In Groenlandia cercheremo le tracce dell'idrogeno naturale, una molecola geologica che a lungo ci è sfuggita, ma che ora diventa sempre più importante per un futuro energetico sostenibile.
È una sorgente di energia che, bruciando, non produce gas inquinanti, ma semplicemente acqua. Ed è una sorgente energetica già pronta: l’ha prodotta la Terra in milioni, o più probabilmente miliardi di anni.
È la stessa energia di cui con grande probabilità hanno avuto bisogno le prime forme di vita sulla Terra. Ma dell’idrogeno geologico sappiamo ancora poco, e partiremo proprio dalle osservazioni sul campo, con i nostri occhi, lente di ingrandimento, martelli e scalpelli.
Il nostro obiettivo è capire come l'idrogeno si forma e dove, e come reagisce con le rocce, in due settimane di intenso lavoro tra i fiordi del Sud della Groenlandia per il progetto ERC DeepSeep finanziato dall’Unione Europea.
Ci sposteremo verso Sud in barca, partendo dalla capitale, Nuuk, guidati dal Capitano Erik Palo Jacobsen. Al nostro gruppo del DeepCarbonLab dell'Università di Bologna si aggiungeranno un collega del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Torino, uno studente di Copenaghen, e un fotogiornalista per documentare la spedizione. Guarderemo rocce antichissime. Dovremo scegliere i migliori campioni da riportare con noi in laboratorio per analisi più approfondite, tra condizioni climatiche per ora incerte, ma fiduciosi di fare un passo importante per il futuro.
Il lavoro di campo si è concluso ieri. Oggi ci svegliamo sotto la pioggia. Dobbiamo smontare il campo e le tende, per poi salire in barca e raggiungere Nuuk, dopo circa 5 ore di viaggio. Siamo visibilmente stanchi. Il freddo, il vento, la pioggia, e il sonno disturbato dalla luce naturale si aggiungono alla fatica del nostro lavoro sul campo. Facciamo colazione sulla barca già in movimento, ancora infradiciati. Abbiamo tutti bisogno di qualche ora di quiete.
Durante i prossimi due giorni avremo un’intensa agenda di operazioni per preparare la spedizione dei campioni raccolti. Servono permessi di esportazione, e serve imballarli in modo che arrivano intatti a Bologna. Gli spedizionieri non sono abituati a trasportare rocce. Si potrebbe pensare che siano dure e resistenti, ma se sbattono tra di loro si danneggiano, o soprattutto possono perdere il codice che gli abbiamo dato per risalire a dove li abbiamo raccolte e perché. Abbiamo raccolto 207 campioni, che tra piccoli e grandi ci porteranno facilmente intorno ai 200 chilogrammi di roccia. Arrivati Bologna inizieranno le analisi in laboratorio. Cercheremo anche di goderci le ultime ore in Groenlandia. Visiteremo qualche museo e cercheremo di imparare il più possibile su un territorio e una popolazione che, durante questa spedizione, ci hanno accolti e affascinati.
Siamo venuti a cercare tracce di idrogeno naturale. Non lo vogliamo estrarre per scopi economici, ma semplicemente cercare di capirlo. Siamo abituati, nelle nostre case, a conoscere l’acqua e l’olio, o il gas, o il miele. Sono tutte sostanze fluide, ma sappiamo benissimo quanto diversamente si comportino quando cuciniamo. I geologi conoscono molto bene i fluidi naturali, come si spostano all’interno della roccia e come reagiscono o non reagiscono con essa. Ma per l’idrogeno è diverso. Sappiamo da molto tempo che esiste, ma si è sempre pensato che fosse presente in piccolissime quantità. Poi si scopre per caso che, in diversi posti al mondo, è accumulato sotto i nostri piedi, o esce spontaneamente dalla roccia da migliaia o più probabilmente milioni di anni.
