Viaggio nelle case dei malati
Dove si soffre la fame d’aria e di relazioni
Le storie Enza, infermiera Adi del San Donato Habilita «Non solo prelievi e cure: ho vestito la paziente morta sotto i miei occhi, è stata l’ultima coccola per lei».
La mano stanca sfiora il polsino del camice usa e getta. L’infermiera è china a provare la pressione, Maria respira a fatica, la cerca con gli occhi e aspetta che quegli occhi le sorridano. Di fianco al letto, il bombolone dell’ ossigeno, compagno inseparabile da settimane.
Luigi invece riesce a stare seduto, ha un portamento fiero ma forse non capisce bene cosa gli stia succedendo. Il centro diurno che scandiva i suoi ritmi è ormai chiuso da più di un mese, s’ è ritrovato a casa 24 ore su 24 con l’ anziana moglie mentre i figli loro no, non possono raggiungerlo. Il rischio di portargli qualcosa di poco sano, addirittura il virus che qui fa tanta paura, li tiene con coscienza e ragionevolezza a debita distanza.
Scene di vita quotidiana, vite da coronavirus, dalle valli alla Bassa bergamasca. Sono quelle in cui si immergono le infermiere e gli operatori del servizio di assistenza domiciliare integrata, l’ Adi, del presidio socio sanitario San Donato Habilita di Osio Sotto, società a partenariato pubblico privato tra Comune e Gruppo Habilita.
Che si chiamino Maria, Luigi, Angela, Esterina o Mariulì non interessa - e infatti questi nomi sono tutti di fantasia -, ma i loro veri nomi, i loro bisogni e la fame di aria e di contatto umano, anche quello di cui mostrano un enorme bisogno pure i loro familiari, sono lì ad accogliere gli operatori che entrano in casa loro.
«È impossibile ora pensare di entrare in una famiglia e limitarsi ad attaccare una flebo o fare un cateterismo, misurare i parametri» spiega Enza Anemolo, case manager ovvero colei che organizza le 5 équipe multiprofessionali e quella pediatrica, pure lei sveglia all’ alba ad attraversare la provincia per raggiungere i pazienti, 630 pazienti adulti e circa 20 bambini quelli seguiti da Habilita. Lei da un mese e mezzo non vede suo figlio.
«Ha dieci anni e siccome sia io sia mio marito siamo infermieri - spiega l’ infermiera di Scanzorosciate - l’ abbiamo portato dai nonni. Abbiamo fatto questa scelta sia per motivi logistici, visti i nostri spostamenti, sia per proteggere lui e i nonni. Non lo vedo dal 1° marzo».
Bisogno di relazioni Mentre parla delle famiglie che lei e i suoi colleghi incontrano («hanno bisogno di relazioni e le relazioni sono tempo di cura»), Enza lascia che siano un paio di ricordi a lasciare il segno di questo orrendo e difficile periodo.
«Sono stata da una famiglia della Valle Brembana - racconta - e ci penso ancora a distanza di 10 giorni. Vengo contattata per andare a visitare il papà perché il medico di base era in quarantena, il medico sostituto non poteva uscire perché senza dispositivi di protezione individuale e il papà, che era in ossigenoterapia, aveva iniziato a manifestare febbre».
L’ infermiera lo raggiunge a casa e, vista la situazione, suggerisce alla famiglia di farlo visitare da un medico. «I parenti chiamano la guardia medica - aggiunge - e purtroppo il signore muore quella stessa notte, per crisi respiratoria». Due giorni dopo comincia a sfiorire anche la moglie, «una signora di 80 anni ma che ne dimostrava 65. Mi faccio dare i valori della saturazione - ricorda Enza Anemolo - e dico che c’ è bisogno di ossigeno», si usa la bombola del marito. L’ anziana donna inizia l’ antibiotico «e per 4-5 giorni era stabile. La monitoravo telefonicamente ogni due ore - prosegue l’ infermiera - e i parametri purtroppo peggioravano. In accordo telefonico col medico ho chiesto che fosse ricoverata o tenuta a casa, assistita».
La signora ha fame d’ aria, l’ ossigeno viene caricato da 2 a 8 litri, poi si passa al doppio antibiotico e all’ antireumatico, «ma non funziona. Al che, visto che i figli vogliono assisterla a casa, mi dicono “vogliamo tenerle la mano e coccolarla fino all’ ultimo respiro”, si iniziano le cure palliative. L’ insufficienza respiratoria la porta via a distanza di 7 giorni dal marito. Io ero lì».
La corsa contro il tempo non è bastata, ma c’ è tempo per un ultimo gesto di pietas, un’ ultima coccola sul corpo di quella nonna sfiorita in un soffio. «I figli mi hanno chiesto di aiutarli a vestirla, le abbiamo messo il golfino rosa che le piaceva tanto e un pantalone a fiori. Lì con quella famiglia sono stata 4 ore, immersa in un lutto non elaborato di 7 giorni prima e in quello appena successo».
Un tema, questo, caro anche a Cinzia Botter responsabile gestionale dei servizi del presidio socio sanitario San Donato Habilita. «È sempre più difficile fermarsi il tempo della sola prestazione: l’ infermiere di comunità è fondamentale, ci deve essere perché solo con una presenza costante che va a vedere e fa una medicina proattiva, si riescono a trovare soluzioni».
L’ escalation dal 12 marzo A maggior ragione in un tempo di emergenza: «Dal 12 marzo fino a questa settimana - spiega Botter - è stato un aumento di casi, con 10-12 richieste di attivazioni al giorno, le famiglie in preda al panico cercavano delle risposte che purtroppo non venivano date né dai medici di medicina generale perché magari malati pure loro, né da Ats perché magari i numeri erano sovraccarichi». E loro a rispondere «a tutto quel disagio sociale che si è generato, perché gli anziani soli ci sono sempre stati, ma con servizi attivi, mentre ora i centri diurni sono chiusi».
Attenzioni e sguardo attento senza i quali, forse, «un paziente con brutte ulcere non sarebbe stato ricoverato: era solo, la moglie era morta una settimana prima e i figli non potevano arrivare. Ma alla fine è stato portato in ospedale».
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