Le due figure del manager e del leader non necessariamente coincidono: in altre parole, si può essere manager senza riuscire a essere leader e, viceversa, si può essere riconosciuti come leader senza avere un ruolo da manager. Diversi studi sottolineano tuttavia che le competenze richieste ai manager del futuro saranno sempre più distanti da quelle tipiche del XIX e del XX secolo e che la differenza potrebbero farla proprio le soft skills della leadership. Questo articolo raccoglie mappe concettuali e consigli per riflettere sugli ingredienti di una leadership efficace e per migliorarsi, dove necessario.
Sommario
Qualità da leader
Tre metafore per la leadership
Competenze manageriali del futuro
Stili di leadership
Nessuno si fa da solo
Le barriere della comunicazione e il corridoio del potere
Errori di comunicazione tipici dei manager
Leadership mitiche
Qualità da leader
Un senior manager di McKinsey, società internazionale di consulenza manageriale, ha ammesso di non avere mai licenziato ingegneri perché facevano male il loro lavoro, ma di averlo fatto perché non erano in grado di lavorare in team. È in questa prospettiva che le soft skills possono fare la differenza nella carriera di una persona, a qualsiasi livello della vita organizzativa.
Dal momento che, come scrive Daniel Goleman nel suo Piccolo manuale di intelligenza emotiva (Milano 2018, p. 23), i team “sono calderoni ribollenti di emozioni”, per lavorare bene in team è necessario saper comunicare in modo chiaro ed efficace, saper interagire con un’ampia varietà di persone, saper “intuire” ciò che gli altri sentono, mantenendo anche sotto pressione la lucidità di pensiero e l’autoconsapevolezza necessarie ad auto-regolarsi e a favorire l’elaborazione generativa dei confitti.
Competenze relazionali come queste, a cui se ne potrebbero aggiungere altre, riguardano ovviamente tutti, ma in questo articolo ci concentreremo in particolare su quelle fondamentali per l’esercizio di una buona leadership.
Per una prima circoscrizione del campo, possiamo considerare i risultati di una ricerca internazionale pubblicata nel 2004, dopo un decennio di ricerche che hanno coinvolto quasi 1.000 organizzazioni in 62 paesi, sottoponendo questionari a più di17.000 middle manager. La ricerca ha individuato le seguenti “qualità da leader”, riconosciute e apprezzate indipendentemente dalle culture di appartenenza:
L’elenco, messo così, rischia di apparire come un insieme di indicazioni tutto sommato scontate, non diverse da quelle che il buon senso avrebbe potuto suggerire senza bisogno di una ricerca. Cosa ribolle sotto quei termini? Dove stanno le difficoltà?
Tre metafore per la leadership
Aristotele sosteneva che noi esseri umani conosciamo soprattutto attraverso le metafore. Se ciò è vero, può essere utile condividere subito tre metafore per pensare la buona leadership. Si tratta di metafore che emergono con una certa frequenza nei gruppi in formazione. Si parla dunque del leader come faro, del leader come timoniere/capitano e del leader come direttore d’orchestra.
Andando oltre la metafora, il faro rappresenta colei/colui che mette gli altri in condizione di orientarsi anche quando la navigazione è difficile e la visibilità è limitata: il faro non si sostituisce alla capacità di vedere dei singoli, ma la mette in condizione di operare in modo sufficientemente buono anche quando la visibilità è limitata.
Timoniere è colei/colui che sa fare avanzare la nave evitando le insidie dell’ambiente mutevole in cui essa si muove, consapevole di non poterla governare in solitudine: da notare che le insidie, per una squadra o per un’azienda, non sono soltanto le richieste in arrivo dall’esterno, o gli imprevisti, ma anche le dinamiche interne (incomprensioni, rancori inespressi, conflitti male elaborati ecc.).
Direttore d’orchestra, infine, è colei/colui che sa dare le indicazioni giuste alle persone giuste, permettendo ad un gruppo di coordinarsi col ritmo giusto attorno ad una composizione complessa, facendo di un gruppo una squadra.
