti dei dipendenti di un’azienda metalmeccanica:

  • Le persone non sono sintonizzate;
  • Il presidente della riunione non ha autorità;
  • C’è un presidente della riunione, ma non è un leader;
  • È il presidente che dovrebbe spiegare la serietà della questione, ma non lo fa, o lo fa male;
  • Ognuno pensa ai fatti suoi: sono lì ma non vorrebbero essere lì;
  • Arrivano con l’idea di uscire il prima possibile;
  • Il gruppo è in una situazione anarchica;
  • Sono un aggregato e non riescono a diventare gruppo.

Si noterà che il presidente della riunione non ha polso e che dapprima dice «iniziamo», correggendosi subito dopo, quando vede che attorno a lui sono ancora quasi tutti distratti, aggiungendo: «Intendevo iniziamo con un intervallo».
Dice così perché i partecipanti non sono ancora pronti e non riesce a richiamare la loro attenzione. Il suo è un messaggio ambiguo, come se dicesse: «iniziamo non ini­zian­do».
Il problema si presenta spesso
: in effetti, non è semplice sintonizzare tutte le persone che arrivano ad una riunione con urgenze e pensieri diversi, ma per fare bene la riunione occorre che tutti siano allineati in modo sufficiente buono quanto ad attenzione reciproca e impegno.

Condurre e coordinare

L’avvio è solo una delle fasi cruciali delle riunioni. Altrettanto cruciali sono la conclusione ed altri passaggi che segnano il transito da una fase all’altra: dal libero scambio di idee alla sintesi, dall’esplorazione delle possibilità alla scelta e così via.

Per affrontare tali passaggi, come quando si scendono le rapide di un fiume su un gom­mone, è essenziale essere coordinati. Il coordinamento riguarda sempre tutti i parte­cipanti, ma la funzione di coordinamento può essere fatta convergere in una persona parti­colare, con l’attribuzione del ruolo di coordinatore.

Cosa fa il coordinatore? Prima di tutto il coordinatore dovrebbe essere il garante del metodo e prestare attenzione alle insidie che ostacolano un buon lavoro di gruppo: la cattiva gestione dei conflitti, l’utilizzo di modi autoritari e l’atteggiamento critico non costrut­tivo, orientato alla lamentela e alla rinuncia al confronto.
Chi conduce la riunione, in sintesi, ha una responsabilità particolare sui seguenti punti:

  • Comunica l’avvio della riunione, richiamando l’obiettivo e assicurandosi che sia suffi­cientemente chiaro per tutti
  • Controlla che il tempo dedicato ai diversi temi all’ordine del giorno sia ragione­vol­mente equilibrato
  • Fa in modo che tutti si esprimano ed esplicitino la propria posizione (ad esempio, con un giro di tavolo iniziale, in modo che anche chi non ha un’opinione o chi ha dei dubbi più che delle opinioni possa dirlo)
  • Invita a stare sull’obiettivo e a non sovrapporsi:
  • Può tenere le fila della conversazione appuntando su una lavagna le posizioni espresse nel gruppo, in prima persona o facendosi aiutare.

Chi conduce l’incontro deve evitare di “monopolizzare” il controllo dell’andamento dei la­vori, la postura autoritaria rigida che porta a volte quasi inavvertitamente dal “fare ordine” al “dare ordini” e la burocratizzazione della riunione, dovuta ad un’eccessiva regolamen­tazione.

Si dovrà poi tenere presente che il coordinatore incontra difficoltà e corre rischi diversi, a seconda del suo essere pari tra pari o superiore/inferiore nella gerarchia rispetto ad altri partecipanti.

Evitando tali rischi, si tratta di ricordare a tutti perché si è lì e di tenere vivo il “ritmo” della con­ver­sazione, per realizzare riunioni efficaci e coinvolgenti. Coordinare una riunione ovviamente non è facile, ma anche questa è una competenza che può essere allenata. Chiedetevi se c’è una qualche forma di allenamento in questo campo nella vostra azienda: è una domanda importante, perché l’allenamento della capa­cità di coordinarsi con gli altri può fare la differenza in tante situazioni.

L’interazione

La buona interazione non è un esito spontaneo né scontato dell’incontro tra persone. Da questa insufficienza della spontaneità, quando si tratta di momenti importanti come le riu­nioni, deriva l’importanza di darsi un metodo.

Il metodo della riunione, come uno schema di gioco, deve essere studiato per mettere tutti in condizione di esprimersi e di interagire al meglio. Sono il metodo e il coordinamento a rendere possibile e fruttuosa l’interazione, facendo di un gruppo una squadra e dando la sensazione che la riunione è utile, perché fa emergere più di quel che ogni singolo potrebbe vedere e pensare da solo. Il fatto che tante riunioni, in molte aziende, siano vissute come inutili, non significa che le riunioni sono inutili in sé, ma che spesso vengono gestite in modo sbagliato, con esiti controproducenti.

