Trent'anni fa iniziava la caccia a Et con le sonde spaziali

Trent'anni fa, il 21 ottobre 1993, la rivista Nature pubblicava uno studio in cui si annunciava la scoperta di segni di vita su un pianeta: la Terra. Era il risultato di un insolito esperimento condotto grazie alla sonda Galileo della Nasa da un team di astronomi guidato dal brillante planetologo e divulgatore statunitense Carl Sagan, consulente della Nasa per le più importanti missioni planetarie, ideatore del programma Seti per la ricerca di intelligenze extraterrestri, autore di fantascienza e Premio Pulitzer.

In un periodo non facile per la 'caccia a Et', proprio mentre il Congresso americano stava valutando se tagliare i finanziamenti federali per il programma Seti della Nasa, Sagan ebbe la brillante idea di sfruttare la missione Galileo (lanciata verso Giove nel 1989) per rispondere a una domanda cruciale: è possibile rendersi conto dell'esistenza della vita su un pianeta osservandolo dallo spazio? L'occasione giusta si sarebbe presentata nel dicembre del 1990, quando la sonda avrebbe effettuato un passaggio ravvicinato alla Terra per compiere una manovra che l'avrebbe messa sulla strada giusta per arrivare a destinazione nell'orbita di Giove.

"La brillante idea di Sagan fu quella di far lavorare tutti gli strumenti a bordo in modo integrato, come se il target osservativo non fosse la Terra ma un oggetto ignoto, con un obiettivo unico: la ricerca di forme di vita", osserva Fabrizio Capaccioni, planetologo dell'Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf). La sfida solleticò anche la Nasa, che accettò di accendere gli strumenti scientifici della missione durante il sorvolo non solo per verificarne le prestazioni, ma anche per condurre questo curioso esperimento.



La sonda passò sopra l’Atlantico, l’Antartide e l’Australia, raggiungendo il punto di minima distanza dalla Terra (960 chilometri di altezza) sopra il mar dei Caraibi.
"Utilizzando un approccio agnostico - continua Capaccioni - Sagan ha potuto identificare alcuni criteri legati a processi biologici (la presenza di clorofilla sulla superficie solida, di metano e ossigeno molecolare nell’atmosfera e la trasmissione di onde radio) che hanno permesso di concludere che il pianeta osservato era fortemente indiziato di ospitare forme di vita. Al contrario, le immagini centrate principalmente sull’Australia e l’Antartide, sebbene avessero una risoluzione di pochi chilometri, non hanno mostrato segni di insediamenti o di tecnologie da civilizzazioni. In definitiva, però, le prove a favore sono state maggiori di quelle contrarie e la missione Galileo ha potuto dichiarare che il pianeta osservato presentava prove di attività biologica basata sull’acqua e magari sviluppatasi nel sottosuolo".

L’esperimento ha dunque mostrato che "la ricerca della vita su un altro pianeta richiede una combinazione di evidenze, provenienti dall’analisi di svariati processi fisico-chimici, che si sostengono a vicenda", osserva Capaccioni. "E anche ora che conosciamo più di 5.000 pianeti extrasolari e che il telescopio James Webb sta rivoluzionando il nostro modo di osservare questi mondi lontani, il risultato di quella intuizione di 30 anni fa è ancora estremamente attuale".

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