Su questo tema vedi anche il precedente approfondimento di Skille in questo articolo.
In sintesi, una persona emerge e viene riconosciuta come leader in quanto sa emettere segnali attendibili in situazioni diverse: la sua autorità si basa sull’attendibilità e sulla capacità di leggere le situazioni, vedendo in anticipo opportunità e minacce per sé e per gli altri. In questo sta la sua funzione di guida (to lead).
Si dovrà notare, inoltre, che per mettere gli altri in condizione di vedere bene occorre che il leader sappia riconoscere negli altri in modo rispettoso punti di forza e punti deboli, preoccupandosi anche di ciò che gli altri sentono (insicurezza, entusiasmo, paura, diffidenza…) e agendo di conseguenza, sostenendo e incoraggiando: riconoscere gli altri ed essere riconoscenti sono ingredienti essenziali per essere riconosciuti come leader.
Le competenze manageriali del futuro
Abbiamo sottolineato che la figura del manager e quella del leader non necessariamente coincidono, anche se il senso comune tende ad associarle. Tecnicamente il succo della distinzione, tenendo presente la letteratura sul tema, può essere riassunto così: leader può essere/diventare chiunque in un’organizzazione, nel suo ambito di lavoro e in particolari circostanze (in una riunione, nella gestione del lavoro ordinario o negli imprevisti, durante un’emergenza ecc.). Durante una riunione, ad esempio, può essere riconosciuto come leader chi riesce ad aiutare i partecipanti a collaborare meglio e ad avere più chiara la relazione con l’obiettivo, la possibile via d’uscita da una difficoltà, la sensatezza di un compito e così via.
Quello del manager è un ruolo attribuito formalmente, con compiti e responsabilità definiti. Non è detto che un manager, per il solo fatto di essere manager, sappia esercitare una buona leadership e sappia farsi riconoscere come leader dai suoi collaboratori.
se volessimo però fare un elenco delle competenze richieste ad un manager capace ed efficace, troveremmo competenze che rientrano nell’ambito delle soft skills e che richiamano quelle associabili alla buona leadership.
Ecco, ad esempio, una lista tratta dal manuale di Comportamento organizzativo di R. Kreitner e A. Kinicki (Milano 2013, p. 17). Il manager efficace:
- 1.rende chiari scopi e obiettivi a tutti coloro che sono coinvolti in un’attività;
- 2.incoraggia la partecipazione, la comunicazione verso l’alto e i suggerimenti;
- 3.pianifica e organizza, al fine di ottenere un flusso di lavoro ordinato;
- 4.possiede una competenza tecnica e amministrativa per rispondere alle domande relative all’organizzazione;
- 5.facilita il lavoro attraverso la costruzione di team, la formazione, il coaching e il supporto reciproco;
- 6.fornisce feedback in modo onesto e costruttivo;
- 7.fa funzionare le attività basandosi su programmi, scadenze e solleciti;
- 8.controlla i dettagli senza essere invadente;
- 9.esercita una pressione ragionevole per il raggiungimento degli obiettivi;
- 10.autorizza e delega ai collaboratori compiti chiave, mantenendo la chiarezza degli obiettivi e del proprio impegno;
- 11.riconosce la buona performance con ricompense e “rinforzi” positivi.
L’importanza crescente, per i manager, dell’intreccio tra soft skills e leadership skills emerge ancor più se si guarda alle ricerche sull’evoluzione del ruolo.
Tenendo presenti i risultati di un seminario sul tema, che nel 2008 ha coinvolto docenti universitari e dirigenti d’azienda, nonché i lavori sul management del futuro di Gary Hamel, visiting professor di Strategy and Entrepreneurship alla London Business School e direttore del progetto Management Innovation eXchange, si può ad esempio arrivare ad una tabella come la seguente:
Non occorre esplicitare ulteriormente quanto siano importanti le soft skills per la figura del manager del futuro così delineata e quanto cresca, passando dalla colonna del passato a quella del futuro, la sovrapposizione tra competenze di management e leadership skills.
