Sul cavalletto tocchi di creatività
spazzano via il male più resistente
Patrizia Monzio Compagnoni: aveva solo il 10% di possibilità di vita, con l’arte e i trapianti ha aggiunto uno zero.
«Ci sono sempre mille soli al di là delle nuvole» dice il proverbio indiano che Patrizia Monzio Compagnoni, pittrice di Treviglio, ha scelto come messaggio da donare con i suoi segnalibri, variante creativa dei biglietti da visita. Accanto alle parole c’è un particolare di uno dei suoi ritratti, un volto di donna dipinto d’azzurro che trasmette serenità e determinazione. Sono le qualità alle quali si è sempre affidata per superare le difficoltà della vita, ma quando si è ammalata di «Linfoma non Hodgkin» la sua arma segreta è stata l’arte. Ora le sue opere si possono ammirare al Museo d’arte contemporanea di Luzzana nell’esposizione personale «Sguardi del mondo» aperta fino al 14 febbraio, con ingresso gratuito (info www.museoluzzana.it).
La ricerca della bellezza
Cercare la bellezza ovunque, farla emergere attraverso il disegno: Patrizia predilige i colori a olio e i pastelli, che le permettono di raggiungere effetti delicati e suggestivi. «Sono come Salgari ma nella pittura – dice sorridendo –. Non ho viaggiato molto ma mi sono ispirata ai racconti e agli scatti di grandi amici fotografi. Scelgo spesso come soggetti persone di altre culture, di Paesi lontani, attingendo forza dall’immaginazione. La malattia mi ha messa duramente alla prova, ma mi ha spinto anche ad aprire gli orizzonti, a osservare meglio la realtà che mi circonda, a mettermi nei panni degli altri».
Patrizia ha sempre avuto una grande passione per il disegno, fin da piccola, quando i suoi quaderni erano illustrati in ogni pagina, ed erano così belli che le insegnanti li «facevano passare per le classi». Ma per motivi diversi questa attività per tanti anni è rimasta ai margini. Si è sposata, ha avuto un figlio, si è dedicata ad altro. «Poi, spinta dalla curiosità e dal desiderio di riprendere in mano i colori – racconta –, ho frequentato un corso di pittura su stoffa, e la mia maestra apprezzava la mia abilità, tanto che un giorno mi ha chiesto aiuto per terminare un lavoro di decorazione di un appartamento. Così è iniziata la nostra collaborazione professionale».
I negozi e la passione per l’arte
È stato un periodo felice ma non è durato a lungo; qualche tempo dopo, infatti, ha dovuto cambiare settore, e ha iniziato a occuparsi di due negozi di abbigliamento: «Mi piaceva ma era molto faticoso, mi capitava di lavorare anche per dodici ore al giorno. Quando mio figlio è entrato nell’adolescenza ci ho pensato a lungo e poi ho preferito chiudere le attività per potergli dedicare più attenzione. Mi sembrava anche il momento giusto per ricominciare a dedicarmi a passioni trascurate, come la pittura. Fino a quel momento non mi ero mai cimentata nei ritratti, ho incominciato iscrivendomi a un corso di pittura a Cassano, in una scuola d’arte. Guardavo con ammirazione le opere del mio maestro, mi chiedevo se sarei stata mai in grado di fare qualcosa di altrettanto bello. Non è passato molto tempo, però, e ho incominciato a non sentirmi bene, ad avvertire sintomi allarmanti».
L’improvvisa paralisi facciale
Una stanchezza anomala, un gonfiore strano sotto la mandibola, poi una sera, tornando a casa, Patrizia si è accorta di essere stata colpita da una paralisi facciale: «Secondo i medici che mi hanno visitato non sembrava nulla di grave, ma ho chiesto di approfondire, perché non ero convinta. All’inizio dalle analisi non emergeva nulla, poi però è arrivata una terribile diagnosi: linfoma non Hodgkin a grandi cellule al quarto stadio. Avevo 39 anni, è stato un fulmine a ciel sereno. Mi hanno dato il 60% di probabilità di guarigione e mi sono aggrappata a questo. All’inizio ho scelto di curarmi nel piccolo ospedale di provincia, dove lavorava un amico medico, con la speranza di trovare più umanità e attenzione».
Il calvario delle cure
Le terapie, però, sempre faticose e invalidanti, non davano l’effetto sperato: «In cinque anni ho avuto tre recidive. Sei cicli di chemioterapia, un momento di pausa ed ecco che il tumore tornava in una posizione diversa: le ginocchia, il bacino. A quel punto hanno incominciato a raccogliere le cellule staminali per un autotrapianto. Ho attraversato un periodo di profonda crisi, avevo perso tutti i miei capelli, che allora erano biondi e lunghissimi».
