«Tu resta, hai tanto da fare con i ragazzi»
Alberto Daminelli è tornato a casa
Alberto Daminelli ha lottato contro il Covid-19 per 141 giorni, ma alla fine ce l’ha fatta e ora è a casa. «Ho sognato don Resmini che andava verso una grande luce: gli ho detto “aspettami”, ma mi ha risposto di tornare indietro».
Giasone è tornato. Non ricorda dove ha vagato. Perso tra le nebbie di un viaggio nell’ignoto alla ricerca inconsapevole di un sentiero del ritorno. Il suo fisico scolpito ha lottato, nel silenzio totale, contro il mostro della pandemia. Ha combattuto dentro l’arena di un lungo sonno forzato sostenuto dagli eroi instancabili dell’ospedale Papa Giovanni. Sospeso sul baratro del grande salto eterno, Giasone non è mai stato abbandonato nella battaglia durata 141 giorni.
I suoi Argonauti l’hanno cercato tutti i giorni in questi quasi cinque mesi, costruendo una lunghissima corda digitale di quotidiani messaggi irrobustita dai nodi delle preghiere da lanciare nel grande mare del coma indotto: erano sicuri che prima o poi Giasone, seppur rimasto solo con un filo di forza, quella corda l’avrebbe afferrata e si sarebbe risollevato.
E così è stato, da ieri Giasone e Argonauti sono di nuovo insieme per riprendere l’avventura nelle acque amiche.
In tutto ciò non c’è nulla di mitologico ma solo realtà, perché Giasone è Alberto Daminelli, insegnante di religione nella scuola media di Osio Sotto-Verdellino, collaboratore della Custodia di Terra Santa, atleta e coach della squadra agonistica di nuoto «Argo Team» della piscina Acquadream di Osio Sotto (si occupa anche delle pagine del nuoto nell’inserto Csi de «L’Eco»), e gli Argonauti sono i suoi giovanissimi atleti che dal 27 marzo, giorno del ricovero all’ospedale Papa Giovanni XXIII per Covid-19, hanno tessuto una trama di pensieri sulla pagina Facebook della squadra rivolgendosi direttamente ad Alberto, un diario al quale hanno affidato i ricordi più belli ma anche le esperienze più dure che avevano superato grazie al coach. Una restituzione scritta della loro riconoscenza per tutti i consigli ricevuti perché lui potesse in qualche modo percepire questa onda di sentimenti e cavalcarla fino a casa. Ce l’ha fatta: ieri a mezzogiorno è stato accolto con una festa nella sua casa di Osio Sopra, in via Galvani, dalla sua famiglia emozionata da un rientro che in più momenti era quasi diventato un miraggio.
E invece la realtà, ancora una volta, ha superato il limite umano. Alberto è tornato alla vita e con lui i suoi famigliari in lacrime di gioia: mamma Irene, papà Carlo, le sorelle Maddalena e Patrizia (Grazia è rimasta bloccata in Malesia dove vive) e il fratello Franco. Insieme a loro, i tanti amici della «vita precedente» di Alberto.
Ci sono due date – 27 marzo e 14 agosto – che segnano l’inizio e la fine di un incubo. Come è stato il risveglio?
«Piuttosto traumatico. Era il 12 maggio. Ricordo di essermi guardato attorno e di non capire dove fossi e soprattutto per quale motivo non riuscissi a muovere nemmeno un dito. Ero stato ricoverato che pesavo 90 chili di muscoli e mi ritrovavo con un fantoccio di fisico da 65 chili senza forza. D’altronde dopo una settimana di ricovero con il casco Cpap i miei polmoni erano diventati di marmo e quindi i medici avevano dovuto portarmi in terapia intensiva in coma farmacologico. Di quel periodo ovviamente non ricordo nulla ma i medici mi hanno raccontato che pensavano non ce la facessi. Sono persino rimasto attaccato all’Ecmo (ossigenazione extracorporea) per 17 giorni. Era l’ultima chance di ripresa e ha funzionato, insieme a tutte le altre cure. I primi giorni sono stati davvero difficili, non riuscivo ad accettare quella situazione di immobilità totale. Non sapevo più muovermi né parlare né mangiare, nulla di nulla. Ma i medici e gli infermieri mi hanno sempre rincuorato. Sono stati eccezionali».