La domanda che tutti ci fanno è se e quando lo potremo usare come energia pulita. La risposta, per me, è che non lo sappiamo ancora. Di per sé, l’idrogeno geologico è del tutto analogo a quello industriale, e in alcune parti del mondo è usato da anni come fonte energetica. Ma la possibilità di utilizzarlo dipende anche da leggi di mercato e sopratutto da quanto idrogeno è presente nel sottosuolo e dove. Ci serve sviluppare una cultura geologica nuova, sull’idrogeno, che ancora ci sfugge in gran parte. Noi lo stiamo facendo nel nostro laboratorio bolognese. Ma dobbiamo farlo in fretta perché realmente possiamo contribuire a un’esigenza di tutti, e soprattutto di quelli che verranno dopo di noi. E sono convinto che l’idrogeno geologico possa aiutare.
Oggi è il nostro ultimo giorno di lavoro sul campo, prima di tornare a Nuuk per concludere la spedizione. L’isola dei pesci, sulla quale ci troviamo, è fatta di rocce formatesi nell’Archeano, circa 3 miliardi di anni fa. Anche per un geologo è difficile abituarsi a pensare a rocce così antiche. Non solo perché sono antiche, ma anche perché ci parlano, letteralmente, di un altro pianeta. Tre miliardi di anni fa, la Terra era molto diversa da oggi. Tutto ciò che vediamo o immaginiamo sulla Terra di oggi era molto diverso prima di circa 2.2 miliardi di anni fa. L’atmosfera sarebbe stata irrespirabile per l’uomo, e le forme di vita presenti erano molto diverse. Anche all’interno della Terra, molto era diverso e moltissimi minerali che oggi conosciamo e che spesso formano i nostri davanzali di casa non esistevano, o erano molto rari. La percezione che spesso si ha è che tutti i processi, nell’Archeano, fossero molto più veloci. Almeno questa è sempre stata la mia percezione. In realtà, l’incertezza che abbiamo nel comprendere questi periodi della Terra è grande, tanto grande da farci scappare episodi importanti e lunghi almeno tanto quanto la storia dell'intero Mediterraneo.
Alle latitudini alle quali ci troviamo, e in questo periodo dell’anno, in sostanza non fa mai buio. Per chi studia le rocce e ha pochi giorni per farsi le idee chiare, è una risorsa preziosa. La serata è stata bella, uno di quei momenti di una spedizione faticosa che non si dimenticano. Abbiamo montato il campo con le tende e ci siamo procurati la cena pescando. Alle 23 però, con Orlando e Thomas decidiamo di fare ancora qualche osservazione verso la costa nord dell’isola. È un momento di lavoro spensierato, senza troppe pretese, al punto da farmi lasciare il martello e lo scalpello al campo base. Abbiamo la pancia piena e non tira un filo di vento. La luce è sufficiente per poter vedere le rocce e intuirne le strutture e i colori, ma non molto di più. Ritorneremo domattina. Ora però ci concediamo una foto di mezzanotte.
Lasciamo Arsuk, con un po’ di nostalgia. Un piccolo villaggio che ci ha accolti con grande ospitalità. Ci spostiamo verso Nord in direzione Nuuk, fermandoci per due notti a metà strada per guardare alcune rocce simili a quelle che abbiamo studiato negli ultimi anni in Corsica, negli Stati Uniti, e in Mongolia. Ci sono diverse ore di viaggio in barca. Siamo affaticati e una buona parte del viaggio passa in silenzio. Di tanto in tanto qualcuno racconta qualcosa, o fa una battuta. Durante le spedizioni non è sempre scontato trovare un’armonia tra i partecipanti. Si possono mischiare tra di loro caratteri diversi, culture diverse e, da non sottovalutare nella scienza, anche scuole di pensiero diverse.
Credo di essere stato molto fortunato per questa spedizione. Nel gruppo siamo in sette. Orlando è un appassionato di minerali e di fluidi geologici, maestro scalpellino (che è una qualità che richiede anni di addestramento). Thomas è il tecnico responsabile del nostro laboratorio analitico a Bologna. Ha competenze geologiche ampie e grande esperienza in montagna. Claudia è appena arrivata nel gruppo, da Porto Rico. Ci conosciamo ancora poco, ma subito capisco che il suo occhio finisce subito sulle cose importanti. Un personaggio preziosissimo che conosco da quasi vent’anni è Gianluca: vede e pensa le rocce in grande scala, leggendone le strutture. Benjamin è uno studente di Copenaghen che si è unito a noi per questa spedizione. Studia anche lui la Groenlandia, in altre zone, e la sua esperienza è sempre utile. Io, credo, tendo a pensare ai processi che hanno formato le rocce e alle composizioni chimiche che li rendono possibili. Ma mi tocca anche l’incombenza di tenere in ordine il grosso progetto europeo che ci ha finanziati e fare in modo che tutti riescano a fare il proprio lavoro. E poi c’è Jacopo, che ci segue per documentare con foto e video come funziona il nostro lavoro sul campo e per insegnarci come comunicarlo. Un ottimo gruppo.