Anche in quel momento così cupo, però, Patrizia non si è arresa. Le tremava la terra sotto ai piedi, non sapeva che cosa sarebbe accaduto, ma ha deciso di farsi forza e di lottare con fiducia, nonostante il vento contrario. Ha scoperto che davvero, come scrive Erich Fromm, «l’incertezza può diventare la condizione perfetta per incitare l’uomo a scoprire le proprie possibilità». Il primo passo era capire come proseguire le terapie: «Ho deciso di consultare altri medici, ne ho sentiti quattro, perché non avevo più certezze. All’Istituto dei Tumori di Milano mi hanno dato il 10 per cento di possibilità di guarigione. È stato uno smacco, ovviamente, constatare quanto si fosse ridotta la percentuale rispetto all’inizio del percorso. Cancellato il primo pensiero negativo, ho deciso di fidarmi e di credere che potevo farcela, perché aggiungendo uno zero, in fondo, il dieci poteva sempre diventare cento. Era un grande istituto ma nessuno mi ha mai trattato come un numero, anzi, mi hanno mostrato gentilezza fin dall’inizio della cura, mi sono sentita sempre coccolata dal personale».
Patrizia al momento del ricovero per l’autotrapianto ha portato con sé pastelli e colori e gli infermieri li hanno sterilizzati uno per uno per permetterle di usarli. Nella stanza asettica, dove doveva restare in isolamento, ha disegnato una bambina che inseguiva una farfalla: «Quel disegno rappresentava il mio desiderio di fuggire e di trovare qualcosa di bello».
Il medico ha visto il disegno e l’ha apprezzato molto, quindi ha stretto un patto con Patrizia: «Mentre lui si impegnava al massimo per farmi guarire, io avrei potuto dipingere le pareti della mia stanza dell’ospedale. Ho decorato le vetrate disegnando gerani che il sole, al mattino, proiettava sulle pareti creando bellissimi effetti cromatici». Ed è successo qualcosa di inaspettato, la passione di Patrizia si è diffusa come una corrente d’energia positiva, un segno di speranza, perché anche la bellezza può diventare contagiosa: «Mi mettevo i guanti – ricorda con un sorriso – portavo i colori agli altri pazienti, medici, infermieri e dipingevamo tutti. Abbiamo creato un acquario, una stanza dei girasoli, abbiamo cambiato l’atmosfera delle stanze, e con essa anche l’umore delle persone. Sono nate belle amicizie, legami forti che ci hanno aiutato a proseguire nel nostro difficile cammino».
Come una pattinatrice, Patrizia procedeva con un equilibrio sottile, sul filo dell’incertezza e un anno e mezzo dopo il primo trapianto, purtroppo il tumore si è ripresentato: «Mio figlio stava partendo per trascorrere un anno in Australia. Mi sarebbe piaciuto andare a trovarlo, avevo già tanti programmi in testa. Forse quello è stato il momento più difficile. Gli ho detto quello che stava succedendo ma senza spaventarlo, perché non volevo che rinunciasse al viaggio». Arrivata a quel punto, l’ultima speranza per Patrizia era un trapianto da donatore: «Mia sorella fortunatamente era compatibile, è stata coraggiosa e ha accettato di aiutarmi. Il rischio di morire a quel punto era concreto, vedevo ogni giorno altri pazienti spegnersi accanto a me, ma ho voluto tentare comunque. La sofferenza è stata grande, ma ho trovato la mia strada per reagire. Ogni sera scrivevo un diario per sfogarmi e tentavo di aggrapparmi alle piccole cose: i disegni, lo splendore dei tramonti fuori dalla mia finestra, le visite della mia famiglia e degli amici. Dovevo farcela per mio figlio così lontano, ci tenevamo in contatto ma mi mancava molto. Ci è voluto tempo prima di riprendermi completamente, e ancora diversi periodi trascorsi in ospedale, dove le mie giornate trascorrevano sempre - lo dicevo scherzando - tra letto e cavalletto. Prima di ogni ricovero i miei amici mi portavano sempre a fare qualcosa di bello, come visitare una mostra».
A un passo dalla morte, guarita
Patrizia ha continuato a navigare a vista, con prudenza: «Dovevo sottopormi a controlli frequenti, prima ogni settimana, poi ogni quindici giorni e in seguito una volta al mese. Pian piano queste visite si sono diradati e sono riemersa, finché sono tornata a una vita normale, e i capelli hanno iniziato a ricrescere. Ho continuato a dipingere volti, era un modo per entrare nella vita di altre persone, e di ogni luogo del mondo anche senza esserci mai stata».
«Non appena la guarigione è avvenuta – scrive la poetessa americana Maya Angelou – esci e guarisci qualcun altro», ed è questa la disposizione d’animo che Patrizia custodisce: «Sono arrivata a un passo dalla morte, ma sono ancora qui. Se torno indietro trovo un grande carico di emozioni, date e ricevute. Ho avuto molta paura, ma senza la malattia forse non sarei diventata la persona che sono oggi. Ormai mi ricordo soltanto le cose belle, il dolore pian piano col tempo sbiadisce. Mi sento grata della guarigione e della mia vita e sento di avere una responsabilità verso le altre persone che si trovano nella mia stessa condizione, perciò quando è possibile cerco di offrire loro un aiuto. Mi piacerebbe entrare a far parte di un’associazione di volontariato». Lei ricorda spesso, usando le parole di Goethe, che «l’arte è il luogo più sicuro dove rifugiarsi», e la sua storia si specchia in quelle narrate nei suoi dipinti: lo sguardo di un clown, un aborigeno con il didgeridoo, una madre africana. In ognuno c’è un concentrato di meraviglia, stupore e amore per la vita. Nei colori continua a vibrare la stessa corrente positiva che l’ha aiutata a sconfiggere la malattia, un’energia contagiosa, un segno di speranza.
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