Mario Curnis, il «biondino»: nel ’64 fondò il Cai Nembro, oggi è il più grande d’Italia

L’ALPINISTA LEGGENDARIO. Fu anche il primo presidente della sottosezione che ora festeggia il 60° di vita. «Ci davano dei matti, allora si andava in montagna per far la legna e le castagne. Per noi, era sentirci liberi».

«Ci prendevano per matti, non eravamo assolutamente visti di buon occhio». Quando la mente corre agli inizi della sua passione per l’alpinismo, all’88enne Mario Curnis scappa un sorriso. Una vita ai limiti dell’eremitismo nella sua cascina sopra San Vito, raggiungibile con una decina di minuti di camminata staccandosi dalla strada che da Nembro sale a Selvino. Mario è qui con la moglie Rosanna e otto gatti. Legge e scrive. Tantissimo. «È molto importante scrivere tutta la propria vita. I giovani non lo fanno, ma serve scrivere quello che ti succede». Davanti a sé, oltre al quaderno aperto, ci sono due libroni enormi pieni delle sue parole.

«È molto importante scrivere tutta la propria vita. I giovani non lo fanno, ma serve scrivere quello che ti succede»

«L’alpinismo a Nembro è nato molto prima della fondazione del Cai» inizia a raccontare tornando a quel 1964, quando con altri amici ha dato inizio all’avventura della sottosezione del Cai del paese seriano, che oggi vanta il titolo di più numerosa d’Italia con i suoi 1.173 iscritti. «Io e altri ragazzi ci trovavamo nell’osteria di Leone Pellicioli, che era una guida alpina famosa, morto nel 1958 colpito da un fulmine». Il locale a Nembro, nella zona della chiesa, rappresentava un crocevia di alpinisti. «Di lì passavano i grandi alpinisti quando tornavano dalle loro salite. Noi eravamo dei ragazzotti un po’ squattrinati, ci piaceva stare lì ad ascoltarli, li vedevamo felici e dai loro racconti si è nutrita la nostra passione».

I compagni di avventura di Curnis

Insieme a Curnis c’erano Pietro Bergamelli detto «Stremasì», Carlo Nembrini, Vittorio Bergamelli e tanti altri giovani, che hanno reso Nembro, già alla metà del secolo scorso, un paese di primo piano sulla scena dell’alpinismo. «Quando è morto Leone, ci siamo trovati tutti senza il nostro punto di riferimento. Era il nostro maestro».

Le montagne che i «ragazzotti» di Nembro frequentavano all’inizio erano, necessariamente, quelle a due passi da casa. «Ci spostavamo in bici, le strade erano sterrate. Andavamo spesso ad arrampicare in Cornagera, quando andava bene anche sulla Grigna, dove venivano i migliori arrampicatori italiani. Io amavo avvicinarmi e stare ad ascoltarli. Quando mi dicevano “Vieni con noi, biondino” ero felicissimo».

Le loro salite facevano discutere in paese: «La maggior parte delle persone non capiva la nostra passione per le montagne: si poteva capire andare in montagna per raccogliere le castagne o fare la legna, ma non andare a camminare o arrampicare. Eravamo malvisti, ci davano dei disgraziati, anche perché negli anni ci sono stati anche diversi morti».

«La montagna, un modo per sentirmi libero»

Così anche in famiglia. «Quando nel ’62 sono stato sulla Nord dell’Adamello per la prima invernale, L’Eco di Bergamo parlò della nostra spedizione. Al bar dissero a mio papà che suo figlio era sul giornale e lui rispose che un matto in famiglia ce l’hanno tutti». Ma questo non l’ha mai scoraggiato: «Per me è sempre stato un modo per sentirmi libero».

L’esperienza del Cai di Nembro nasce da questa passione condivisa: «Eravamo giovani, ma avevamo un desiderio di conoscere, di ascoltare i più esperti, di leggere. Io mi sono avvicinato al Cai proprio per questo: avere libri da leggere, perché prima di andare in un posto è importante informarti sulla sua storia, su chi c’è già stato, su tutte le vie che ci sono».

Ma non è certo stato facile entrare nel gruppo, che aveva un tempo prerogative ben diverse da oggi. «Non potevamo prendere la tessera del Cai perché bisognava essere laureati. Era un club chiuso, elitario, io ero un muratore e all’inizio era impensabile avere la tessera».

La povertà Curnis l’ha provata sulla pelle

Prima ancora di scrivere i libri di successo, su tutti «Diciotto castagne», in cui esalta l’essenzialità e la frugalità. «Quando arrivavamo nei rifugi dicevamo di non avere fame, ma perché non avevamo i soldi. Anche negli anni successivi, mi capitava di tornare la domenica sera a mezzanotte dalla montagne e di partire il lunedì mattina alle 6 per il lavoro».

Nonostante questo, in tutta la sua vita Curnis non ha mai accettato le spedizioni pagate dagli sponsor: «Ho fatto quelle offerte dal Cai, ma non ho mai voluto gli sponsor. Volevo essere libero di andare con chi volevo io, per sentirmi più libero». Anche perché, come ripete spesso, «l’alpinismo non è un gioco».

Dietro le sue tantissime salite, ama ricordarlo mentre lei le serve una tazza di tè, c’è sempre stata la fedeltà di sua moglie. «Quando tornavo, anche tardi, lei era sempre pronta ad accogliermi e si metteva il vestito più bello. È stata la mia forza. Guai se vai a fare alpinismo lasciando la casa con rabbia: quando arrampichi la mente deve essere tranquilla, non avere pensieri che la bloccano». Rosanna arrossisce ancora mentre Mario racconta: «Lei è una lettrice spaventosa, ha una cultura di alpinismo più grande della mia».

La nascita del Cai di Nembro

Il Cai che a Nembro è nato, sotto la presidenza di Curnis, con poche decine di appassionati,

oggi supera il migliaio di iscritti. Ma a questa informazione solleva le spalle. «Io non sono più informato su come vanno le cose, perché è giusto che gli anziani facciano un passo indietro e lascino andare avanti i giovani. Il Cai di Nembro ha un presidente bravissimo (Pietro Gavazzi - ndr)».

Sull’esplosione della frequentazione della montagna degli ultimi anni, però, qualche perplessità ce l’ha. «Molti vedono tante cose attorno a sé senza guardarle e apprezzarle.

«Molti vedono tante cose attorno a sé senza guardarle e apprezzarle»

Serve una cultura della montagna, che parte dal leggere tanto. Io ancora oggi mi innamoro dei sassi che incontro». E a questo punto Curnis si alza dalla sua sedia e indica tutte le raccolte di sassi che ha disseminato nel giardino della sua cascina. Ne passa tanti tra le mani, forme e dimensioni diverse, frammenti delle sue storie. «C’è anche chi, oggi, si vanta tanto delle proprie imprese in montagna, ma forse non sa che non ha fatto niente di utile per gli altri. La società non ha bisogno né di calciatori né di scalatori: è un hobby e va benissimo, ma bisogna sempre restare umili».

Mentre sfoglia le pagine dei suoi quadernoni, Curnis risponde senza esitazione quando gli si chiede se ha dei rimpianti nella sua vita. «Assolutamente no, nessuno. Ho avuto una vita bellissima, sono stato nei posti più belli del mondo, dalla Russia al Sudamerica».

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