Verso le 18 arriviamo a destinazione. Ci infiliamo all’interno di un gruppo di isole per raggiungere la nostra destinazione. Il Capitano Erik e il suo secondo Nujalina studiano una piccola insenatura lungo la costa dell’isola sulla quale si trovano le rocce che vogliamo studiare. La baia è abbastanza profonda per poter ancorare la barca. “Un gruppo esplora l’isola per montare il campo base, e un altro cerchi di catturare dei pesci, siamo a corto di cena”, comunica il Capitano. Ci distribuiamo le radio, e io parto con Nujalina e Benjamin a pescare lungo la costa della piccola isola. Dopo qualche decina di minuti sento dalla radio che il posto per il campo base è stato trovato, abbastanza riparato dal bento, e non troppo vicino a zone paludose. Poco dopo le tende saranno montate. E proprio in quel momento un pesce abbocca al mio amo. Una trota, che sarà seguita da undici merluzzi. Avremo una cena, con vista sull’isola che scopriremo poco dopo chiamarsi L'isola dei pesci.
È il nostro ultimo giorno della zona di Arsuk. Un piano B rispetto al nostro programma iniziale che ogni giorno si rivela più interessante. Dobbiamo esplorare un’isola più a Sud, dove, se le idee che ci siamo fatti sono corrette, dovremmo trovare rocce molto utili al nostro lavoro. E così sarà. Il mare è piatto e in poco meno di un’ora saliamo sul gommone per essere scaricati sul primo sperone di roccia non troppo scivoloso.
La barca ci aspetterà in una sottile lingua di acqua riparata dal vento, che si attende forte nel pomeriggio. Non potremo tornare ad Arsuk per la via dell’andata, ma pianifichiamo con il Capitano di aspettare l’alta marea che, verso le 19, renderà accessibile un piccolo passaggio tra due isole più a Est, protetto da vento e correnti.
Dopo poche ore si alza il vento, freddo e che ci sembra venire da tutte le direzioni. Il Capitano ci annuncia di aver avuto informazione che il passaggio scelto per la via del ritorno è intasato da ghiacci alla deriva, e che il vento è troppo forte per tornare dalla strada dell’andata. Dovremo aspettare che il vento cali, nella notte. È una giornata di sole pieno, e quando il vento si calma per qualche secondo sentiamo un gran caldo.
Alle 19 in punto Il Capitano ci chiama alla radio. “Alberto, mi senti? Il passaggio si è aperto, non durerà molto, dobbiamo andare ora, tornate subito alla barca”. Attraversiamo l’isola da Sud a Nord a passo svelto, per circa due chilometri.
Dopo dieci ore di lavoro, due chilometri a passo svelto con gli zaini pieni di rocce si fanno sentire. Arrivati alla barca, tutto era già cambiato. Il passaggio si è richiuso, e dal mare aperto il vento sta portando altri ghiacci che presto chiuderanno il fiordo. L’unica possibilità di tornare ad Arsuk è sfidare il vendo forte e le onde prima che i ghiacci si avvicinino, altrimenti rischiamo di rimanere isolati. Il nave Sterna sfida le onde alte e raffiche di vento fino a 30 metri al secondo, facendo lo slalom tra i pezzi di ghiaccio. Il Capitano è concentrato e sicuro di portarci a casa, così come accadrà poco più di un’ora dopo.
