Tre tamponi e due quarantene
Crystal e l’odissea lunga un mese
Un’odissea lunga un mese tra gli ospedali di Ponte San Pietro, Bergamo e Treviglio. Le ansie, le paure, il fantasma della sindrome di Kawasaki in un contesto che diventava ogni giorno più tortuoso, fatto di tre tamponi e due quarantene.
Ma alla fine Crystal, 15 mesi, è uscita dall’incubo anche grazie alle premure e all’amore della famiglia e alle cure, soprattutto, della struttura trevigliese che ha saputo riaccendere la luce in fondo al tunnel. Tutto comincia a fine ottobre quando mamma Melissa e papà Michael, coppia di Bonate Sotto, in accordo con la pediatra, scelgono di sottoporre la secondogenita (la prima, Chanel, compirà 3 anni il gennaio prossimo, ndr) a una serie d’esami a causa di una crescita che sembrava bloccata. Tampone per la mamma, tampone per la piccola e quarantena per sette giorni da vivere in una stanzetta angusta in cui Melissa, che non ha lasciato la figlia nemmeno per un istante, poteva riposare solamente su una poltrona. Il peggioramento della situazione legata alla pandemia, tuttavia, ha costretto i medici a consigliare il ritorno a casa almeno per qualche giorno.
«Una volta tornata a casa – racconta Melissa – ha cominciato a stare male con la febbre arrivata a 39,5 senza segnali di discesa. Poi la comparsa di puntini rossi sulla pelle e successivamente un colore violaceo. Non mangiava e non beveva e così, una volta sopraggiunta la congiuntivite, altro tampone. Stavolta esteso anche a papà e alla sorella: tutti negativi. Eppure il malessere proseguiva con l’aggiunta di problemi intestinali».
E una situazione simile, con una disidratazione sempre più accentuata ha chiamato un intervento più che mai necessario. Al Pronto soccorso di Bergamo, a metà novembre, per sospetta sindrome di Kawasaki. Una mazzata. «Un esame del sangue – spiega Melissa - che non auguro a nessuna mamma con il sangue che non usciva, forzature necessarie sul braccio e le infermiere chiamate a riempire quattro provette. Passata anche questa, la sera il pericolo viene scongiurato. Viene solamente prescritta una pomata per la congiuntivite». Altro ritorno a casa e altri problemi di stomaco in aggiunta al primo sorso di latte. Crystal non mangiava, non dormiva così la pediatra ha trovato la chiave: una chiamata all’ospedale di Treviglio, nuovo ricovero. Altra trafila, terzo tampone per mamma e figlia e nuova quarantena. Stavolta però finalmente il sorriso, nonostante anche la comparsa di afte che provocavano pianti ad ogni tentativo di bere acqua: niente sindrome, ma due virus in contemporanea.
Uno all’apparato respiratorio e l’altro a quello intestinale che avrebbero dovuto fare semplicemente il loro decorso, senza ricorrere ad antibiotici. Fermenti lattici, yogurt e tachipirina in caso di febbre, la rinascita simboleggiata dal fatto che la piccola – nel frattempo – aveva ripreso a camminare. Un segnale, quello decisivo. Per tornare alla normalità. Una vittoria di squadra, di una famiglia compatta. Perché attorno a quella fase travagliata si muoveva un universo in cui l’ausilio di nonna Mina è stato fondamentale per consentire una gestione sostenibile capace di abbinare la «normalità» all’eccezionalità. Una vicenda che ha tenuto col fiato sospeso, ma che sulla sua strada ha trovato figure-cardine. Con e senza il camice bianco.
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