Stili di leadership
Torniamo ora alla leadership. La letteratura è concorde nel sostenere che non esiste un solo stile di leadership, né uno stile migliore in tutte le situazioni, ottimale in senso assoluto.
Una delle prime teorie al riguardo fu sviluppata alla fine della seconda guerra mondiale, quando una ricerca della Ohio State University prese in considerazione circa 1800 frasi descrittive di comportamenti tipici da leader, arrivando poi a sistemarle in questa matrice:
Benché si tratti di uno studio ormai datato, viene spesso citato per la chiara sottolineatura del seguente aspetto: i possibili comportamenti dei leader possono essere descritti tenendo conto delle due dimensioni (1) della capacità di “strutturazione” (specificare compiti e metodo di lavoro) e (2) della capacità di “considerazione” dei collaboratori (stabilire un clima relazionale caldo e collaborativo).
Un manager potrebbe ora chiedersi: dove mi collocherei in una matrice di questo tipo? E dove mi collocherebbero i miei collaboratori? Non è detto che le due percezioni coincidano.
Lo studio dell’Ohio University, in ultima analisi, suggeriva che i leader efficaci combinano in modo equilibrato l’abilità nel lavorare con gli altri, dando vita a team collaborativi, con la capacità di strutturare il lavoro, curando le condizioni organizzative necessarie per dare il meglio di sé nel rapporto tra svolgimento del compito e obiettivi.
Un altro autore spesso citato è Daniel Goleman, che si appoggia a una ricerca che ha coinvolto circa 4.000 dirigenti per individuare 6 stili di leadership, indicati con i seguenti aggettivi: autorevole o visionario, coach, affiliativo, democratico, battistrada, autoritario o coercitivo.
Senza scendere nei dettagli, ciò che possiamo sottolineare qui è che Goleman raggruppa i primi quattro stili considerandoli capaci di generare “risonanza” nei gruppi, mentre gli ultimi due (battistrada e autoritario) vengono definiti stili “dissonanti”, da usare con cautela.
Nel Piccolo manuale di intelligenza emotiva (Milano 2018) Goleman riassume i punti essenziali in una tabella, a cui si ispira largamente (con diverse modifiche e integrazioni) la seguente:
Il messaggio di Goleman è duplice: da un lato, c’è l’invito ad utilizzare con cautela i due stili “dissonanti”, messaggio tanto più significativo se si condivide l’osservazione contenuta nel saggio Essere leader (Milano 2012), in cui Goleman sostiene che “il mondo degli affari trabocca di leader coercitivi lontanissimi dall’essere consapevoli dell’impatto negativo esercitato dalla loro condotta sui sottoposti”; dall’altro lato, c’è l’invito a miscelare gli stili, lavorando in particolare sull’intelligenza emotiva (e noi possiamo aggiungere sulle soft skills, centrali negli stili che generano “risonanza”).
Nessuno si fa da solo
Lo stile autoritario coercitivo si basa sull’assunto della centralità dell’“io” del leader rispetto al “noi” dei seguaci e di chi è chiamato a obbedire ed eseguire. Non c’è da stupirsi del fatto che ci siano persone che subiscono fortemente il fascino di leader così atteggiati, che si mostrano sempre sicuri di sé e sembrano confermare il mito dell’uomo che si è fatto (e si fa) da solo. Del resto, può essere comodo – anche se stressante – giocare la parte del membro di un seguito o di uno “yes-man”.
Eppure sappiamo che nessuno si è fatto o può farsi da solo e che la prescrizione «si fa così perché lo dico io», spesso accompagnata dalla complementare «testa bassa e lavorare», tende ad abbassare fortemente l’engagement dei lavoratori, con le spiacevolissime conseguenze che abbiamo discusso in questo articolo precedente pubblicato sul sito di Skille.
