«Maleducato!». Ma era «solo» iperattivo
Il rugby riesce a incanalare le sue energie
La mamma racconta il difficile percorso: a scuola veniva sempre punito, poi gli serviva un’ora di bici.
In una squadra di rugby c’è spazio per tutti: «Il potente sfonda – come scrive il giornalista Luciano Ravegnani – il piccolo s’infiltra, l’alto salta, il guizzante corre». L’inclusione è un principio cardine di questo sport, in cui «la vittoria passa sempre dalle mani di un compagno». Lo stanno sperimentando anche Riccardo, 12 anni, un ragazzo con Adhd, disturbo evolutivo da deficit di attenzione e iperattività, e la sua mamma, Anna Tomarelli: nella squadra Under 14 dei Bulldog Rugby Asd di Comun Nuovo hanno finalmente trovato un ambiente accogliente e amichevole.
Un’accoglienza non scontata, perché l’Adhd spesso si trasforma in un marchio a fuoco sulla pelle dei ragazzi, un vero e proprio stigma: «La gente – osserva Anna – li considera maleducati, perché mancano di autocontrollo, rispondono male, non stanno mai fermi, non rispettano le regole. È facile giudicarli in questo modo ma dietro ognuno di questi comportamenti si nasconde una profonda sofferenza».
Due allenamenti
Due allenamenti alla settimana e una partita non bastano per esaurire le energie e il desiderio di muoversi di Riccardo, che segue anche un corso di kickboxing e si cimenta in lunghi giri in bicicletta: «Non trascorre molto tempo in casa, ha bisogno di sfogarsi – racconta la mamma – e lo sport è un aiuto prezioso per incanalare le energie e dare sfogo al tumulto di emozioni che gli si agitano dentro».
L’Adhd non è facile da individuare; Anna, di Verdello, fino al 2013 co-titolare di un asilo nido, poi mamma a tempo pieno, ha incominciato ad avere qualche sospetto fin da quando Riccardo era piccolo: «Era sempre in attività, saltellava, faceva dondolare le gambe, all’asilo era scatenato. Avevo molti dubbi, ma le sue maestre mi hanno spinto a rimandare la valutazione, perché era troppo piccolo».
I campanelli d’allarme
Qualche mese prima dell’inizio della scuola primaria Anna ha portato il figlio da una psicologa: «Continuavo ad avere la sensazione che ci fosse qualcosa che non andava, anche se non capivo di che cosa potesse trattarsi. Quando andavamo al parco mio figlio si arrampicava sugli alberi, correva per ore, si comportava in modo diverso dagli altri, anche se mi sembravano sfumature, non immaginavo che potesse trattarsi di un disturbo vero e proprio. Ho scoperto l’esistenza dell’Adhd con una ricerca sul web e ho riconosciuto tutti i campanelli d’allarme. All’inizio della prima elementare abbiamo consultato anche una psicomotricista che mi ha consigliato la lettura di un libro destinato ai genitori di bambini iperattivi, con alcuni suggerimenti per riuscire a gestirli e recapiti utili. Così ho scoperto l’associazione Aifa (Associazione italiana famiglie Adhd, www.aifaonlus.it), mi sono messa in contatto con Astrid Gollner, presidente dell’Aifa Lombardia, che a sua volta mi ha consigliato di rivolgermi alla neuropsichiatria di Bergamo, centro di riferimento per l’Adhd».
Disturbo oppositivo provocatorio
A scuola Riccardo spesso «superava i limiti»: «Si alzava quando doveva stare seduto, era distratto e sempre in movimento». La diagnosi è arrivata nel corso della seconda elementare: Adhd e Dop, disturbo oppositivo provocatorio. «Non è stato facile accettarla – spiega Anna –, ma poter dare un nome a ciò che stava accadendo è stato un sollievo. Ho incominciato a studiare, a partecipare alle serate di approfondimento dell’associazione. Mi sono sforzata di mettere a punto nuove strategie educative. Su proposta dell’Aifa ho seguito un parent training, cioè un corso di formazione per genitori, strutturato in una decina di incontri durante i quali uno psicologo ci ha fornito strategie d’azione concrete. C’è un’iniziativa analoga anche per gli insegnanti, il teacher training, articolato più o meno nello stesso modo. Per i bambini, invece, c’è la terapia cognitivo comportamentale. L’ideale è intervenire contemporaneamente con tutti questi strumenti e in effetti i cambiamenti si vedono. Mio figlio ha notato che l’ambiente e l’atmosfera intorno a lui cambiavano ed è migliorato, il disturbo oppositivo provocatorio si è attenuato. I problemi restano, in modo altalenante, con periodi di maggiore calma e altri di riacutizzazione».
Il sostegno dell’associazione Aifa
L’incontro con l’Aifa è stato fondamentale per Anna che col tempo è diventata referente dell’associazione per Bergamo, per poter offrire ad altri l’aiuto che lei stessa ha ricevuto: «Il corso per genitori, in particolare, mi ha aiutato moltissimo. Una delle strategie suggerite prevede di creare una specie di tabella a premi. Bisogna evitare di sottolineare gli atteggiamenti sbagliati, ed è importante invece incentivare quelli positivi. Ogni settimana si sceglie con il bambino un obiettivo, anche molto semplice, come per esempio quello di lavarsi i denti tutte le sere senza essere continuamente sollecitato. Quando la richiesta viene soddisfatta, si mette una crocetta sulla tabella, e dopo un certo numero di risposte positive si concede una ricompensa, anche quella concordata: per esempio leggere insieme una fiaba in più la sera o una gita al parco avventura. Ora che Riccardo è cresciuto non compiliamo più la tabella ma mettiamo in atto comunque comportamenti simili: per esempio se svolge i compiti senza dover insistere, sgridare e richiamare per tutta la settimana la domenica può uscire in bicicletta con i suoi amici».
