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Amici , parenti e raccomandazioni: prima causa di mismatch e lavoro di bassa qualità

Articolo. I canali informali non solo influenzano, ma spesso creano danni alle carriere lavorative dei giovani. Precarietà, stipendi bassi e orari indefiniti sono le prime ricadute sulla qualità dei posti trovati. La ricerca diventa sempre più digitale e le imprese sono in ritardo sulle strategie di recruitment. L’analisi e le proposte dei ricercatori Inapp

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I canali che (non) portano all’occupazione

I giovani l’hanno già capito. Per questo saltano un altro livello di intermediazione. Mai trovare un posto di lavoro facendosi aiutare da amici, parenti o dal proprio giro di conoscenze. Fa più danni alla propria carriera fidarsi delle raccomandazioni che avere una lacuna nel proprio curriculum formativo o nelle proprie competenze. A quest’ultime eventualmente si può rimediare, e anche in fretta, basta solo un po’ di formazione adeguata in più. Amici e parenti, invece, quando “aiutano” a trovare un lavoro, il rischio poi è di essere catapultati in un sistema di eccessiva informalità di relazioni, che spesso arriva a intaccare e pregiudicare anche la corretta sfera contrattuale con orari indefiniti, retribuzione inferiore, bassa qualità del lavoro.

Ma è solo una prima anomalia. Spesso ci si trova a svolgere un lavoro completamente slegato dalle proprie competenze e abilità, ecco il primo livello di mismatch fra titolo di studio e capacità personali, in media un giovane su due si è ritrovato con un lavoro inadeguato rispetto ai propri studi. Altro limite: l’utilizzo dei canali informali sembra essere in contrasto anche con la ricerca di un posto di lavoro di qualità, oggi il vero volano di sviluppo sociale ed economico, in particolar modo in una fase di transizione tecnologica.

 

Proprio quando sembrava ormai superata questa dimensione del canale informale per entrare nel mercato del lavoro - basta leggere l’ultima indagine di Randstad - amici e parenti restano in cima e domina le preferenze per cercare e trovare un posto di lavoro.La conferma arriva dall’indagine Inapp, analisi interamente dedicata ai canali di ingresso nel mondo del lavoro. E su questo non c’è dubbio: il canale “amici, parenti e conoscenti” ha intermediato il 23% degli 8,6 milioni di lavoratori che hanno trovato lavoro tra il 2011 e il 2022. E porta a impieghi subordinati a tempo indeterminato nel 55% dei casi, generando di contrasto anche 3 posti su 10 (32%) “non standard” (più precarietà, incertezza sulla durata, minore retribuzione, falso lavoro autonomo).Funzionano meglio i contatti cresciuti nell’ambiente di lavoro o professionale, offrono più lavoro subordinato a tempo indeterminato (64%) con una incidenza del lavoro non standard quasi dimezzata (16%). Opportunità, però, che i giovani e i migliori talenti non possono sempre cogliere non essendo ancora inseriti in un ambiente di lavoro. E quindi impossibilitati a mettere a rendita «l’esperienza lavorativa maturata».
Ne escono malconci i servizi pubblici per l’occupazione, i Centri per l’impiego risultano estremamente in ritardo, depotenziati sia strutturalmente sia sul fronte umano, di qualità e delle competenze richieste per gestire l’orientamento. Tutto a vantaggio dell’informalità della ricerca che resta quindi un fenomeno evidente, oltre che sempre più strutturale.

Le Generazioni X e Z: meglio il digitale

La consapevolezza che sta salendo sempre più – pur di fronte ai risultati che ottiene - è che comunque “l’amico” genera anche anomalie. E qualcosa infatti sta cambiando, soprattutto con le nuove forze lavoro multigenerazionali (Millennials, GenZ, GenX): in pochi anni il mercato del lavoro sarà chiamato a confrontarsi con una nuova cifra decisamente più innovativa: la vetrina digitale. I canali online e le piattaforme digitali saranno in futuro i preferiti dai più giovani per almeno due motivi: consentono di “saltare” la raccomandazione (e quindi il debito di riconoscenza che inevitabilmente innesta e non sempre è positivo).