Lo stile autoritario e coercitivo, inoltre, non tiene conto dell’interdipendenza caratteristica di ogni sistema complesso. Con riferimento alle organizzazioni, la centralità di questo aspetto era già potentemente segnalata in un manuale di Managerial Psychology pubblicato in prima edizione nel 1958 da Harold J. Leavitt, professore emerito di Comportamento organizzativo e psicologia presso la Stanford University. Scriveva Leavitt (Psicologia per manager, Milano 2005, pp. 101-102): “L’industria moderna è complicata sia socialmente che tecnologicamente, complicata al punto che tutti, dal presidente in giù, hanno bisogno dell’aiuto di altre persone per soddisfare la loro necessità”.
Se si vuole un esempio pratico dell’importanza di considerare questi aspetti, possiamo limitarci a considerare un caso estremo, su cui si sofferma Matthew Syed nel libro Se sbagliamo ci sarà un perché (Roma 2017): l’incidente del volo United Airlines 173 nel dicembre 1978, verificatosi con un aereo perfettamente governabile in una giornata serena nei pressi di Portland.
In breve, il malfunzionamento delle spie relative all’abbassamento e al blocco del carrello d’atterraggio mise l’equipaggio nell’incertezza sulla possibilità di atterrare normalmente. In tale incertezza, il capitano decise di prendere tempo e iniziò a girare attorno a Portland, finché il motorista di bordo iniziò ad avvertirlo del basso livello di carburante, segnalato dall’accensione delle spie che indicavano che ormai, assieme al carburante, veniva aspirata anche aria.
Il comandante “normalizzò” la situazione, dicendo che era normale l’accensione delle spie e ignorando di fatto l’avvertimento del motorista sui 15 minuti di tempo ancora disponibili.
Il comandante aveva ricevuto chiari avvertimenti da un membro dell’equipaggio, ma li aveva ignorati, finché divenne inevitabile un atterraggio d’emergenza fuori pista, con morti e feriti.
Syed si sofferma sulla lezione tratta dalla vicenda, relativa in primis ai vantaggi di una gestione partecipativa del volo da parte dei comandanti, specialmente in condizioni d’incertezza: «Ai comandanti – scrive Syed – che per anni erano stati considerati onnipotenti, fu insegnato ad ascoltare, a riconoscere i suggerimenti e a chiarire le ambiguità. La percezione del tempo fu gestita attraverso una divisione di responsabilità più strutturata» (p. 41).
Ciò che vale per i comandanti di un aereo passeggeri può valere, facendo le dovute proporzioni e distinzioni, per qualsiasi manager.
Dall’altro lato, si rivelò importante lavorare sull’educazione all’assertività per i membri dell’equipaggio, mettendo a punto un metodo condiviso per non restare vittime dell’inibizione di fronte all’autorità, pur nel rispetto dell’autorità e dei differenti ruoli.
Un metodo di assertività progressiva prevede ad esempio il passaggio attraverso quattro fasi: indagine, allerta, sfida, emergenza. Un ipotetico motorista in condizioni analoghe a quelle del volo citato dovrebbe così passare, rivolgendosi al proprio comandante, attraverso le seguenti fasi:
- INDAGINE: si domanda al superiore quali opzioni sta considerando se non si riuscisse a portare a termine in tempo utile la prima operazione ipotizzata;
- ALLERTA: si segnala che il dato relativo al livello di carburante continua a scendere e quindi si chiede: “Cosa ne pensa di fare ora?”;
- SFIDA: si passa ad un tono più perentorio, “sfidando” l’autorità: “Dobbiamo immediatamente agire, oppure…”. È un passaggio delicato perché chi non è normalmente responsabile delle decisioni sfida il decisore sul piano di sua competenza;
- EMERGENZA: si annuncia che si farà appello a un’altra autorità, preparandosi a contattare un superiore o un pari grado del capitano (o altri decisori influenti), per richiederne l’intervento.
Il consiglio che si può ricavare da quel che abbiamo visto fin qui è di lavorare in direzione di una gestione partecipativa delle decisioni e della gestione dei processi aziendali, creando le condizioni affinché i propri collaboratori si sentano “psicologicamente sicuri” nell’esporre dubbi, obiezioni e idee alternative sul da farsi.
