Dramma nelle case di riposo
Morti aumentati fino a 15 volte

L’Ats ha avviato un censimento sui decessi del mese di marzo. Le Rsa: dalla Regione indicazioni contraddittorie. E i contagi proseguono.

Cinquecento? Seicento? Settecento? Quanti anziani sono morti nelle 65 case di riposo della provincia di Bergamo che sono accreditate, tramite l’Azienda di tutela della salute, in Regione Lombardia? Per capire in che misura abbia inciso il contagio da Covid-19, la stessa Ats sta raccogliendo i dati relativi ai decessi del mese di marzo per confrontarli con quelli dello stesso periodo dello scorso anno: quanti letti sono rimasti vuoti dei 6.196 posti (sono i dati riportati sul sito di Ats Bergamo, ndr) che fino a metà febbraio erano tutti occupati e per i quali si registravano lunghe liste d’attesa con la speranza di trovarne uno libero?

A Sarnico da fine febbraio a fine marzo, 25 decessi (tre nel 2019), 22 quelli registrati a Costa Volpino (due lo scorso anno), nove a Schilpario (contro due). A Stezzano dallo scoppio dell’emergenza sono venti gli anziani che si sono spenti (zero un anno fa) dodici quelli di Lovere (due). Falcidiate le case di riposo di Brembate Sopra, 57 morti (quattro), e Nembro, 31 (due l’anno scorso, con un aumento di oltre 15 volte). Ad Alzano Lombardo venti decessi contro cinque. Ma il conteggio è ancora parziale e finora Ats non ha rilasciato dichiarazioni.

Ma le statistiche che daranno risposta a queste domande non bastano a contenere i racconti di un tempo che i nostri nonni hanno custodito e hanno provato a lasciarci, magari durante una visita frettolosa, come eredità più preziosa della loro stessa vita. Si chiamavano Amalia, Pietro, Felicita, Giovanni, Claudio, Margherita... ma oggi i nomi non bastano a restituire vita alle loro foto in bianco e nero.

Nel dibattito

«Finalmente – esordisce Orazio Amboni, responsabile del dipartimento welfare della Cgil Bergamo – il tema delle case di riposo è entrato nel dibattito pubblico innescato dall’emergenza coronavirus. Fino a ieri queste strutture, con i loro ospiti e i loro collaboratori, erano rimaste sullo sfondo pur essendo luoghi al cui interno si erogano, a tutti gli effetti, anche prestazioni di carattere sanitario come in ospedale. Eppure nessuno si è preoccupato di tutelare le persone che al loro interno vivono o lavorano».

La testimonianza di Maria Giulia Madaschi, responsabile generale della casa di riposo Fondazione Martino Zanchi Onlus di Alzano Lombardo, comune epicentro del contagio, è, in questo senso, illuminante: «Abbiamo 98 posti letto e siamo circa cento persone a lavorare qui dentro: ad oggi, nessuno, e dico nessuno di noi, né ospiti né lavoratori, è stato sottoposto a un tampone che sia uno per controllare il nostro stato di salute ed eventualmente contenere il contagio. Siamo stati lasciati soli, ed è stata soltanto nostra la decisione, presa già lunedì 23 febbraio (il giorno successivo alla chiusura e alla repentina riapertura dell’ospedale di Alzano, ndr), di non accettare più nessun nuovo ospite e di chiudere la struttura alla visita dei parenti».

Nonostante questo, il Covid-19 ha lasciato il segno: nella casa di riposo di Alzano tra il 23 febbraio e il 31 marzo di quest’anno sono stati registrati venti decessi (concentrati tra l’altro in ventuno giorni, tra il 2 e il 23 marzo) contro i cinque decessi dello stesso periodo 2019. «Il picco delle morti – aggiunge la responsabile della struttura – lo abbiamo avuto fra l’8 e il 10 marzo, esattamente due settimane dopo la chiusura della casa di riposo». Il coronavirus è stato precisissimo nel rispettare la tabella di marcia più volte illustrata da virologi.

La decisione di chiudere si era però scontrata con le richieste di Regione Lombardia, da cui arrivavano, fra la fine di febbraio e l’8 marzo (la domenica in cui il governo ha varato le prime severe misure di contenimento del contagio), continue pressioni affinché le case di riposo portassero avanti come in tempi normali le loro attività.

«Sicuramente – conferma Barbara Manzoni, presidente dell’associazione San Giuseppe, che riunisce metà delle case di riposo bergamasche, quelle di ispirazione cattolica – in quei giorni da Regione Lombardia arrivavano indicazioni confuse e contradditorie; l’interlocuzione non era certo facile. Ora però non è il momento delle polemiche perché il contagio sta continuando a colpire e i nostri anziani muoiono ancora ogni giorno. Ieri (sabato, ndr) ho parlato con i rappresentanti di una delle nostre case di riposo e mi dicevano che non avevano ancora registrato nessun ospite con sintomi da coronavirus. Questa mattina (ieri, ndr) mi hanno ritelefonato e di colpo mi hanno detto che erano otto gli anziani con febbre e tosse. Questo ci fa capire che non dobbiamo abbassare la guardia».

Situazione fluida

Con una situazione così fluida, la richiesta lanciata dal Pirellone di trasferire i malati Covid-19 dagli ospedali nelle case di riposo trova scarsa disponibilità. «Ad oggi – precisa Cesare Maffeis, presidente dell’Associazione Case di riposo bergamasche, l’altro sodalizio provinciale – sono solo tre le case di riposo che ospitano Covid-19 (Brembate Sopra, Martinengo e Carisma a Bergamo, ndr). E lo possono fare perché hanno ingressi separati e stanze isolate dal resto delle loro strutture, oltre che la certezza di poter essere rifornite quotidianamente dei dispositivi di protezione individuale per i loro lavoratori».

L’assenza di mascherine, camici, copriscarpe e cuffie ha determinato la malattia di centinaia di lavoratori: in alcune case di riposo «abbiamo registrato punte del 50% di assenza per malattia» sottolinea lo stesso Amboni della Cgil bergamasca. «Ma le mascherine mancavano pure in ospedale – riflette amaramente Maffeis – perché l’intero sistema sanitario e socio assistenziale è stato travolto dagli eventi e temo che la gravità di quanto sta capitando non sia stata ancora del tutto colta».

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