«Per nostro figlio ucciso pochi soldi, ma li doniamo»

OSIO SOTTO. I genitori di Puppo: dall’omicida di Roberto solo 60 euro al mese. I legali di Bertola (in carcere): «Per lui si tratta di una somma significativa».

«Il responsabile della morte di mio figlio ci ha proposto un pagamento risarcitorio di 60 (sessanta!) euro mensili. Comprendiamo che si tratta di una legittima azione legale che si attua in seguito a una sentenza di condanna e, dopo avere pensato molto a lungo, abbiamo accettato obtorto collo. Nessuna somma può mai risarcire la perdita di un figlio, ma 60 euro al mese è il valore di una vita? Non conosco parole adeguate».

L’indignazione è delicata, come il tono e il contegno che questa madre ha tenuto anche durante le udienze del processo, quando si trattava di ascoltare come era morto il suo Roberto e di farlo a pochi metri dall’uomo che ha sempre negato le proprie responsabilità e di conseguenza non ha mai chiesto perdono dell’omicidio per cui ha poi rimediato l’ergastolo in via definitiva. Sono passati più di 13 anni da quando Roberto Puppo, 42 anni, di Osio Sotto, è stato ucciso in Brasile e Anna Prospero per tutto questo tempo ha continuato a portare silenziosamente la croce del suo dolore. Finché a settembre, a scombussolare questa afflizione intima, non è giunta quella che la signora Anna definisce «un evento inatteso e indesiderato che ci ha riportati indietro a quei tempi, con la mente e con il cuore»: la proposta del mandante del delitto, Fabio Bertola, 55 anni, architetto immobiliarista di Verdellino.

«Con la sua condanna definitiva pensavamo di avere chiuso il capitolo giudiziario che si è trascinato per anni come un infinito calvario», rimarca seduta nel salotto dell’appartamento insieme al marito Antonio e alla figlia Eva. «Questa vicenda ci è invece ripiombata addosso all’improvviso e in modo freddo, come una pratica burocratica – osserva la sorella di Roberto –. Vanno bene le agevolazioni per chi si dimostra ravveduto, cosa che questo signore però non ha fatto. Siamo feriti dal fatto che lui possa beneficiare, nel caso, di queste agevolazioni in modo così semplice. E noi ora ci siamo resi conto che una vicenda tragica come quella che ci è toccato vivere, alla fine può prendere strade diverse: il dolore dei familiari e le leggi che favoriscono percorsi senza tenere conto di questo dolore. Anche perché mio fratello non è stato investito da un pirata della strada. Gli hanno sparato come a un cane, nell’ambito di un delitto premeditato».

Ucciso in Brasile nel 2010

Puppo fu ucciso nella zona di Maceiò il 24 novembre del 2010 in quella che doveva sembrare una rapina, ma che risultò essere una trappola. Bertola era in sofferenza economica per via della gestione fallimentare del bar «Hemingway» di via Borfuro a Bergamo e per risollevarsi aveva escogitato un piano criminale internazionale: imbottire l’amico di polizze puro rischio morte, spedirlo in Brasile con la scusa di nuove prospettive di lavoro, farlo eliminare con un omicidio di strada capace di mascherare il reale movente e incassare il premio da 1.150.000 euro dalle tre assicurazioni («La formidabile prova d’accusa», le hanno definite i giudici) i cui beneficiari risultavano fittiziamente la moglie (ignara) e due amici prestanome (hanno patteggiato). «Uno scopo particolarmente ignobile», ha chiosato la Corte d’assise d’appello. La polizia brasiliana catturò per primo il 17enne che, dopo aver esploso i colpi di pistola, s’era vantato in giro dell’impresa, poi i due complici. I tre furono scarcerati poche settimane dopo e sono ancora a piede libero. Bertola e i suoi appoggi bergamaschi furono arrestati il 13 giugno 2013 dopo un’indagine dell’allora pm di Bergamo Carmen Pugliese e dei carabinieri. L’architetto ha passato il primo periodo in carcere a Bergamo, poi 4 anni e mezzo ai domiciliari per motivi di salute, infine, dopo che il 21 marzo 2018 la sentenza è passata in giudicato, è tornato in cella. Il ricorso alla Cedu è stato rigettato nel 2019 e ora a Bertola resta solo la speranza di una revisione del processo. I nuovi elementi necessari, ipotizzano i difensori, potrebbero emergere dal dibattimento brasiliano. Che, al momento, non risulta però essere stato ancora istruito.

Dal 2019 Bertola è nel carcere modello di Bollate, dov’è detenuto Massimo Bossetti, l’assassino di Yara Gambirasio. Ed è qui che, come il muratore di Mapello, ha ottenuto da un paio d’anni l’articolo 21, e cioè il permesso per lavorare. «Per questa attività prende compensi, non so dire quanto, ma posso assicurare che i 60 euro che devolve sono una parte non trascurabile», spiega Anna Marinelli, che con il collega Riccardo Tropea ha difeso l’architetto. Ed è a questo punto che, tramite i legali, Bertola ha fatto pervenire la proposta all’avvocato Emanuela Sabbi, legale della famiglia Puppo. Dopo aver ricevuto l’assenso, dal 30 novembre scorso il 55enne ha cominciato a versare alla famiglia della vittima i 60 euro mensili, somma simbolica che, come sostiene Marinelli, è il tentativo da parte di un uomo condannato di dimostrare che non intende sottrarsi ai propri obblighi.

I legali: non è giustizia riparativa

Il difensore esclude che il passo del suo cliente rientri nell’ambito della giustizia riparativa («Non in senso tecnico, almeno»), foriera di benefici per i detenuti che intraprendono il percorso, e sottolinea che la buona volontà di Bertola risale a tempi non sospetti, prima che venisse introdotto questo strumento premiale. «A Bollate ha lavorato come volontario e senza compensi all’interno del carcere fin quasi da subito. È stato responsabile dello sportello giuridico e durante la pandemia faceva la spola con la sezione Covid per ritirare le istanze dei detenuti».

La giustizia ha stabilito per la famiglia Puppo un risarcimento di 750mila euro. «Ma sappiamo che non li prenderemo, perché non ha nulla (l’unico bene intestato, l’abitazione, è finita alla banca perché gravata da un mutuo, ndr). Di certo le somme che ci verranno inviate, fossero anche 3.000 euro al mese – precisa Anna Prospero –, andranno in beneficenza, come faceva Roberto. Lui aveva l’animo buono, altruista, disponibile, sincero. Non c’è altro modo di utilizzare quei soldi. A noi non interessano, ci preme solo che quell’uomo sconti la sua pena». Per quale motivo avete allora accettato l’offerta? «Perché, se non lo avessimo fatto, Bertola avrebbe devoluto a suo nome la quota a qualche associazione – risponde la signora Anna –. Allora, meglio che la beneficenza arrivi direttamente a nome di Roberto. Anche se è molto triste e penoso, e lo sarà ogni volta che ci arriverà questo denaro».

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