Le barriere della comunicazione e il corridoio del potere
È ben nota l’esistenza di barriere di posizione tra superiori e subordinati, che fanno sì che i secondi non dicano ai primi tutto ciò che sarebbe importante dire e che forse vorrebbero dire. Vorrebbero dire, ma non dicono per timore delle conseguenze o per altre ragioni (assenza di “sicurezza psicologica”, sensazione di non essere ascoltati o che il proprio parere non conti e non incida, passate esperienze di frustrazione e mancato ascolto e così via).
Un manager che voglia essere un buon leader dovrebbe essere sempre consapevole dell’esistenza di queste barriere e prendersi cura della loro rimozione: si tratta, a ben considerare, di un lavoro continuo di smantellamento di barriere che tendono costantemente a ricrescere.
Il rischio, qualora non si agisca in tal senso, è quello di confinarsi in uno spazio atono in cui non si sentono voci, rancori, insoddisfazioni e malumori: tutte cose che, anche se non sentite (anzi, a maggior ragione perché non sentite), continuano a circolare e ad esercitare la loro influenza sulle attività aziendali. Da un altro punto di vista il rischio è quello di non accorgersi di potenzialità e opportunità latenti.
La barriera può anche essere costituita dagli yes-men o da coloro che tendono a compiacere il superiore senza riuscire ad esprimere dubbi o critiche in modo chiaro e costruttivo. Il concetto è stato così espresso da un partecipante a un percorso di formazione sull’argomento: “La persona del capo, in generale, è di solito circondata da persone che più o meno la appoggiano e questo è uno dei fallimenti”.
Il filosofo Carl Schmitt ha trattato l’argomento parlando di un corridoio del potere, abitato da coloro che stanno più vicino al capo e che filtrano per lui le voci provenienti dai livelli organizzativi inferiori o dall’esterno, facendo passare soltanto i messaggi favorevoli a loro oppure utili a compiacere il capo e a metterlo in buona disposizione (o in cattiva disposizione contro altri).
In tal modo, il capo è “dominato” da coloro che sono a più stretto contatto con lui, di cui pure è superiore, perché costoro di fatto costruiscono l’insieme dei messaggi a cui il capo è esposto, decidendo quali feedback mettergli a disposizione.
La formazione del corridoio non è intesa come aberrazione tipicamente circoscritta a regimi di tipo personale: «Il processo di formazione di un corridoio […] si sviluppa giorno dopo giorno per strati minimali, infinitesimali, nel grande come nel piccolo, ovunque vi siano uomini che esercitano il potere su altri uomini. Quando si forma una camera del potere, parimenti si organizza subito anche un’anticamera di tale potere. Ogni accrescimento del potere diretto aumenta e infittisce anche la cerchia brumosa degli influssi indiretti» (C. Schmitt, Dialogo sul potere, Milano 2012, p. 26).
Uno degli antidoti a questa dinamica è mantenere aperta per tutti, a partire dai propri più stretti collaboratori, la possibilità di parlare franco: affinché ciò accada non basta ovviamente dire a qualcuno “parla francamente!”, ma occorre lavorare molto più a fondo e lentamente sulla costruzione di un “clima” e di una cultura organizzativa orientati al rispetto reciproco, all’apprezzamento della critica costruttiva, alla ricerca del dissenso motivato e alla costante esplicitazione e condivisione dei dubbi.
Errori di comunicazione tipici dei manager
Tornando alla figura del manager, si trovano molti studi più specifici sugli errori di comunicazione ricorrenti. Qui, a titolo di esempio, consideriamo i sette evidenziati in un articolo della Harvard Business Review (S. Robbins, Seven Communication Mistakes Managers Make, 2009).
1 - Un primo errore consiste nel fare dichiarazioni e annunci su questioni controverse, senza avere “preparato il terreno”. Quando sono in ballo decisioni e azioni che possono suscitare ansia e resistenza, è bene dedicare del tempo a spiegare ai singoli la natura del problema, facendoli sentire partecipi e coinvolti nel processo di cambiamento, mostrando attenzione effettiva per le difficoltà rilevate dai propri collaboratori.
