Covid ad Alzano, 2020 anno zero: «Eredità per ripartire»

L’ANNIVERSARIO. Viaggio nell’ospedale con i primi due pazienti positivi al Covid: «In Bergamasca sono stati ideati nuovi modelli replicati nell'intero Paese».

Ricordi, emozione. Tanto dolore. Cinque anni da quel 23 febbraio 2020 non bastano a superare la tempesta perfetta e tremenda che s’è portata via un’intera generazione, ma avanzano per poter dire che da quel disastro ci si rialza, eccome. È molto più dell’«Andrà tutto bene» che colorò le ringhiere di mezza Bergamasca: protocolli, metodi, attenzioni sono radicalmente cambiati a partire dal Covid. E quello che è ormai diventato lo spartiacque della nostra vita, ad Alzano Lombardo segna ancor più il punto zero da cui ripartire.

Dove tutto iniziò

Ancor più all’ospedale Pesenti Fenaroli che ora si prepara a un maxi piano di rilancio basato sulla demolizione dell’ospedale a step e la ricostruzione di una struttura generalista a vocazione oncologica. Lì dove tutto iniziò, almeno secondo i bollettini che quel 23 febbraio registrarono i primi due pazienti positivi al Sars-Cov-2, facendo chiudere per alcune ore il pronto soccorso. «La ferita si è rimarginata – ammette Pierpaolo Mariani, primario di chirurgia dell’ospedale di Alzano –, ma è una ferita ipertrofica, di quelle che lasciano segni indelebili, evidenti, e ti ricordano quello che hai vissuto».

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Nei corridoi dell’ospedale anche un quadro riporta a quei mesi terribili: è la stampa del murale che un anno dopo quel 23 febbraio, quando l’emergenza non si era ancora esaurita, comparve nel centro di Alzano: una Madonna con Bambino, entrambi con mascherina e il virus a mo’ di aureola. Mariani parla di «brividi a pensare a tutte le persone che in quei mesi sono morte (tra loro anche l’ostetrica Ivana Valoti, ndr) e al ruolo che ci siamo ritrovati a ricoprire. Non eravamo più solo medici ma anche confessori e tramite con le famiglie a casa». Lui fu tra i primi medici ad ammalarsi: «Il mio tampone risultò positivo il 27 febbraio 2020, rimasi a casa le due settimane necessarie ad avere il tampone negativo». Quanto tornò al lavoro «l’intero reparto era stato dedicato ai malati Covid positivi».

Lo stigma e la fiducia

Li chiamarono eroi, ma ad Alzano s’insinuò anche – a motivo di quei due tamponi risultati positivi – lo «stigma dell’untore, come se tutto fosse partito da qui – ragiona Mariani – mentre il virus, si è visto, era già ovunque» e basta ricordare le tante, troppe polmoniti in circolazione già a gennaio in ospedali e case di riposo. «C’è da dire però – precisa il primario – che la gente ci ha sempre dimostrato grande fiducia, i pazienti hanno continuato nel tempo a venire nel nostro ospedale ed è stata questa la benzina che ha riattivato un motore un po’ ingrippato, come se ci sentissimo in colpa per qualcosa che non avevamo certo inventato o sviluppato noi». Errori, ammette, «ne sono stati fatti per ignoranza: era un virus completamente sconosciuto e anche i più grandi infettivologi procedevano a tentativi: il Covid ci lascia in eredità il dovere di non ripeterli».

Anche grazie al nuovo metodo di lavoro che l’emergenza pandemica ha imposto: «Aver vissuto gomito a gomito in quei terribili mesi ci ha uniti enormemente», prosegue Mariani, e come non ricordare i turni dilatati, i segni lasciati sul volto da mascherine e scafandri, ma anche i reparti ribaltati dalla sera alla mattina per fare di un’urologia e di un’ortopedia tante rianimazioni.

L’esempio dei bergamaschi

Situazioni vissute anche da Marco Passaretta, che dal gennaio 2024 guida da direttore generale l’Asst Bergamo Est, ma ai tempi era direttore amministrativo dell’Asst Valle Olona: «A Busto Arsizio, dove avevamo un reparto di malattie infettive tra l’altro isolato e dove tra marzo e aprile ci sono stati inviati casi anche dal Lecchese e dal Lodigiano oltre che da Bergamo, assistevamo a quanto stava accadendo nella Bergamasca: avete imparato a fare squadra, sdoganato concetti con una velocità assurda, ideato modelli poi replicati in tutta Italia». L’importanza della vestizione, di riadattare gli ambienti dividendo tra «puliti» e «sporchi», di lavorare per moduli, «per padiglioni più facilmente isolabili: è un insegnamento che ha guidato la progettazione del nuovo ospedale di Alzano che andremo a realizzare».

Oltre i muri

Di nuovo, nel presidio che potrebbe essere ultimato tra una decina di anni, non ci saranno soltanto i muri, ma il metodo di lavoro «imparato proprio a partire da cinque anni fa», fa presente Paola Gregis, infermiera alle dipendenze dell’Asst Bergamo Est da 18 anni e dal 2015 al pronto soccorso di Alzano. Mentre le si rompe la voce a ricordare «i fine turno, quando ci si osservava mentre ci toglievamo le tute e gli scafandri e avevamo sulla pelle tutti quei segni che ti facevano dire “dai, anche oggi ce l’abbiamo fatta, ci vediamo domani”», Gregis mette in fila ciò che questa dura esperienza vissuta in prima persona in ospedale le ha lasciato: «Anzitutto l’attenzione al tempo e a non sprecarlo, perché non sappiamo cosa ci aspetta. Inoltre ora abbiamo una maggiore consapevolezza delle nostre capacità professionali – aggiunge –: lavorare in équipe è diventato un elemento fondamentale, è un guadagno anche per il paziente». Che è ancora più al centro: «Cinque anni fa eravamo il ponte tra il paziente e la sua famiglia e questo ruolo è rimasto, così come l’ascolto, soprattutto – per noi del pronto soccorso di Alzano dove è presente anche la psichiatria – verso i giovani. Ne arrivano tanti».

Un mondo cambiato e un’inchiesta giudiziaria archiviata di mezzo. Si va avanti, insieme. La chiamano resilienza.

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