 

Ma soprattutto consentono l’autocandidatura soprattutto dei più giovani, dimensione già oggi in forte crescita, passata dal 13 al 18% contro l’informalità (amicale o familiare) che comunque già oggi viaggia in almeno il 23% dei casi. Piattaforme digitali, agenzie specializzate con vere e proprie vetrine online per l’offerta di lavoro e servizi connessi (ma comunque ancora inferiori rispetto ai canali informali), ma inevitabilmente un sempre maggiore ruolo e nuovo dei social media. Un approccio che invece resta “un po’ più distante” (a conferma di un vero e proprio divario generazionale nell’suo del canali digitali) per i lavoratori più anziani, i quali si affidano maggiormente ai contatti coltivati nell’ambiente di lavoro e professionale.
«La ricerca di lavoro è ormai un’attività senza soluzione di continuità: le organizzazioni, la tecnologia, i prodotti e i servizi sono in costante evoluzione – spiegano nelle loro analisi Francesca Bergamante, Emiliano Mandrone e Manuel Marocco, ricercatori e curatori dell’indagine Inapp -. E di conseguenza anche le attività, le competenze, le professionalità e il lavoro cambiano. Dunque, le fasi di transizione e di intermediazione – sottolineano - sono sempre più frequenti e ciò richiede servizi dedicati al reinserimento tempestivo dei lavoratori”. Anche perché, come emergere chiaramente dalla ricerca “le modalità di intermediazione, i cosiddetti canali di ricerca di lavoro, influenzano i percorsi di inserimento e le carriere lavorative, con ricadute sulla qualità dell’occupazione reperita».

I sei effetti nefasti dell’informalità sul mondo del lavoro

1. Riduce la dimensione del mercato del lavoro palese, pari complessivamente a soli 8,5 milioni di vacancies (3,7 milioni tra il 2011-2021) limitando la contendibilità delle opportunità;
2. Impoverisce il capitale sociale (relazioni opache generano favoritismo, depressione, fenomeni di selezione avversa), ovvero si crea sfiducia nel sistema, ci si sente esclusi, si percepiscono impari opportunità;
3. Inibisce la capacità di selezione del mercato (10 milioni di impieghi sono stati sottratti al mercato, 4,7 milioni negli ultimi 10 anni), ovvero ‘svilisce il merito’ (le conoscenze e la fedeltà valgono più dell’istruzione e della professionalità) producendo collocazioni inefficienti (le posizioni migliori non sono occupate dalle risorse umane migliori) che comportano nel lungo periodo perdite di produttività, sicché il sistema economico perde di qualità ed efficienza;
4. Contribuisce alla fuga dei cervelli, ovvero le persone con maggior investimento in istruzione, non trovando una collocazione soddisfacente, la cercano altrove, ciò impoverisce il paese e delle famiglie;6. Contribuisce alla (im)mobilità sociale (i figli ereditano le occupazioni/attività dei loro genitori), dunque frena l’ascensore sociale e alimenta l’ingiustizia sociale;
5. Alimenta la crescita del lavoro povero (working poor) dovuta alle relazioni informali (favori, triangolazioni opache, clima ricattatorio), che rendono difficile poter far valere i propri diritti e tutele e rivendicare buone retribuzioni;
6. Contribuisce alla (im)mobilità sociale (i figli ereditano le occupazioni/attività dei loro genitori), dunque frena l’ascensore sociale e alimenta l’ingiustizia sociale.