Gli abitanti della Groenlandia sono principalmente Inuit, come quelli che popolano i lembi più estremi del Nord del Canada e dell’Alaska. Sono popoli che da secoli conoscono ambienti che per noi sono estremi, come il freddo, i cambiamenti meteorologici improvvisi, e la mancanza di cibo. Sono marinai e cacciatori. Il Capitano Erik e il suo secondo Nujalina ci raccontano delle loro tradizioni, del loro rapporto con la natura, del loro humor, e dei loro racconti di paura per i quali si spaventano e poi ridono assieme. Quando ero piccolo, mio padre viaggiava spesso in Canada per lavoro, riportando piccole sculture Inuit fatte in pietra, di orsi che danzano o foche messe in posa, o bamboline in osso di caribù. Una cultura antiche e spirituale che, ritrovata qui in Groenlandia, mi riporta in qualche modo a casa e indietro nel tempo.
Oggi ci concediamo una giornata più leggera. Le attività sul campo sono stancanti: si lavora anche se fa caldo, o freddo, o sotto la pioggia. Usiamo martelli e scalpelli per ore e ci riempiamo gli zaini di rocce, trasportandole per chilometri in discesa o in salita. Dopo una sveglia spontanea –nei giorni scorsi ci siamo svegliati tra le 5 e le 6–, decidiamo di dedicarci alle rocce nei dintorni del villaggio in cui facciamo base, Arsuk. Usciamo con la nostra attrezzatura: abbigliamento tecnico, scarponi, zaino con radio e dispositivi di sicurezza satellitari agganciati agli spallacci, occhiali da sole, macchine fotografiche a tracolla, e soprattutto martelli di varie misure sempre pronti in mano. Alcuni abitanti del villaggio ci guardano sorridendo mettendoci a nostro agio.
Sulle spalle del villaggio di Arsuk si erge una grande montagna. Sembra un enorme panettone con pareti quasi verticali e liscissime, come se fosse appena uscita dal terreno. Ha per 1.2 miliardi di anni. Le rocce che la formano hanno particolari minerali che, reagendo con l’acqua, possono liberare idrogeno. Saliamo sulle pendici della montagna fino a quanto possibile. Non sappiamo se le rocce che raccogliamo nei primi metri delle pareti conterranno idrogeno, ma sono campioni che vanno presi.
Invece sappiamo che, a qualche chilometro da Arsuk, esiste una miniera abbandonata, la miniera di Ivigtut. Veniva estratto un minerale chiamato cryolite, uno strano solfato, di cui onestamente ignoravo l’esistenza. Però Orlando, dottorando nel nostro gruppo di ricerca, conosce tutto sulla cryolite e sui minerali più strani che esistano, e si ricorda che proprio nella cryolite di quella miniera sono state trovate piccole goccioline di fluido intrappolate contenenti metano, una molecola a cui piace accompagnarsi all’idrogeno. Partiamo allora in barca per qualche decina di minuti, per poi passare il pomeriggio a caccia di cryolite negli scarti della miniera. Tutte le vecchie minare sono affascinanti, tra case abbandonate e vecchi macchinari arrugginiti. Questa è speciale perché è a bordo acqua tra i fiordi della Groenlandia, e ospita anche quel che resta del Tennis Club della miniera.
Oggi il tempo è splendido. C’è un bel sole caldo e giusto un filo di vento che tiene lontane le enormi zanzare che popolano i fiordi. E anche le rocce che guardiamo, nell’isola di Storø, a Sudovest di Arsuk, ci raccontano una storia di grande calore. Scendendo dalla barca vediamo rocce fatte da ovali bianchi, da pochi centimetri a qualche decina, in uno sfondo verde scuro. Nessuno di noi ha mai visto niente del genere.
In una piccola baia la marea bassa permette di vedere delle pareti di roccia levigate dall’acqua. Nonostante l’aspetto un po’ monotono, guardando con la lente di ingrandimento riconosciamo diversi minerali, alcuni rossi, altri verdi, e altri ancora bianchi. Non ci sono molti modi per spiegare quei minerali in quelle rocce se non con un processo chiamato "metamorfismo di contatto".
In sostanza, una grande intrusione di magma ha scaldato le rocce circostanti fino a cuocerle e trasformarle, senza però fonderle. Non sappiamo quando questo sia avvenuto, e non sappiamo che relazioni questo processo possa aver avuto con l’idrogeno che stiamo cercando. Ma cercheremo di capirlo.
