Il focolaio rimasto nascosto
69 casi non rilevati al 3 marzo

Regione invia all’Iss un report che non contempla i tamponi positivi già eseguiti e non ufficializzati. Bergamo aveva già superato Lodi.

Il 3 marzo 2020 in tutta la provincia di Bergamo sono 69 i casi sottoposti a tampone non ancora ufficializzati da Regione Lombardia e dunque non comunicati all’Istituto superiore di sanità. Oggi lo chiameremmo focolaio. Ma in totale, prendendo in esame anche le 24 ore tra il 2 e il 3 marzo, il conto sale fino a 207. Alle 18.25 di quel giorno, lo stesso in cui il comitato tecnico scientifico esorta l’istituzione di una zona rossa, l’unità di crisi di Regione Lombardia invia una mail al presidente dell’Iss Silvio Brusaferro. Tra gli allegati ci sono una mappa con la situazione in provincia di Bergamo e un file excel con i dati grezzi dei contagiati bergamaschi.

Analizzando quei file emerge una chiara discrepanza tra la fotografia ufficiale del contagio in Bergamasca e la reale corsa del virus sul territorio, soprattutto in Val Seriana dove la concentrazione dei positivi è lampante soprattutto a Nembro e Alzano, ma anche ad Albino e Villa di Serio. Regione comunica all’Istituto superiore di sanità che in Bergamasca sono state individuate 372 persone positive sottoposte a tampone, dato che viene riportato nell’andamento ufficiale anche dalla Protezione civile. Ma esaminando il database di tutti i contagiati lombardi, «liberato» dall’associazione Ondata il 26 aprile scorso, è evidente che nella prima fase dell’emergenza il sistema di monitoraggio ha dovuto fare i conti con ritardi che hanno fatto emergere oltre 200 contagi solo nei giorni successivi. Il 3 marzo, in provincia di Bergamo, le persone positive sottoposte a tampone erano 579, non 372. Un dato che trova conferma anche dalla dashboard pubblicata sul sito della stessa Regione.

L’Istituto superiore di sanità, il 3 marzo, si trova così a esaminare una mappa che con il senno (e i dati) di poi sottostima in modo netto l’impatto del coronavirus in provincia di Bergamo. Se è comprensibile il mancato aggiornamento in tempo reale dei tamponi positivi del 3 marzo, non lo stesso si può dire del divario nei giorni precedenti (69 contagi). La crescita, da lì in poi, sarà sempre a tre cifre. I Comuni del Lodigiano, al tempo considerato il principale focolaio lombardo, contavano 483 positivi. Tutta la Bergamasca, il 3 marzo, ne aveva quasi 100 in più. Era già la provincia più colpita d’Italia. Nessuno, senza una tempestiva comunicazione dei laboratori ad Ats, poteva saperlo.

Questi ritardi sono già stati raccontati più volte durante l’emergenza. È chiaro che la capacità di test in provincia di Bergamo, soprattutto nelle prime fasi dell’epidemia, non è stata adeguata. Migliaia di positivi non sono stati sottoposti ai tamponi e sono stati liberi di muoversi prima delle misure restrittive. I tempi di esecuzione dei tamponi sono stati analizzati anche nel paper «La fase iniziale dell’epidemia di Covid-19 in Lombardia» firmato, tra gli altri, da Danilo Cereda della direzione welfare di Regione Lombardia.

Lo studio evidenzia che all’inizio dell’epidemia si assiste a un ritardo di 3.6 giorni in media tra la ricezione del risultato del tampone e l’inserimento del record nel database, a cui vanno aggiunti 5.2 giorni dai sintomi alla diagnosi. Tempo prezioso. Chi era chiamato a valutare non aveva gli strumenti adatti per capire quando, dove e come il coronavirus stava sommergendo la provincia di Bergamo.

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