«Chiudere? Un rischio per gli altri malati»
Alzano, parla il direttore dell’Asst

Il dg dell’Asst Bergamo Est, Locati, spiega come andarono le cose il 23 febbraio ad Alzano. «Pronto soccorso: agito di concerto con la Regione».

Ospedale di Alzano Lombardo: è in questa struttura ai piedi della Valseriana che si sono sviluppati i primi casi dell’epidemia che ha travolto la Bergamasca, è il «cuore» del ciclone Covid, e quello che è accaduto a febbraio oggi è sotto la lente della Procura, che ha aperto un’inchiesta. Francesco Locati, il direttore generale dell’Asst Bergamo Est, a cui fa capo l’ospedale di Alzano, ci ha fornito le sue risposte a diversi interrogativi che molte persone, tanti bergamaschi, continuano a porsi sulla vicenda, ormai alla ribalta nelle cronache di tutta Italia.

Ci descrive cosa è accaduto nella giornata del 23 febbraio all’ospedale di Alzano?

«Si è avuto il rilievo di due positività di Covid-19: da ciò ne è discesa l’immediata adozione degli interventi previsti dai protocolli aziendali. Nei protocolli aziendali ovviamente derivanti dalle linee guida riconosciute dalle autorità sanitarie, fino a quel momento».

Cosa è successo tra le 14 e le 18, quando il pronto soccorso è stato chiuso e poi riaperto?

«Abbiamo attivato l’Unità di crisi aziendale, con il gruppo operativo del Cio (Commissione infezioni ospedaliere ndr), analizzando la situazione e concertato i passi necessari in stretto raccordo con la Direzione generale Welfare (della Regione ndr).

Chi ha sanificato il Pronto soccorso di Alzano? È stato fatto internamente?

«Internamente, ed è quello a tutt’oggi previsto dai protocolli organizzativi. Una ditta esterna specializzata avrebbe le stesse competenze del nostro personale e tutt’al più strumenti differenti».

È vero che non c’erano dispositivi individuali di protezione a disposizione dei medici e degli infermieri, o che non erano sufficienti?

«Non corrisponde al vero, tant’è che sono stati distribuiti ai visitatori presenti nel pomeriggio del 23 febbraio in ospedale».

Un passo indietro: tra il 12 e il 23 febbraio, come scrivete nella vostra relazione, sono stati ricoverati pazienti con la diagnosi di polmonite, ma non considerati sospetti. Quanti? E perché non sono stati ritenuti sospetti?

«Il protocollo del Ministero della Salute prevedeva specifici criteri per sospettare un’infezione sostenuta da coronavirus: in nessun caso erano stati riscontrati tali criteri, nemmeno nei due casi risultati positivi».

Cosa andava valutato per classificare i casi come sospetti?

«Erano gli ormai famosi criteri, incentrati su un rischio di contagio all’epidemia in Cina».

I familiari della prima vittima ad Alzano sostengono che il loro parente, ricoverato, dimesso e poi riportato in pronto soccorso ha contratto il virus in ospedale. Ritiene che questo sia stato possibile?

«Anche in un recente lavoro scientifico riportato su questa testata qualche giorno fa veniva evidenziato il fatto che il virus circolasse ben prima del 23 febbraio; alla luce di questo diventa problematico dimostrare la catena del contagio, come in ogni pandemia».

«Dopo l’arrivo del primo caso sospetto, non avrebbe avuto un senso chiudere ai non Covid da subito?

«Sono stati accolti i pazienti non Covid per interventi urgenti e indifferibili che se non effettuati, avrebbero provocato conseguenze molto gravi, si pensi a ictus e infarti. Le attività ordinarie sono state bloccate in tutta l’Asst già dal 23 febbraio. Dal 24 febbraio l’affluenza al pronto soccorso riguardava quasi esclusivamente i pazienti con sintomi di infezione respiratoria».

Pare che ad Alzano, tra medici e infermieri si fossero creati due partiti: per l’«andiamo avanti» e «ci mandano al macello», come detto al TG1.

«Ci risulta che il personale di tutta l’Azienda abbia adempiuto ai suoi compiti con dedizione e senso di responsabilità».

Quanti medici e quanti infermieri di Alzano e poi di tutta la sua Asst sono stati contagiati dal 22 febbraio a oggi? E quanti guariti?

«Abbiamo garantito la sorveglianza su tutti gli operatori in tutta la Asst: ad oggi qualunque statistica sarebbe ancora imprecisa».

Perché non è stato fatto il tampone a tutto il personale?

«Le indicazioni fornite alle Aziende sanitarie prevedevano il tampone orofaringeo al personale sanitario sintomatico».

Qual è la percentuale di mortalità nella vostra Asst per Covid-19, in base al numero dei ricoverati?

«A oggi qualunque statistica risulterebbe priva di una connotazione reale, tenuto conto anche del fatto che andrebbe correlato con tutta un’altra serie di indicatori».

L’epidemia che ha travolto la Bergamasca è stato un evento catastrofico, inatteso nelle proporzioni. Lei ritiene che se fosse scattata una zona rossa come a Codogno i danni sarebbero stati più gravi?

«Qui si sta parlando di pandemia, non di epidemia, come rimarcato nei report dell’Organizzazione mondiale della Sanità, a più riprese, che travalica i confini, interessando differenti aree geografiche e fasce di popolazione molto velocemente. La decisione sulla zona rossa non è di competenza delle Aziende ospedaliere».

Le notizie sull’epidemia di Wuhan avevano portato a uno stato di preallerta la sanità lombarda e italiana. Esisteva un piano organizzativo? E l’Asst Bergamo Est come si era preparata all’arrivo dei contagi?

«L’Asst come tutte le strutture sanitarie aveva ricevuto le indicazioni per la gestione di un’eventuale epidemia. Ci si è trovati di fronte a una pandemia, con un impatto senza precedenti».

I casi sembrano calare in questi ultimi giorni. La sua Asst sta pensando a un programma di fase 2? E secondo lei quali accorgimenti andranno adottati per evitare un rebound di contagi?

«Come da indicazioni regionali, stiamo valutando ma è prematura l’attuazione di tale fase. Accorgimenti per evitare un rebound? Anche questo è all’attenzione delle autorità sanitarie, che devono tener conto dei dati epidemiologici che vengono continuamente aggiornati e valutati».

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