Sopravvissuto al Covid, va in pensione l’ispettore Ferrari: «Vita intensa, ma rifarei ogni cosa»
Treviglio. Dal ’94 al commissariato, si ammalò nel marzo del 2020. Poi 7 mesi di cure: «Ora felice anche solo di essere qui».
Nei primi giorni della pandemia, quelli più duri del marzo del 2020, non aveva esitato a scendere nelle strade di Treviglio per invitare le persone a restare in casa durante il primo lockdown. Una foto di quei giorni lo ritrae in una centralissima via Roma raramente deserta, mentre cammina accanto al collega e amico Angelo Lino Murtas, allora dirigente del commissariato. Proprio in quei frangenti, mentre invitava tutti a stare in casa per evitare il Covid-19, fu lui ad ammalarsi.
E in maniera molto grave: Franco Ferrari, ispettore del commissariato, finì all’ospedale il 26 marzo 2020 e tornò a casa soltanto il 27 ottobre successivo, dopo un calvario che sembrava senza fine: «Quando sono tornato cosciente, dopo due settimane di coma e due mesi di terapia intensiva – racconta –, il medico mi ha guardato e mi ha detto: si ricordi che lei è un miracolato. Per questo ora voglio godermi ogni istante della mia vita». Compiuti i 60 anni lo scorso 10 settembre, sabato ha lasciato la polizia di Stato, famiglia nella quale era entrato il 5 dicembre 1981. Per Ferrari è arrivato il momento della pensione e di salutare quella divisa che, indossata da lui, era sinonimo di cortesia, altruismo, spirito di servizio.
Già E il 29 maggio dell’anno scorso Franco Ferrari aveva coronato un altro sogno: quello di sposare Elena. Nato a Maratea, in Basilicata, scelse di entrare nella polizia di Stato in anni drammatici per l’Italia: «Erano gli anni di piombo, ma questo non mi spaventava – racconta –: fin da ragazzino avevo la passione per la divisa, benché non avessi parenti in polizia. Così ho scelto questa vita, che rifarei in tutto e per tutto». Seguiti i corsi a Caserta e Bologna, il primo incarico è alla Polfer di Milano, dall’83 al ’91, quando giunge a Bergamo, per un anno alla Polfer e poi alle volanti in questura. «Nel ’94 riaprivano il commissariato a Treviglio e venne chiesto chi volesse andarci. Risposi subito di sì: rappresentava un posto nuovo, che avremmo costruito da zero. E così è stato: mi sono occupato di polizia giudiziaria, volanti, ordine pubblico, tra grandi soddisfazioni e riconoscimenti, l’ultimo alla festa della polizia di quest’anno, quando il questore Stanislao Schimera mi ha consegnato, proprio a Treviglio, un compiacimento a coronamento della carriera».
Carriera di cui il periodo peggiore è stato indubbiamente il Covid: «Ho perso venti chili in due mesi, ho visto foto di me nelle quali stento a riconoscermi. I muscoli mi si sono atrofizzati e ho dovuto reimparare ogni cosa: per un mese mi hanno imboccato gli infermieri. Per tre mesi, all’ospedale di San Donato, non ho potuto vedere Elena. I primi due mesi sono come un buco nero: ho ricordi vaghi. a tratti onirici, di camici bianchi che mi girano intorno. Soltanto mesi dopo ho saputo quello che stava accadendo nel mondo. Intanto i miei polmoni erano stati “fermati” e sostituiti da una macchina per l’ossigenazione extracorporea. Quello che mi ha spinto a resistere è stato il fatto di sapere che a casa e al lavoro c’era qualcuno che mi aspettava. E oggi sono la persona più felice del mondo, anche per il semplice fatto di trovarmi qui».
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