2 - Un secondo errore consiste nel mentire. Ci sono menzogne dette a volte con buone intenzioni e, a volte, per mantenere un segreto. Se un’informazione è disponibile ma si ritiene opportuno non condividerla in un dato momento con un collaboratore, ad eventuali richieste in merito è meglio dire semplicemente “non posso rispondere in questo momento” o “non posso ancora fare commenti” (alludendo alla presenza di aspetti ancora confidenziali), anziché dire che l’informazione non è ancora disponibile. Ci sono poi menzogne di cui è difficile accorgersi, come quando si dichiara la volontà di maggiore condivisione con tutti i propri collaboratori ad un certo livello organizzativo, e poi non si riesce ad agire di conseguenza. In questo caso si rischia di apparire inattendibili e, quando questo accade, ne risentono la fiducia e la disponibilità alla sincerità.
3 - Il terzo errore consiste nell’ignorare il funzionamento del potere e anzitutto il fatto ricorrente (già evidenziato sopra) che quanto più uno ha potere, tanto più le informazioni su quel che accade nei vari livelli organizzativi gli arrivano “filtrate” e “attenuate”.
Per evitare che prendano forma filtri eccessivamente deformanti è importante mostrare di essere aperto alle cattive notizie e ai feedback.
Altro problema tipico in questa prospettiva è la sottovalutazione del peso sugli altri delle proprie battute (anche scherzose) sulle persone e delle proprie “reazioni a caldo”: qui si tratta di allenare bene la competenza dell’auto-regolarsi e del trattenersi.
4 - Un quarto errore consiste nel sottostimare l’intelligenza dei propri interlocutori. Quando non si è capiti si tende a pensare che il problema stia nelle persone che non capiscono. Per chi può dire che “le cose stanno così e basta”, dedicare del tempo alla spiegazione o alla ripetizione della spiegazione può sembrare inutile: ma pensando all’esigenza di combinare la figura del manager con quella del leader, si deve tenere presente che parte del lavoro del manager-leader consiste proprio nel fare capire, nello spiegare meglio, nel condividere visioni e progetti accogliendo e superando dubbi e perplessità. Un dubbio e una perplessità non chiariti restano in circolazione.
5 - Un quinto errore consiste nel confondere il processo col risultato: se un manager ritiene importanti tanto il primo quanto il secondo, è bene essere coerenti e non mostrare poi un’attenzione sbilanciata sul secondo.
Può essere fuorviante fare annunci, promesse e valutazioni guardando soltanto ai risultati, se si vuole dare importanza anche al modo in cui vengono gestiti i processi.
In concreto ciò si traduce in situazioni ambigue come le seguenti: a volte c’è chi viene premiato per avere ottenuto il risultato, anche se non ha seguito il processo che era stato condiviso, e c’è chi viene penalizzato per il risultato ottenuto (inferiore alle attese, per cause non dipendenti dall’attore in questione) anche se il processo condiviso è stato seguito alla perfezione.
6 - Un sesto errore consiste nell’utilizzare forme inappropriate di comunicazione. Ciò accade, ad esempio, nella scelta del canale di comunicazione, ad esempio comunicando via mail informazioni e commenti “emotivamente carichi” che sarebbe consigliabile comunicare di persona.
Spesso, poi, non si dedica abbastanza attenzione al modo in cui il significato di ciò che viene detto cambia a seconda di “come” viene detto.
Posso dire a una persona «lascia stare, faccio io», lasciando intendere due cose molto diverse, a seconda del tono: la mia frase potrebbe significare «ho visto che sei in difficoltà per i troppi impegni e ti aiuto volentieri alleggerendoti di un carico», ma potrebbe anche significare «ci penso io, perché vedo che non sei all’altezza del compito». Perciò Il come si comunica è importante quanto il cosa si comunica, perché il “come” contribuisce al “cosa”.
7 - Un settimo errore consiste nell’ignorare il peso delle omesse comunicazioni. Uno degli assiomi della pragmatica della comunicazione messa a punto da Paul Watzlawick e colleghi stabilisce che “non possiamo non comunicare”. Ciò significa che comunichiamo anche quando non comunichiamo. In pratica, il “non dire” può mandare messaggi molto più pesanti del “dire”.