I freni alla crescita professionale dei giovani

Le attese sul lavoro ne escono compromesse. È il focus centrale: la bassa qualità del lavoro a cui canali “inadeguati” portano e i tanti (troppi) effetti devastanti che il peso di un’eccessiva informalità esercita sulle regole di un corretto mercato del lavoro. I ricercatori di Inapp ne mettono in evidenza almeno sei, ma ciascuno di questi ha poi la capacità di generarne a sua volta diversi altri. Così, fra le conseguenze di un eccesso di informalità il primo a emergere e a pagarne le conseguenze è la competizione ridotta dentro al mercato del lavoro, viene poi cancellato il merito, si favorisce la “fuga di cervelli”, si spingono al ribasso, impoverendole, le condizioni di lavoro (working poor), frena decisamente quando non viene bloccato del tutto l’ascensore sociale. Ma c’è anche un livello precedente tra le tante criticità da affrontare nel mondo del lavoro: la transizione scuola-lavoro emerge dall’indagine come una tra le più lacunose nel percorso verso il lavoro.

 

Sono gli stessi giovani a segnalare le difficoltà più pesanti: non esistono servizi di inserimento adeguati (42%), le offerte sono scadenti (52%), una inadeguatezza per il lavoro (33%), sotto-inquadramento o mansioni modeste (37%). E se si sale solo un po’ di grado rispetto alla incongruenza con la preparazione e la qualità dei candidati, si scopre che le occupazioni offerte e disponibili richiedono una formazione inferiore a quella che si possiede (23%) o, al contrario, una formazione superiore (55%).
Anche qui è necessario trasferirsi (50% dei casi), si ha poca esperienza (50%), si è stato penalizzati dall’età (57%), ma anche dal genere (27%), le offerte economiche non sono basse (53%), le offerte contrattuali non soddisfacenti (56%). Ma anche una mancanza di offerte di lavoro con orario flessibile o part time (44%), servizi di informazione carenti (40%) e, infine, caratteristiche culturali, tratti somatici particolari, usanze e abbigliamento non tradizionale (14%).

Il mismatch, è qui l’origine dell’incoerenza

In questo perimetro c’è un punto evidente, anche perché molte delle disfunzioni del mercato del lavoro oggi discendono da lì: il forte mismatch fra titolo di studio e competenze o abilità possedute ha una prima origine proprio nel canale che si sceglie, e l’informalità è una causa diretta. A differenza dei canali formali dei concorsi pubblici (che significa scuole, università e istituti di formazione dove la coerenza fra titolo e posto arriva all’80%), appoggiarsi alla rete di conoscenze genera percentuali molto elevate di mismatch. Solo il 54% è coerente con le proprie abilità lavorative.

 

E qui il dato svela un ulteriore risvolto sconosciuto: “A creare maggior mismatch sono le agenzie per il lavoro, i sindacati e le organizzazioni imprenditoriali – spiegano i ricercatori Inapp -, che con le quote più basse si collocano negli ultimi posti della classifica per utilità sia del titolo di studio, sia delle proprie competenze”. Un richiamo nemmeno troppo sottovoce perché le imprese pensino a come rivedere e come rimodulare (quando esiste) una migliore e più efficace strategia di recruitment dei profili professionali tanto ricercati, strategie quanto meno all’altezza e che tengano conto delle nuove dinamiche dei bisogni, dei valori considerati e degli spazi virtuali frequentati della nuova offerta di lavoro (i giovani, in particolare).
Un messaggio rivolto alle piccole e medie imprese, perché se l’incidenza dell’informalità per trovare un posto di lavoro diminuisce al crescere della dimensione d’impresa, l’occupazione generata dalle piccole imprese private (1- 10 addetti) è “particolarmente ampia, il 40% del totale, utilizzando in maniera consistente proprio l’intermediazione informale, per oltre il 60%”.