Il lato orientale dell’isola di Storø è fiancheggiato da quattro piccole isolette, a circa 400 metri di distanza. Lo spazio tra Storø e queste piccole isole è costellato da decine di piccoli blocchi di ghiaccio che spuntano dall’acqua. Sullo sfondo si vedono delle cime innevate La vista è stupenda. Il poco vento e la giornata di sole mi permettono di connettermi per un’intervista sulla nostra spedizione durante le osservazioni sul campo e senza dover tornare al nostro campo base.
Appoggio il computer su un grande masso a pochi metri dall'acqua, e ne sposto uno più piccolo per sedermici sopra. Un ufficio all’aria aperta, in Groenlandia. Nello schermo vedo la mia immagine con uno sfondo stupendo. Il giornalista mi chiede se è uno sfondo registrato. È un momento molto bello che mi permette di non sentire l’emozione dell’intervista che tra due gironi dovrebbe essere trasmessa dalla televisione nazionale. Poco dopo si torna al lavoro. Gli altri si sono allontanati ed è bene raggiungerli. Non sarebbe divertente incontrare un orso polare da solo.
Oggi ci spingiamo all’interno dei fiordi, verso Sud-Est. Cerchiamo di trovare conferme a quanto visto e immaginato nei giorni scorsi.
Una carta geologica mostra, con colori diversi, i tipi di rocce presenti in una certa zona. Le carte geologiche di questa parte della Groenlandia hanno enormi aree di un solo colore, o piccole aree con tantissimi colori. Noi stiamo lavorando sulle piccole aree con molti colori, che poi non sono in realtà per nulla piccole.
La storia geologica di terreni così antichi è però lunga e complicata, e riuscire a capire quello che il cartografo ha voluto rappresentare quasi 50 anni fa non è sempre facile. La mattinata di oggi è infatti stata difficile proprio per questo: la carta geologica riportava rocce che non abbiamo trovato, e molte distinzioni tra rocce diverse non erano per nulla evidenti. Sono momenti in cui è difficile rimanere pazienti. In Groenlandia non si può venire tutti i giorni, i costi sono elevati, e il tempo stringe.
Però, ora dopo ora iniziamo a mettere dei punti fermi e a capire cosa un nostro predecessore di 50 anni fa ha cercato di dirci con conoscenze molto diverse da quelle di oggi. Ma oggi è anche stato il giorno degli avvistamenti. L’area del pomeriggio è forse uno dei posti più belli in cui sia mai stato.
Scendendo dalla barca su una parete di roccia molto ripida, risaliamo di qualche decina di metri per poi trovarci su una sorta di terrazzo con grandi distese di roccia ondulate, e una vista meravigliosa sui fiordi e su una lingua di calotta glaciale. Arrivati su una roccia, uno di noi vede dell’altra parte di una piccola valle un bue muschiato, non troppo infastidito dalla nostra presenza.
Poi, tornando al villaggio di Arsuk in barca, una balena decide di farsi osservare tra un’immersione e l’altra, a poche decine di metri dalla barca. Il primo pensiero va a chi ci aspetta a casa. Chissà se Lucio e Elisabetta avranno mai la fortuna di vedere un bue muschiato e una balena, e per giunta lo stesso giorno.
Finalmente il sole. Dopo un’ora di lavoro sotto un cielo ancora coperto, iniziamo a vedere riflessi di cielo azzurro nelle acque dello stretto di Torsukatak. Sono panorami bellissimi che ancora non avevamo visto, tra il blu scuro dell’acqua e l’azzurro del cielo, il bianco della neve, delle nuvole e degli iceberg, e il verde dei prati si arrampicano fino a quanto riescono sui pendii dei fiordi.
È un giorno importante. Nonostante la spedizione si sia dovuta adattare a condizioni naturali non favorevoli, le osservazioni raccolte di ieri sono state molto incoraggianti. Oggi proviamo di testarle al più possibile, facendo confronti incrociati cercando le risposte che i colleghi potrebbero farci, e alle quali non potremmo facilmente rispondere senza aver organizzato al meglio le nostre operazioni sul campo.