Esplicitando il tutto con un esempio: se non apprezzi i tuoi collaboratori (omissione di una comunicazione data per scontata), i tuoi collaboratori riceveranno il messaggio di non essere apprezzati; oppure se passi accanto alle persone senza salutarle e senza, per così dire, “vederle”, le persone riceveranno il messaggio di essere “invisibili” e di vivere in un’organizzazione fredda e distante.
Allora il disengagement è dietro l’angolo, con la coda di cupe conseguenze che porta con sé.
Leadership mitiche
Tra i presupposti di questo articolo c’è l’idea che sia utile, per un manager, farsi un buon equipaggiamento di idee e mappe sulla leadership e sul potere, in modo da estendere il proprio campo visivo e da affinare la sensibilità alle dinamiche che lo coinvolgono quotidianamente.
Per farsi questo equipaggiamento sono utili gli articoli e gli studi sul tema, ma anche le buone letture sui classici relativi al potere, i buoni film, il teatro e così via. Come suggerisce con forza James Hillman in un testo da leggere sull’argomento (Il potere. Come usarlo con intelligenza, Milano 2002), occorre lavorare sulle storie e sui miti che influenzano le proprie fantasie sul potere, perché le fantasie più diffuse poggiano su “idee semplicistiche di controllo, di autorità, di supremazia e di prestigio”.
Più specificamente, Hillman sostiene che l’eroica del potere ancora oggi più diffusa risale all’epoca vittoriana (1830-1890) e quindi agli anni del connubio tra industrialismo e imperialismo: da qui le metafore belliche applicate alla vita organizzativa, gli stili di leadership incentrati su comando e controllo, il modello del condottiero che si è fatto e fa da solo e così via.
Ci sono ormai molte indicazioni sul fatto che gli approcci manageriali ispirati da queste idee tendono a generare, sul medio-lungo periodo, diminuzioni nell’engagement dei dipendenti, con conseguenti inefficienze.
Per contrastare questa tendenza servono dirigenti che sappiano essere leader e maestri, ma non capi-claques. Tenendo conto anche di esperienze di formazione in ambito manageriale Hillman può così notare: «Rallentare il ritmo di lavoro, lavorare limitandosi a osservare le regole, giocare allo scaricabarile, l’assenteismo, rimandare le risposte, i documenti che vanno smarriti, le chiamate telefoniche che non vengono riferite: sono questi i modi dell’inefficienza che l’etica adotta per protestare nei confronti della tirannia dell’efficienza» (p. 54).
L’interrogativo “più inquietante” che consegue a tutto ciò, secondo Hillman, è il seguente: «Come è possibile esercitare potere, fare qualunque cosa da agenti, senza per questo dominare?».
Senz’altro aiuta, in questo compito, il sano intreccio di soft skills e leadership skills.
È una lezione già molto nota al mito greco. Consideriamo il fallimento di Creonte, nella tragedia Antigone, di Sofocle. Quando finalmente si trova ad essere sovrano di Tebe a titolo definitivo (e non soltanto come tutore di altri), Creonte mostra una singolare incapacità di ascoltare chi gli è vicino e, in particolare, coloro che gli parlano in modo franco e aperto contraddicendolo, ossia la nipote Antigone e il figlio Emone, innamorato di Antigone.
Di fronte a Cronte, Antigone dichiara di avere violato il suo decreto (divieto di seppellire il fratello), perché quel decreto non poteva né doveva essere rispettato. Il nocciolo del ragionamento di Antigone consiste nel sostenere che nessun decreto umano dovrebbe spingersi a violare la legge divina. Creonte le obietta: «Tu sola, fra tutti, la pensi così»; ma Antigone ribatte che tutti la pensano come lei, ma non lo dicono, perché la paura tappa la bocca e impedisce di parlare. Creonte non riflette su questo punto, ma si sorprende del fatto che Antigone non sia frenata dalla vergogna, considerando che dal suo punto di vista la maggioranza, o meglio tutti i cittadini tranne lei, agiscono diversamente.
