Cronaca / Valle Brembana
Domenica 18 Aprile 2021
Nella «casa gialla» tolta a un usuraio cresce la famiglia degli «angeli custodi»
Diego e Patrizia La coppia con tre figli accoglie in affido nell’abitazione di Berbenno ragazzi in difficoltà.
Per fare un tavolo ci vuole un fiore» dice la celebre canzone di Sergio Endrigo con le parole di Gianni Rodari: nel soggiorno di Casa Amore, a Berbenno, il tavolo è quello intorno al quale si ritrova durante il giorno la vivace famiglia allargata che ci abita. Ci sono i genitori, Diego Mosca e Patrizia Pesenti, i loro figli Elisa, 7 anni, Federico 5 e Alessandro di dieci mesi, e accanto a loro - in questo momento - tre fratelli in affido. Il tavolo è il posto dove si gioca, si fanno i compiti, si mangia, si seguono le lezioni della didattica a distanza, e diventa simbolo di incontro e accoglienza.
Il fiore, in questo caso, è la scintilla che ha dato origine a questa esperienza: la decisione di una giovane coppia di allargare i confini simbolici delle pareti per ospitare, condividere, crescere. Una storia iniziata in oratorio La storia di Patrizia e Diego è iniziata all’oratorio: «Siamo entrambi originari di Zogno - spiegano -, dove siamo stati coinvolti in tante attività di pastorale giovanile. Abbiamo poi assaggiato per brevi periodi l’esperienza missionaria in Romania, a Cuba, in Bolivia. Ci siamo impegnati come volontari del servizio Esodo, con i senza dimora, alla stazione di Bergamo.
Queste esperienze ci hanno toccato profondamente e formato. Tempo dopo, ripercorrendo il passato abbiamo individuato alcuni fili conduttori: il più importante, quello che è rimasto, è il servizio alla persona e principalmente ai minori». Nel frattempo Diego si è laureato all’Issr, Istituto superiore di scienze religiose, sua moglie è diventata psicoterapeuta. La svolta nel 2011 «Sono le curve - scrive Pedro Chagas Freitas - a rendere incantevoli certe strade. Procedere sempre in linea retta mi fa venire sonno». Dietro l’angolo per Patrizia e Diego c’era una svolta importante, che ha cambiato l’orizzonte: «Nel 2011 - ricorda Diego - la Cooperativa sociale Aeper ci ha proposto di andare a Berbenno a vedere una casa. Mi ricordo la prima volta che ci siamo trovati qui, osservando con curiosità l’edificio dal cancello. Ci hanno domandato se desideravamo viverci intraprendendo un’esperienza di accoglienza e di comunità familiare. In quel momento, però, non avevamo ancora deciso di sposarci, la nostra prima risposta è stata negativa».
È passato un po’ di tempo e quando Patrizia e Diego hanno pianificato il matrimonio ci hanno ripensato: «In quella casa ancora non abitava nessuno, e ci è sembrato un segno. Abbiamo smesso di chiedere consigli ad amici e parenti, perché abbiamo capito che una scelta così eccentrica e fuori dagli schemi era difficile da capire». Una «cosa da matti» secondo la logica comune. «Dato il nostro percorso, in realtà, avevamo una buona formazione e Patrizia lavorava già in un servizio affidi in Valle Brembana, così ci siamo buttati. Non avremmo mai pensato di vivere un’esperienza come questa». La casa, confiscata a un usuraio, è stata assegnata al Comune di Berbenno, che si è fatto promotore della comunità familiare con l’Azienda speciale consortile Valle Imagna-Villa d’Almè e Aeper, in collaborazione con l’associazione Libera.
Nel tempo intorno a questi soggetti si è creato anche un gruppo di volontari, che danno una mano a Patrizia e Diego nella vita quotidiana e nelle numerose attività che nel tempo sono germogliate. Accolti 13 ragazzi La data ufficiale della fondazione della casa famiglia è il 2 ottobre 2012, festa degli Angeli Custodi: «Per noi, da credenti, quella data ha anche un valore simbolico, come se avessimo accanto qualcuno che ci accompagna e ci tiene una mano sulla testa. Da allora abbiamo accolto 13 ragazzi, abbiamo avuto tre figli nostri, e partecipato a moltissime iniziative. Ci eravamo trasferiti da sette giorni quando abbiamo ricevuto la prima richiesta d’accoglienza. È arrivato un ragazzo magrebino senza fissa dimora. È rimasto con noi per due mesi, un periodo movimentato: parlava solo berbero, all’inizio non riuscivamo a comunicare. È scappato, poi è tornato, sono serviti tenacia e impegno per costruire un rapporto con lui, ma alla fine ce l’abbiamo fatta, e ci è rimasto un bel ricordo, continuiamo a sentirci ogni tanto». Situazioni complicate La maggior parte dei minori accolti da Patrizia e Diego viene dai paesi vicini o comunque dalla provincia di Bergamo: «I ragazzi originari del nostro territorio sono oltre il 70 per cento - osserva Diego -. Appartengono a famiglie con situazioni complicate: dipendenze, difficoltà economiche e relazionali.