Per tutta la giornata troviamo indizi di una storia complessa che coinvolge il carbonio delle rocce e, con buona probabilità, anche l’idrogeno. Il carbonio e l’idrogeno amano reagire assieme. Dato che ancora molto ci sfugge sull’idrogeno, nel nostro gruppo cerchiamo di scovarlo tracciando il carbonio, che al contrario ama farsi vedere nelle rocce. Ma non avremo la risposta definitiva fino a quando i campioni saranno processati in laboratorio. Questa sera tenteremo di costruire un piccolo dispositivo per provare a fare analisi preliminari, usando un martello, uno scalpello, un guanto di gomma, un analizzatore di gas portatile, e tanto nastro adesivo.
Per pranzo risaliamo in barca, che ci porterà subito dopo a terra per studiare rocce bianchissime che formano la punta della penisola di fronte, distante soltanto un centinaio di metri. Eppure, dai due lati dello stretto, le rocce sono circa un miliardo di anni più vecchie di quelle viste la mattina. Per chi è abituato a immaginare i tempi geologici, è una bella emozione.
Sveglia alle 5. Il Capitano ci attende alle 6 al porto. Il tragitto da fare è breve, circa 15 minuti. Il cielo è coperto, ma non piove. L’isola di fronte al villaggio di Arsuk è la più simile alle rocce inizialmente identificate più a Sud per questa spedizione, ma ancora non raggiungibili per i ghiacci. Appena sbarcati siamo molto emozionati: sono le prime rocce appartenenti all’evento geologico di circa 1.8 miliardi di anni che siamo venuti a studiare.
Sappiamo da nostre analisi precedenti che c’è idrogeno nelle rocce, e siamo qui per cercare di capirne di più. L’idrogeno geologico è una nuova frontiera. A lungo abbiamo creduto fosse molto raro, ma ora e sempre di più emerge come una molecola più comune del previsto. Ma questo vuole anche dire che non siamo ancora abituati a capire come si manifesta e come le rocce ci fanno capire della sua presenza. Il primo affioramento di roccia però ci sembra non lasciare dubbi. Spaccando le prime rocce vediamo le stesse strutture che ormai da circa 3 anni abbiamo identificato in altri luoghi del pianeta come caratteristiche della presenza di idrogeno. Purtroppo dovremo attendere le analisi in laboratorio per confermarlo.
Il vento non si è ancora alzato e alcuni di noi sono già attaccati da enormi zanzare che non attendono che i pochi visitatori di queste isole. Per proteggerci i volti indossiamo cappelli da cui pende una retina nera molto fitta. Poco dopo il vento si alza, ma arriva anche la pioggia che ci accompagnerà fino alle 12:30, ora di appuntamento con il Capitano per tornare ad Arsuk prima dell’arrivo di una nuova tempesta. Osservare le rocce sotto la pioggia non è semplice. L’acqua nasconde i dettagli, ci impedisce di scrivere sui nostri quaderni, e soprattuto ci bagna da testa a piedi. Dopo qualche ora gli scarponi e i vestiti iniziano a diventare freddi, e col vento si fa molta fatica. Alle 12:30 puntuali, Il capitano ci attende con lo zodiac sulla costa per riportarci a bordo.
È il primo giorno di lavoro sul campo, nonostante sia un piano B, in attesa che le condizioni di meteo e ghiacci siano chiarite. La carta geologica del promontorio di Paamiut sembra molto semplice, tre tipi di rocce. Prevediamo di raccogliere un campione per tipo.
Ci rendiamo però subito conto della reale complessità delle rocce e delle semplificazioni che le carte geologiche spesso richiedono. Ci spostiamo a piedi verso il piccolo aeroporto di Paamiut per vedere gli affioramenti a bordo strada, in genere ben esposti e scavati dai lavori stradali.
I più “freschi", come si dice in gergo. Il cielo è coperto, con nuvole che sis postano veloci. Tira un gran vento e le mani gelano senza guanti. Raccogliamo in fine dieci campioni. Senza poter realmente immaginare cosa troveremo una volta preparati per essere studiati al microscopio.
Alle 15:30 risaliamo in barca, direzione Arsuk. La distanza non è molta, ma il mare è mosso e il vento soffia forte da sud, opposto alla nostra direzione. Navighiamo saltando sulle onde tra iceberg di diversi colori e distese di ghiacci artici alla deriva. Arriviamo ad Arsuk alle 19:30.