Il rapporto con la scuola, soprattutto negli anni della scuola primaria, è stato molto faticoso: «Abbiamo avuto l’impressione – spiega Anna – che non ci fosse una preparazione adeguata a rendere la scuola davvero inclusiva e accogliere bambini con questo disturbo. Ho chiesto al dirigente scolastico di poter formare gli insegnanti a mie spese, fornendo per qualche ora l’assistenza di una psicologa e mi è stato consentito: non si è trattato di un corso completo come il teacher training ma almeno di una prima infarinatura. Avere a che fare con bambini come mio figlio è impegnativo. Raramente viene accordato loro fin dall’inizio un insegnante di sostegno, a meno che non siano diagnosticati anche dei disturbi di apprendimento».
Riccardo ha comunque avuto la possibilità di essere affiancato da un educatore: «La sua presenza non copriva l’intero orario scolastico ma per noi è stata di grande aiuto. I bambini con Adhd vengono spesso considerati ingestibili, perché sono impulsivi, non capiscono le punizioni, non imparano dall’esperienza come i loro compagni, non riescono a gestire le frustrazioni, accumulano ed esprimono molta rabbia. Sono fatti così, non aspettano il loro turno, non riescono a controllarsi, anche e soprattutto a livello fisico. La terapia cognitivo comportamentale li aiuta a incanalare le energie, a gestire le emozioni. Crescendo, l’iperattività fisica ed emotiva gradualmente diminuiscono, possono imparare a controllarsi, sono comunque un po’ irrequieti interiormente e distratti, il disturbo resta ma in forma attenuata».
Riccardo all’inizio rifiutava le terapie: «Non voleva andare – osserva Anna – diceva che non gli servivano. Col tempo, però è riuscito a creare un rapporto costruttivo con la psicologa, ha capito che gli era di supporto e adesso ci va volentieri. Le sedute vengono sospese in alcuni periodi e poi riprese, mio figlio col tempo ne ha riconosciuto il valore».
Solitudine ed emarginazione
Molte famiglie con bambini Adhd sperimentano una condizione di solitudine e di emarginazione: «Negli anni della scuola primaria il rapporto con le altre mamme e con i compagni è stato davvero complicato. Pochissime si dimostravano comprensive. In quest’ambito pesano molto l’ignoranza e i pregiudizi, molti si fermano alle apparenze. Abbiamo subito insulti, siamo stati esclusi da tante situazioni d’incontro, anche dopo aver spiegato che il comportamento di Riccardo non era dovuto alla maleducazione o a un difetto di carattere ma a un disturbo. Alcuni mi hanno detto chiaramente che avrebbero voluto prenderlo a schiaffi». Per fortuna lui non se n’è reso conto, o non ha dato peso a questa situazione: «È sempre riuscito a trovare almeno un compagno o due con cui andava d’accordo. Abbiamo creduto in lui, abbiamo investito tempo ed energie per aiutarlo. Aveva una scarsa autostima, si fidava poco degli altri, aveva bisogno di essere stimolato e sostenuto, perché in classe lo sgridavano continuamente. I suoi diari della scuola primaria sono pieni di note, anche due o tre al giorno, gli davano punizioni faticosissime da sopportare per un ragazzino con problemi di iperattività, come stare fermo al posto durante l’intervallo. Quando usciva da scuola correva all’impazzata per scaricare la tensione. Ci voleva un giro in bici di un’oretta prima di poterlo portare a casa a mangiare. Sono stati anni duri, ma col tempo è migliorato moltissimo».
Il ruolo della squadra
Prezioso il ruolo della squadra di rugby: «Gli allenatori sono molto preparati – dice Anna –, sanno che cos’è l’Adhd, si comportano in modo inclusivo, sanno gestire i momenti più impegnativi tra i ragazzi. Tra loro c’è anche una psicologa che sorveglia le dinamiche e interviene se c’è bisogno. Riccardo ha preso questo impegno seriamente e si sta integrando bene nel gruppo. Corre, si butta nella mischia, ci mette moltissime energie. Vincere o perdere non è così importante, valgono prima di tutto l’amicizia e il rispetto dagli avversari». Anche per l’Adhd l’unione fa la forza: «L’associazione Aifa – sottolinea Anna, che è referente provinciale – aiuta a non sentirsi soli. A Bergamo abbiamo un gruppo di mutuo aiuto per i genitori, che si ritrova una volta al mese al centro La Trottola di Colognola e uno sportello di ascolto gestito da una psicologa come primo strumento gratuito di orientamento e di consulenza. Organizziamo anche serate informative gratuite sul territorio per far conoscere l’Adhd e dare un’idea delle strategie che si possono attuare. Ci sono parent training e teacher training. Ogni tanto, poi, ci ritroviamo per un picnic o una gita con i nostri ragazzi. Stare insieme ci dà coraggio».
© RIPRODUZIONE RISERVATA