Le anomalie e le irregolarità di un lavoro

Senza arrivare al nuovo grande fenomeno della great resignation (le grandi dimissioni), va anche sottolineato che un pezzo della criticità in cui si imbatte l’efficacia dei meccanismi del mercato del lavoro tocca un altro tema altrettanto dibattuto, e cioè l’alto rifiuto delle proposte di lavoro. Nessun pregiudizio astratto a monte. Ma i giovani su questo tema sono molto chiari e fermi: quattro su dieci sostengono che il più delle volte si tratta “proposte contrattuali inadeguate”. Il 15% dice no per via delle “retribuzioni troppo basse”, mentre quasi due su dieci (il 19%) rifiutano il lavoro offerto per via dell’orario di lavoro ritenuto “eccedente rispetto alle disponibilità”. Ci sono poi altri due gruppi, ciascuno forti di un 12% che hanno respinto l’offerta: il primo gruppo perché “era necessario trasferirsi”, mentre il secondo perché riguardava “impieghi in nero o irregolari”.

 

Troppe sorprese nelle condizioni di lavoro proposte. In particolare come evidenzia la ricerca se si fa leva su amici e parenti. Per questo, da qualche anno, la strada che è cresciuta più di tutti è stata l’autocandidatura, oggi al 18%, evidentemente anche in relazione al ruolo (per alcuni, in particolare) sempre più specializzati nell’intermediazione di lavoro offerte dai social network. Con qualche limite: nonostante solo il 2% degli occupati ha trovato lavoro tramite un’app o social network, “l’intermediazione digitale, se non adeguatamente regolata – avvertono i ricercatori Inapp - rischia di alimentare ulteriormente l’informalità.

Da tenere presente che tra le persone che hanno trovato un lavoro negli ultimi dieci anni si è verificata un’ampia e generalizzata digitalizzazione degli strumenti di ricerca”. Infatti, si è passati dal 25% degli occupati che nel 2000 dichiaravano di aver fatto ricorso a Internet (e-mail, social, siti ecc.) durante la fase di ricerca di lavoro, al 50% del 2010, fino al 75% del 2021, che sale a oltre l’80% per chi ha un diploma o la laurea e si ferma invece al 50% per chi ha al massimo le medie inferiori. “Questo fenomeno – avvertono i ricercatori - va tenuto presente quando si disegna la “burocrazia del lavoro”: deve essere sempre più smaterializzata la documentazione e devono essere informatizzati i servizi –sottolineano -, come del resto suggeriscono le istituzioni internazionali (Oil e Europa), è necessario promuovere una “strategia digitale” delle istituzioni del mercato del lavoro”. Riflessione che i ricercatori avanzano per introdurre una loro proposta su come ridisegnare i servizi dedicati alla ricerca di un lavoro coerente, senza cioè “avere conseguenze rilevanti sulla qualità e quantità delle opportunità disponibili”.

Investimenti per rilanciare un’opportunità

Un quadro sempre più a tinte fosche, quindi? Certamente non definitivo. Uno spiraglio di luce e di speranza i ricercatori lo fanno filtrare partendo però da una consapevolezza, da tenere sempre in mente. «L’opzione irregolare e illegale rimane il “convitato di pietra” di tutte le politiche socioeconomiche realizzate – premettono i ricercatori -. E bisogna tenerne conto anche nella ricerca del lavoro. Il lavoro nero passa attraverso canali di ricerca non formali, non si offre né si accetta una occupazione “in nero” attraverso canali formali (non si mette un annuncio su un giornale per una posizione lavorativa in nero). Dunque l’intermediazione informale è una “condizione necessaria ma non sufficiente” per trovare impieghi irregolari. Se ne ricava – spiegano gli analisti del mercato del lavoro - che per impedire l’ingrossarsi del bacino del lavoro irregolare si dovrebbe contrastare il canale che lo alimenta».
Come erodere allora l’informalità dei contatti? «Innanzittutto, come si sta facendo, ma solo di recente, finanziando e rivitalizzando il ruolo dei canali formali. Il riferimento è in primis al Piano di potenziamento, strutturale ed umano, dei Centri per l’impiego. Nella medesima direzione vanno intesi i nuovi concorsi per la Pubblica amministrazione che devono introdurre risorse umane di qualità e in maniera costante nelle file dello Stato».