L’interazione in gruppo segue dinamiche estremamente complesse, di cui è importante avere una visione d’insieme, per “tenere il polso” della situazione. Può essere utile in tal senso un’immagine ispirata dal libro di un biologo, Henri Atlan, intitolato “Tra il cristallo e il fumo”.

Un gruppo può trovare innumerevoli punti di equilibrio tra i due estremi indicati, alcuni ben più vivibili di altri. Il metodo e il coordinamento servono proprio a trovare e a gestire questi equilibri e a contenere entro un limite ragionevole gli squilibri.

Non c’è, però, un equilibrio perfetto: durante la stessa riunione l’equilibrio può e a volte deve cambiare. È quel che succede, ad esempio, quando si passa dalla fase cosiddetta “divergente” a quella “convergente”.

 

Il giro di tavolo è un esempio di movimento divergente, perché fa emergere una quantità di punti di vista differenti che non necessariamente possono integrarsi. La ricerca di sintesi è un passo successivo, che si alimenta della “divergenza” in vista di una selezione ragionata tra le alternative.

Autovalutazione e vantaggi marginali

«Com’è andata la riunione?». La domanda è troppo importante per lasciare la risposta all’impressione soggettiva dei singoli partecipanti, non condivisa oppure condivisa soltanto nei corridoi.

Nel quadro di una cultura attenta ad apprendere dagli errori, senza correre all’indivi­dua­zione delle colpe e dei colpevoli (no blame culture), è utile dotarsi di strumenti per moni­torare quel che si fa e riflettere periodicamente su come lo si potrebbe fare meglio.

Di questo tema parla in generale un bel libro di Matthew Syed, editorialista del Times, tradotto in italiano con il titolo “Se sbagliamo ci sarà un perché”. Il titolo inglese è molto più espressivo e suggestivo: Black box thinking, ovvero “pensare con la scatola nera”.

L’idea di fondo può essere riassunta così: quando le cose non vanno bene è importante chiedersi perché, mettendo metaforicamente le mani nella scatola nera e ragionando su quel che non ha funzionato, per poi elaborare strategie utili a migliorare, anche poco alla volta, cercando i vantaggi/miglioramenti marginali (marginal gains).

Syed passa in rassegna molti casi, partendo dall’aeronautica e dal settore sanitario per arrivare al team Mercedes (Formula 1), al Team Sky (ciclismo) e a Google. Anche se nel libro non si tratta direttamente di riunioni, possiamo trarne un’indicazione impor­tante anche per il nostro tema.
Ad esempio, con una sperimentazione simile a quella avviata dall’azienda Record Spa: per alcune tipologie di riunioni è stata predisposta una breve scheda, da compilare in uscita dai partecipanti, in forma anonima, e da inserire in una “black box” appositamente predisposta. La lettura delle schede e la raccolta sistematica dei dati permettono di valutare l’efficacia percepita per ogni riunione e di confrontare l’andamento delle riunioni nel tempo.
Ecco un esempio di scheda:

Dopo la riunione

Concludendo una riunione è bene chiarire se sono necessari altri incontri sul tema (per approfondimenti, monitoraggio ecc.) e se sarà pre­disposto un verbale, accertandosi che non restino dubbi sull’obiettivo condiviso e su compiti e strategie che il gruppo ha generato a partire da tale condivisione.

La scheda o altri strumenti per il “black box thinking” aiuteranno a tenere sotto controllo, nel tempo, il consenso sul metodo e sui modi in cui il metodo viene interpretato.

Tutto ciò serve perché quando le riunioni funzionano bene diventano una specie di campo sinaptico privilegiato della vita aziendale.

Checklist

Ecco percorso tipico per verificare quale modello di riunione è in atto nella vostra azienda e come renderla ancora più efficace

  1. Quali sono i principali tipi di riunione svolti nell’azienda? Predisporre una mappa e valutare i metodi adottati (ci sono dei metodi? chi li ha decisi? c’è un solo metodo per tutti i tipi di riunione?)

  2. Esplorare come viene percepita la qualità delle riunioni e quali ipotesi di miglioramento un gruppo è in grado di generare (con almeno una riunione sulle riunioni, preferibilmente guidata da un consulente neutro, esterno)

  3. Affrontare le seguenti domande: come viene svolto il coordinamento delle riunioni? È prevista la figura del coordinatore (che può essere diverso da riunione a riunione)?

  4. Analizzare setting e gestione dei tempi: sono adeguati e coerenti con l’obiettivo di fare riunioni soddisfacenti?

  5. Adottare il sistema “black box thinking” per il monitoraggio costante della qualità percepita delle riunioni aziendali e per rivedere, se necessario, il metodo

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