Il villaggio di Arsuk è fatto da qualche decina di case colorate arroccate attorno a un piccolo golfo. Per la notte è ancora previsto forte vento. Grazie ai contatti del Capitano troviamo ospitalità nella scuola del paese, chiusa per la pausa estiva. Siamo molto grati alla popolazione locale per l’accoglienza. Domani ci aspetta un’intensa mattinata di lavoro, prima dell’arrivo di una nuova tempesta, più forte di quella di ieri.
Siamo partiti da Nuuk questa mattina. La barca è stata caricata dei nostri bagagli e di cibo per le prossime due settimane. Il Capitano, Erik, ci accoglie a bordo e ci spiega brevemente le regole a bordo. Dobbiamo raggiungere il prima possible il villaggio di Paamiut, prima che la tempesta prevista tra questa sera e domani si avvicini.
Le prime ore di viaggio sono molto emozionanti. Paesaggi nordici impressionanti, tra fiordi, falesie di roccia e enormi lingue glaciali. Ma le emozioni più forti sono per i primi iceberg che spuntano dall’acqua blu scuro. Sono i primi iceberg che vedo nella mia vita. Siamo passati a fianco a una foca che nuotava a dorso. Verso le 15:30 siamo arrivati a Paamiut. Il cielo si è già fatto grigio e le prime pioggie di pioggia fitta iniziano a cadere.
Abbiamo giusto tempo di raggiungere a piedi l’hotel Ivaana, che certo non mi immaginavo di trovare in villaggio così piccolo. Il resto del pomeriggio studiamo la carta geologica locale per identificare dei target per la giornata di domani sull’isola, con pioggia e forte vento. Sono rocce antichissime, formatesi quasi tre miliardi di anni. La Terra era davvero diversa a quei tempi e solo queste rocce possono darci delle informazioni per immaginarla.
La prima notte senza buio si è fatta sentire. Percepire la luce che entra dalle finestra la notte non aiuta il sonno. Le prime ore della mattina ci servono per riprendere fiato. Facciamo una piccola spesa per colazione vicino all’ostello dove soggiorniamo, e poi torniamo in ostello per discutere delle ultime urgenze logistiche da risolvere la mattina stessa presso gli uffici della capitale. Si tratta di permessi per attività scientifiche e polizze assicurative in caso di soccorso.
Quando i piani di una spedizione cambiano all’ultimo minuto, tutto al contorno di deve adeguare per tempo.
Nuuk è una città in espansione. È fatta da piccole case colorate che si alternano a nuove costruzioni. E soprattutto speroni di roccia che spuntano ai bordi delle strade e in mezzo alle case, per poi riempire l’orizzonte nei fiordi.
A pranzo incontriamo Erik, il Capitano della barca che ci guiderà verso Sud. È un incontro importante perché le prossime due settimane di lavoro dipenderanno anche dalle relazioni personali che nasceranno a bordo. Con Erik discutiamo la situazione sui ghiacci alla deriva e sulle condizioni meteo, che resta ancora incerta oltre le prossime 48 ore. Discutiamo della logistica durante la spedizione, delle possibili rotte, dei pasti e del campo base. Ci chiede poi qual’è lo scopo della nostra spedizione e perché la Groenlandia è il posto giusto. Non manca una lunga discussione sui rischi di incontrare orsi polari e sulle precauzioni da prendere. Domani partiamo in barca alle ore 8:30 del mattino.
Dopo due giorni di grandi incertezze e un’iniziale cancellazione della spedizione, oggi partiamo. Un gigantesco accumulo di blocchi di ghiaccio artico alla deriva sta bloccando l’accesso ai fiordi scelti per le nostre ricerche. Si aggiunge il possibile arrivo di una tempesta giovedì. Ma dopo aver valutato un piano B con i membri del gruppo e il Capitano della barca, abbiamo deciso di partire, in attesa di previsioni meteo più accurate per la fine della settimana. Prima tappa Malpensa. Il nostro arrivo a Nuuk è previsto alle 23:55 ora locale. Sull’aereo e durante lo scalo in Islanda usiamo ogni minuto libero per continuare a studiare le carte geologiche a Nord della zona inizialmente scelta dove, almeno per i prossimi tre giorni, dovremmo essere in sicurezza.
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