Non ricordi proprio nulla del periodo in coma?
«Incubi e ancora incubi. Un’esperienza, mi hanno confermato i medici, che hanno fatto anche altri pazienti. Sogni angoscianti che coinvolgevano me e la mia famiglia. C’è un solo episodio positivo che ricordo bene: ho sognato don Fausto Resmini che camminava verso una grande luce. Io conoscevo don Fausto e l’ho chiamato: aspettami! Ma lui si è girato e mi ha detto: torna indietro che hai ancora tanto da fare con i ragazzi. Questo è l’unico sogno bello. Conoscevo don Fausto perché tutti gli anni veniva nella scuola dove insegno per la settimana della legalità e prima di entrare in coma avevo saputo della sua morte. Evidentemente mi è rimasto dentro il suo ricordo che ha prodotto questo sogno meraviglioso. Lo conserverò nel mio cuore per tornare tra i ragazzi del nuoto e della scuola a fare ancora di più e meglio».
Quando ti sei risvegliato sei stato assalito da centinaia di messaggi. C’era un mondo là fuori che aspettava con trepidazione il tuo ritorno. Cosa hai provato quando questa onda di affetto ti ha travolto?
«È stata un’ancora di salvezza. La mia famiglia è stata immensa. E insieme a lei ho percepito un’ampia rete di protezione che mi avvolgeva e ho iniziato a impegnarmi nella riabilitazione per poter restituire questo amore. Una delle esperienze più forti è stata quella con la scuola: mi sono collegato dalla terapia intensiva agli esami di terza media dei miei allievi. Potevo solo salutarli, ma ero felice perché ero al loro fianco. Qualcuno ha parlato anche di me nelle mappe concettuali sul tema del coronavirus. È stato davvero emozionante. Credo di essere stato l’unico caso di insegnante, così grave, collegato alla scuola da una terapia intensiva».
Tu sei un collaboratore della Custodia di Terra Santa. Dai luoghi di Gesù si sono alzate tante e intense preghiere. Quanto hanno influito nella tua guarigione?
«Hanno rappresentato una grande motivazione. So che sono state celebrate Messe per me al Santo Sepolcro, alla Basilica della Natività a Betlemme e a Nazareth. Ma il vero miracolo si è verificato qui, e non è la mia guarigione, bensì che tante persone abbiano pregato dopo anni che non lo facevano. Queste invocazioni hanno guidato la grande professionalità dei medici e dei sanitari nel percorso giusto che sembrava apparentemente disperato. Sarò riconoscente a vita verso queste persone straordinarie che lavorano all’ospedale Papa Giovanni, al centro di riabilitazione di Mozzo e a tutti coloro che hanno pregato per me. Diciamo che tutti insieme hanno messo alle strette il Signore. In tanti mi hanno detto che dicevano: sia fatta la tua volontà e poi aggiungevano un ma…. Quel “ma” ha fatto la differenza».
Come ritornerai alla vita di tutti i giorni?
«Con un senso di rinascita. In fondo è stato proprio così. Ho dovuto essere rieducato fisicamente come un bambino. Mi è stata data una nuova possibilità di vita e voglio sfruttarla al meglio. La domanda non è più: perché è successo a me? Ora c’è solo la risposta di una nuova opportunità. Ho dentro una forza che voglio tirar fuori per fare in modo più deciso le cose di sempre. In terapia intensiva ho fatto esperienza di cosa significa dipendere in tutto dagli altri, ho capito quanto siamo fragili e quanto sia importante l’altro».
Gli altri – te ne accorgerai presto – non sono tutti consapevoli di questa importanza. Infatti, nonostante il virus sia ancora tra noi, ci sono comportamenti poco responsabili. Quale messaggio vuoi comunicare a queste persone?
«Chi non vede il problema è un incosciente. Non devi arrivare a provare la mia esperienza per prendere precauzioni per te stesso e per gli altri. Io non auguro nemmeno l’1% di ciò che ho vissuto, neanche al peggior nemico. La mancanza dell’aria che ti circonda è un’esperienza drammatica e di una violenza inimmaginabile. Ti spaventa, ti segna per sempre. Non arrivate a questo. Aiutiamoci insieme. Non esiste solo l’io, c’è un noi che ci può salvare. E io ne sono la dimostrazione».
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