Ognuno di questi incontri ci ha spinto a superare qualche barriera emotiva, culturale e talvolta anche religiosa». Non è una casa di accoglienza ma una famiglia, in cui ogni giornata trascorre in una normalità arricchita dai legami, sorrisi, gesti di solidarietà di tante persone. La famiglia Mosca è diventata «generativa», offrendosi come risorsa preziosa anche per la comunità parrocchiale di Berbenno: «Nei primi anni - ricorda Diego - abbiamo replicato alcune belle avventure già intraprese a Zogno, con gruppi di catechesi e adolescenti. In seguito abbiamo vissuto anche alcune stagioni di attività intensa come corresponsabili dell’ufficio diocesano per la pastorale della famiglia con don Edoardo Algeri, di cui conserviamo una memoria molto affettuosa. È stata un’avventura straordinaria, che ci ha permesso di girare per l’Italia, aprirci a un mondo che non conoscevamo, intraprendere attività di formazione e accompagnamento per le giovani coppie. Ora con tre bambini piccoli per necessità siamo più concentrati sulla vita familiare». Le giornate in quella che in paese conoscono come «Casa Amore» o «Casa gialla» sono scandite da scuola, sport, incontri, attività all’aperto, dove ci sono l’orto, il bosco, un grande prato e alcuni animali come capre, pecore, galline. Patrizia lavora come psicoterapeuta, Diego è insegnante: si sono organizzati in modo da alternarsi nella presenza a casa, un aspetto ancora più importante e necessario da quando è iniziata la pandemia.
«La sera - commenta Diego - arriva fin troppo velocemente, ceniamo tutti insieme e poi collaboriamo per riordinare: entro le 21,30 i bambini devono andare a dormire». Con loro per qualche ora al giorno c’è anche un’educatrice, Francesca. Gli affidi sono per loro natura temporanei, così Diego e Patrizia si sono abituati a essere «genitori a tempo»: «Ogni ingresso e ogni uscita - spiegano - comporta sempre uno squilibrio, sia nell’animo sia nella routine familiare. Finora siamo stati fortunati, c’è sempre stato un finale lieto, la possibilità per i minori che abbiamo accolto di rientrare nelle famiglie d’origine. Molti si tengono in contatto e ogni tanto vengono a trovarci. Siamo ben felici di aggiungere un posto a tavola, perché lo consideriamo un segno di aver seminato bene». La comunità di Berbenno accompagna questa famiglia sia partecipando attivamente alle iniziative di solidarietà sia con gesti di aiuto molto genuini: «A volte qualcuno bussa e ci lascia qualche provvista di cibo. Questo mostra la naturalezza con cui si costruiscono le relazioni ed esprime l’affetto e la volontà di aiutarci nel prenderci cura di bambini e ragazzi in difficoltà».
Nel corso degli anni la «Casa gialla» ha accolto anche persone che avevano bisogno di inserimenti lavorativi in collaborazione con progetti della Caritas, persone chiamate a svolgere lavori socialmente utili, ragazzi delle scuole medie che dovevano «riparare i danni» delle loro sospensioni. Apertura mentale a 360° «Sentiamo che le nostre scelte, declinate anche nella più ordinaria concretezza, stanno dando forza al nostro percorso di vita cristiana in modo quotidiano. L’accoglienza presuppone un’apertura mentale a 360 gradi e molta libertà. Viviamo tra persone che hanno caratteri, gusti, preferenze diverse, ma la quotidianità si scioglie nella semplicità. I ragazzi che sono entrati nella nostra casa hanno messo in evidenza prima di tutto i nostri limiti, spingendoci ad affrontarli. A volte ci sembra di aver vissuto in nove anni quello che una famiglia normale sperimenta in una vita intera». L’anno della pandemia ha messo la famiglia Mosca alla prova in molti modi, ma ha contribuito a rafforzare i legami: «Abbiamo trascorso più tempo in famiglia tra serate di chiacchiere, film, giochi, e questo ci ha fatto bene, anche se ha sconvolto i nostri percorsi lavorativi e scolastici. Ci siamo accorti che gli spazi che abbiamo a disposizione non sono poi così grandi: ci è capitato di ritrovarci con tre pc accesi sullo stesso tavolo. Mentre i bambini più piccoli eseguivano lavoretti con la guida delle maestre, qualcun altro nello stesso momento doveva lavorare.
Non è stato sempre facile. Abbiamo sentito la mancanza degli incontri “veri” con amici e parenti». Esperienza da allargare Il pensiero, adesso, è già rivolto al futuro, alla festa da organizzare per i dieci anni della casa-famiglia: «Vorremmo ricostruire la nostra storia e raccontarla coinvolgendo anche i ragazzi che abbiamo accolto. Sarebbe bello che questo offrisse lo spunto per la creazione di altri spazi e ambienti come questo, che si mettano a servizio del territorio nella quotidianità». La vita nella «Casa gialla» è un continuo allenamento alla speranza e alla condivisione: «Essere mamma di una famiglia allargata - conclude Patrizia - a volte vuol dire dover rimettere tutti in riga, interpretando la parte del “generale” ma significa soprattutto vedere i propri figli imparare l’accoglienza e la condivisione vivendola concretamente ogni giorno».
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