Il conflitto tra le due visioni del mondo sembra inconciliabile, ma poi compare sulla scena Emone. Rivolgendosi al padre, lo invita a non confinarsi nell’isolamento distruttivo di chi non ascolta, richiamando alla sua attenzione le soglie critiche osservabili in natura, nell’interazione tra piante, torrenti, mare e imbarcazioni. «Tu sei convinto di avere sempre ragione: quello che dici è giusto, e tutto il resto è sbagliato», dice Emone al padre, invitandolo a cambiare atteggiamento.
Aggiunge perciò: «Anche chi sa può avere molto da imparare: non c’è niente di male. E non bisogna ostinarsi troppo». Seguono gli esempi: gli alberi che si piegano salvano i rami quando i torrenti sono in piena, quelli troppo rigidi vengono travolti e portati via con le loro radici; così in una barca, chi tende troppo la vela finisce col rovesciarsi, se non tiene conto della necessità di allentarla in relazione ai mutamenti ambientali.
Emone invita quindi il padre a fare un passo indietro e ad ascoltare i buoni consigli. Lo invita ad ascoltare opinioni diverse, a cambiare posizione e idea, a stare nel conflitto esercitando la sensibilità alle interazioni da cui anch’egli, come ogni elemento naturale – vivente e non vivente – dipende. La condizione di chi decide è paragonabile a quella dell’albero esposto al torrente in piena o della nave in mare aperto. Ma Creonte è come se non vedesse e non sentisse, perché è tutto preso dall’illusione di avere il completo controllo sugli eventi e sugli altri. I Greci chiamavano Ate questa cecità legata alla presunzione del controllo completo (o semplicemente all’illusione del controllo quasi-completo). Ate è una sorta di divinità alata, leggera, quasi impalpabile, che cala sulla testa delle persone (soprattutto di chi sale nella scala del potere) rendendole cieche ai propri limiti e alle conseguenze delle proprie azioni sulle persone. È bene che anche i manager di oggi sappiano che esistono forze come queste, personificate in Ate dal mito antico.
Non sappiamo se, ed eventualmente cosa, Emone abbia detto ad Antigone: nella tragedia si rivolge al padre perché questi, in prossimità di un esito tragico, può cambiare il corso delle cose esercitando la leadership in modo diverso da come sta facendo. Solo tardivamente il padre darà ragione al figlio. Troppo tardi: quando Antigone si sarà suicidata, seguita da Emone, seguito a sua volta dalla madre, moglie di Creonte. Come aveva predetto Emone, Creonte resta così solo, come solo aveva preteso di comandare, buono per una città deserta, pensando che una città è di chi la governa. C’è una lezione da imparare in tutto questo, ancora molto attuale (come ci dicono gli studi citati) per i manager di oggi che vogliano esercitare una buona leadership.
Checklist
Questa singolare Checklist prende senso solo dopo avere letto tutto l’articolo. Se le risposte ai singoli punti hanno valori tra 0 e 5, è consigliabile provvedere ad aumentare il proprio bagaglio di spunti, intuizioni e visioni sulla leadership e sul funzionamento del potere.
Quanti romanzi e racconti saprei citare, in cui sia messa a tema la leadership?
Quanti film o opere teatrali saprei citare, in cui siano messi a tema i nodi critici dell’esercizio della leadership?
Quante teorie (da filosofia politica, psicologia sociale, sociologia) saprei citare sulla leadership e sul funzionamento del potere? [Qui si dà per scontato il nesso vitale tra teoria e pratica: gli occhiali teorici di cui disponiamo ci fanno vedere diversamente le stesse situazioni e avere a disposizione lenti diverse permette di cogliere dettagli diversi degli stessi fenomeni]
Esercizi di auto-analisi: quali sono i miei limiti nel rapporto col potere? ho mai visto un “corridoio del potere”? Conversando con i Greci, preparare un elenco di difese immunitarie da attivare per tenere lontana Ate e valutare se sono disponibili nella propria “farmacia” aziendale.
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